Si è parlato molto, nei media classici (giornali, radio e televisione) e ancor più nei social, di questa Didattica a Distanza, ossia la misura adottata per far fronte alla chiusura delle scuole attraverso un investimento sui meccanismi della comunicazione digitale e di rete. Lo si è fatto esprimendo giudizi alternanti. Ma, nel complesso, è possibile cogliere, a tre settimane dal varo della forzata esperienza, una qualche soddisfazione, espressa soprattutto da parte dei responsabili politici, per l’essere riusciti a non bloccare l’attività scolastica nel suo complesso, malgrado che sussista tuttora una non trascurabile fetta della popolazione studentesca non ancora adeguatamente attrezzata né garantita da servizi di rete adatti in vista di un corretto espletamento del lavoro scolastico.
Non è questo il problema, anzi. Carenze nelle dotazioni strumentali e connettive ce n’erano, lo si sapeva bene. Solo che, per una serie di ragioni che hanno a che a fare con il mantenimento dell’insieme degli interessi che tradizionalmente gravitano attorno alla scuola (politici, sindacali, accademici, editoriali, professionali, ecc.) e che premono per la conservazione dello status quo istituzionale, lasciando poco spazio a soluzioni innovative di sistema, si è preferito seguire, un po’ da parte di tutti, la via più comoda di rappresentarsi e presentare i problemi del digitale come sostanzialmente marginali, in relazione alla loro presunta limitatezza quanto a significatività culturale e didattica. Una scelta, questa, che nel delegare all’autonomia della scuole e dei singoli docenti il compito di decidere dell’importanza di investire su dotazioni e azioni di tecnologia elettronica e informatica ha per un verso lasciate sprovviste di strumenti e competenze determinate aree ma non ha impedito che in altre invece la scelta di investire andasse al di là della semplice acquisizione di mezzi performanti e si misurasse con l’esigenza di saggiare nuove performances culturali e didattiche (ho trattato il tema in Zona franca. Per una scuola inclusiva del digitale, Roma, Armando 2019, in cartaceo e in digitale).
Che il sistema abbia retto quando da un giorno all’altro è stato riambientato dalla sua tradizionale collocazione nel mondo fisico alla nuova collocazione impropriamente etichettata come virtuale ma di fatto mostratasi molto reale, che, insomma, non ne siano saltati i meccanismi fondamentali del funzionamento didattico ha indubbiamente del miracoloso, considerato che fino a poche ore prima della trasmigrazione i discorsi sul digitale che maggiormente circolavano in ambito scolastico avevano a che fare con i temi del pericolo, dell’evasione, della distrazione, cioè di una concettualizzazione di base che tendeva ad associare comportamento digitale ad alienazione, secondo quella visione totalizzante che, per fare un unico esempio, consentiva di far assorbire e imprigionare il tema classico del bullismo dentro la categoria doppiamente negativa del cyberbullismo.
Ma, come dicevo, la tecnologia induce ma anche riproduce. Induce a fare e pensare cose nuove ma anche rispecchia e amplifica cosa si è abituati a fare e pensare.
Niente di male, in tutto questo. Salvo che, non sapendolo, si corre il rischio di identificare una sola delle due funzioni, e sacrificare l’altra. Può così capitare che per un verso si voglia riprodurre, in rete, la scuola tale e quale era prima. O che, per un altro verso, si voglia costruirne una del tutto diversa, sfruttando al meglio le potenzialità della tecnologia. Questo non è un grosso rischio, si dirà. E infatti c’è poco di male nello scegliere l’una o l’altra via: provare, insomma, se è possibile e in che misura è possibile simulare in rete le caratteristiche della scuola ‘vera’ oppure partire da caratteristiche nuove e andare avanti in quest’altra direzione.
Un esperimento così circoscritto era fattibile (e avremmo dovuto farlo) prima dell’avvento del coronavirus. Ora non lo è più. Perché l’esperienza della Didattica a Distanza non la si sta facendo con lo spirito leggero di chi fa ricerca (vediamo se va) ma con quello di chi non ha alternative (salviamo il salvabile).
Non solo, c’è anche che non siamo affatto nelle condizioni psicologiche adatte a farci ragionare disinteressatamente sui pro e i contro di questa prova. Perché siamo tutti sotto shock in quanto docenti, dirigenti, genitori, librai, sindacati, ecc. Ognuno è posto di fronte ad un’immagine di morte o peggio ancora sente di portarla dentro, non nascondiamocelo. Non era mai capitato prima, in modo così massiccio, e in una condizione individuale così segnata da isolamento fisico. Ognuno si augura, ovviamente, di scamparla, anzi sa che, considerando il dato statistico e osservando le precauzioni, ha ottime possibilità di scamparla, ma sa anche, se è onesto con se stesso, che alcune delle precedenti sicurezze e delle precedenti abitudini sono destinate a morire se non sono già morte. Lo vogliamo ammettere o no, siamo tutti angosciati. E trasmettiamo la nostra angoscia, non necessariamente a parole, a chi convive accanto a noi. E’ stato notato come pure i cani e i gatti domestici partecipino di questa situazione. Pensiamo allora che non ne siano partecipi i nostri figli e nipoti, che basti parlarne poco, di questo stato, per garantirsi e garantire loro serenità?
Siamo onesti. Non è così.
E allora, cosa dovrebbe fare una scuola che abbia dignità rispondente alla sua intestazione, disinteressarsi forse di questa condizione esistenziale dei ‘suoi’ studenti e farlo proprio mentre entra, non richiesta, dentro le loro case? Ricordare che esistono gli esami, che bisogna studiare da pagina a pagina perché incombono il test e il voto, ammonire Gianni che si distrae o versare lacrime di coccodrillo per Pierino che vive la condizione dello sconnesso? Lasciatemelo dire: così facendo la scuola va al di là della decenza.
Non c’è che una risposta positiva, o almeno io non ne ho che una.
La scuola deve accogliere, far sua questa condizione emergenziale. Si badi bene: non dico che deve accettare, cosa che sa di concessione e di gerarchia; dico che deve accogliere, scelta non facile certo, ma che sa di allargamento e di ampliamento del sé, della sua stessa identità, di quel che insegna e di come lo fa (è preziosissimo, a questo proposito, l’intervento di cura delle parole che propone Chandra Livia Candiani nel videochannel di Psychiatry on line qui sotto riproposto).
Deve, insomma, sentirsi chiamata a far fronte ad una vera e propria emergenza educativa. Deve autoeducarsi, mettersi in gioco. Perché qui si giocano le sorti della sua stessa sopravvivenza, ammesso che non se le sia già giocate con i comportamenti di prima: detto fuori dei denti, che se ne fanno oggi, i giovani, per il loro esistere intendo, di tante delle conoscenze scolastiche che sono state loro imposte in modo asettico e burocratico?
Di questa prova del coronavirus i piccoli e i meno piccoli del presente racconteranno un giorno ai loro figli e nipoti. Se ora li mettiamo nelle condizioni di parlare, in tutti i modi, con gli strumenti di cui dispongono, con lo stile e le possibilità di ognuno, oggi che abbiamo strumenti e occasioni per farlo, non perdiamo tempo ma al contrario lo guadagniamo, creando al contempo le condizioni perché un giorno, quando rievocheranno questo trauma possano ricordare che in quella drammatica occasione hanno ricevuto da una scuola ‘allargata’ un sollievo, un aiuto a crescere che gli è servito per la vita, e non un problema in più.
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