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COVID-19: La bussola del guaritore ferito

18 Apr 20

Di Linda-Arzenton
Confesso, non riesco a fare una riflessione su quella che al momento dovrebbe essere la solitudine collettiva del mondo. Ogni singolo essere umano vive la propria condizione di isolamento in modo unico.
Le finestre delle case che affacciano sul pianeta terra offrono storie di vita per tutti; un romanzo maestoso, mondiale, scorci intrecciati di donne e uomini che hanno smesso di lavorare, di alcuni che hanno iniziato a farlo con le mascherine ffp2 e di altri che le mascherine hanno iniziato a cucirle in casa, risvegliando l’uomo-artigiano, l’atavico. Storie di molti in isolamento, chi da troppo e chi da poco (e anche oramai di chi non più); alcuni in campagna e altri in città, chi soli e chi con i figli, il marito che pesta di botte, la zia schizofrenica, mia sorella infermiera e il guaritore ferito, che sarei io. Lingiardi, sull’articolo di Repubblica del 3 aprile, cita Jung e scrive “chi sceglie una professione d'aiuto spesso lo fa perché conosce il dolore. Diventerà un guaritore ferito. Quindi chi cura va curato, chi accudisce va accudito. E questo sarà il compito di altri guaritori feriti che sono gli psicologi e gli psicoterapeuti.”
Mi sono iscritta all’Albo della professione il 23 marzo 2020, circa quattordici giorni dopo l’esordio pandemico del virus in Italia. Non ho pazienti, il mio tuffo nel mondo professionale è stato stroncato dall’ondata feroce di covid-19. Prima ancora di chiedermi cosa mi succederà mi domando, come starà la gente, il mondo tutto?  Inizia così la mia ricerca affannosa di sapere, del come agire, come intervenire, come nascerà il trauma, che maschera vestirà al termine della pandemia. Mi suggeriscono di leggere qualche scritto di Van der Kolk, e ne ordino un carrello di libri per capire, prevenire, cercare di analizzare il fenomeno. Leggo articoli dalla mattina alla sera, frugo nella confusione del dubbio alla ricerca di una chiave, una direzione corretta per iniziare a scrivere l’incipit di quella che (forse) sarà la mia professione. Mi interrogo sul significato di fenomenologia, di come si interessi a quello che è l’umano, la vita, e tutto il resto. Ma qual è il mio posto in quello che è il mondo dell’Altro? Come reagiranno i miei esistenziali a questa assurda esperienza. Ne uscirò troppo ferita (o troppo poco) per esserlo davvero, un guaritore? Dov’è diretto il Nord della mia bussola?

Mentre scoccava il lockdown generale ho avuto per qualche ora la possibilità di scegliere dove svolgere il periodo di isolamento. Mi trovavo a Firenze e dovevo solo capire quale imbocco dell’Autostrada del Sole prendere. Da un lato Roma, e i suoi cinque milioni di abitanti. Dall’altro Bologna, per tirare su dritto fino all’uscita Rovigo Nord sfrecciando sulla Regionale 10 Padana Inferiore, verso il mio paese di residenza in Veneto: 2146 anime o giù di lì. Spegnere poi il motore solamente una volta arrivata in quella che Mandel'štam descriverebbe come “stirata, pieghettata senza grinze, respirante miracolo, pianura.” Il profondo Nord, dove vivono i miei genitori, nella terra piatta veneta.
Dove abitano è la casa rossa, un casale in mattoni faccia a vista con sconfinati ettari di frumento intorno; i primi fiori della primavera sbocciati ieri dal profumato frutteto. Unica forma di vita che li accompagna è un cane lupo, espropriato alla sua genetica dai ghiacci e restituito alla triste palude. Nei dintorni, nessuno. Le prime case abitate sono a più di novecento metri. Le notti sono fitte di stelle. L’upupa canta il tramonto. Un luogo che sa essere magico, ma anche maledetto, e che ho abitato per diciotto anni.
La casa che ora vivo si trova a 492 km di distanza, direzione sud. La città è lercia e i marciapiedi emanano una puzza putrida di topo. Pappagalli esotici planano sui cassonetti insieme ai rivali gabbiani. Il mare di piombo a più di 50 km a ovest.
Così il balconcino di quattro metri quadri diventa il mio verde rifugio. L’affaccio è il pezzo forte. L’occhio nato sull’orizzonte infinito della pianura si schianta da adulto contro il cemento grigio che circonda l’appartamento. Il punto di fuga è direttamente l’azzurro cielo. I palazzi sono scrostati così tanto che sembrano gridare “guerra!” Tracce di bombe e granate su di loro. Per solo un istante ne vedo le facciate della cattedrale di Plaça de Sant Felip Neri, a Barcellona. Ricordi.

Ma ecco che è quasi il tramonto, una luce si accende nel palazzo di ovest, e subito dopo un’altra ancora a nord. E poi un'altra e un'altra e le cucine di tutte le abitazioni sono illuminate. E’ scesa la sera. Il rumore dei tegami rimbalza tra le pareti. I miei fratelli e le mie sorelle si preparano per la cena, Roma ha fame. Io di queste persone nulla so, ne spio solo le voci e i movimenti, i giochi di luce proiettati dalle lampadine sui vetri. Ne conosco i bioritmi, le canzoni preferite cantate dallo stereo, i litigi, le pietanze del mezzogiorno, i vizi del fumo. Niente più. Eppure, mi sono così fraterni. E allora comprendo che quel giorno, alla guida della mia auto, quando ancora la pandemia sembrava un brutto scherzo, già sapevo di esserlo un guaritore ferito. Già possedevo la segreta inclinazione del mio ago calamitato. La bussola del guaritore oscilla grazie alla forza magnetica del vissuto. Per me che il dolore è sempre stato piatto, solitario, grigio come la nebbia che scende ad ottobre e si ritira con gli ultimi carri del carnevale ho così scelto te, città.
La mia scelta sempre sarà la gente, l’incontro, l’umana terra, la vita.

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