“Se vogliamo vivere per sempre dobbiamo continuare ad adattare noi stessi al nostro ambiente e il nostro ambiente a noi stessi e dobbiamo inoltre prevedere e anticipare gli adattamenti che un giorno saranno necessari”. (Money-Kyrle, 1931)
Nonostante l’emergenza non possa esser prevista per definizione e non possano essere prescritte regole di comportamento astratte e generali a priori, le sue dinamiche in atto possono essere vissute e studiate come un esperimento di dimensione straordinaria ed eccezionale che può fornire utili strumenti di elaborazione sia per quando ci sarà il ritorno a una relativa quotidianità, per quanto non sovrapponibile alla quotidianità antecedente la crisi d’eccezione, sia per avere una dotazione esperienziale da utilizzare in eventuali successivi stati emergenziali.
Pur essendo l’epidemia da coronavirus percepibile come una novità di straordinaria evidenza e intensità che rompe gli usuali parametri che regolano le relazioni, essa è però accompagnata da aspetti di continuità con alcune situazioni del recente passato che ci hanno costretto a faticose riflessioni.
La globalizzazione dell’economia, la presenza di Internet, i nuovi media, la relativa compressione dello spazio e la modificazione del tempo nelle comunicazioni, sono, insieme all’inquinamento ambientale, alcuni dei fenomeni che hanno preceduto e accompagnato questa fase e che, avendo penetrato nel nocciolo duro dell’esperienza psichica, hanno cominciato a ristrutturare le transazioni inconsce tra gli esseri umani attraverso nuove e spesso drammatiche modalità.
Dovremmo, pertanto, prendere le distanze da opprimenti vissuti cataclismatici e costruire le nostre riflessioni, adottando la funzione dell’erraticità, cioè di un costante lavoro di interrogazione di una realtà evasiva e versatile, plurale e ambivalente, e di come noi individualmente abitiamo e ci posizioniamo in essa con una dubbiosità discreta, con flessibilità e cautela, con uno scetticismo non cinico, ma permeato di una certa ingenuità indagatrice.
Dobbiamo porre molta attenzione nell’osservazione di modificazioni degli stili di vita, tanto intense quanto confuse, di vettori di cambiamento che velocemente modificano la loro traiettoria in situazioni di emergenza, dando il giusto valore a comportamenti sociali segnale, pur riconoscendone la transitorietà ed evitando di trarre conclusioni catastrofiche del tipo “tutto è cambiato” o, per converso, conclusioni consolatorie del tipo “sostanzialmente nulla è cambiato”.
Sono molte le interrogazioni che dovremmo porci sia in termini di abitabilità privata, che in termini di edificazioni pubbliche, e ancora in termini di urbanistica. Queste interrogazioni poi dovrebbero intrecciarsi con i dubbi sull’attuale modello di sviluppo, sul senso di ciò che chiamiamo progresso. Per poterlo fare però non possiamo fare salti idealistici. Così come la natura non facit saltus, anche i cambiamenti devono essere contraddistinti da fasi intermedie, in cui l’audacia e la cautela vadano a braccetto.
La prima domanda da porci quindi è: Che cosa possiamo fare nell’immediato? Quali cambiamenti possiamo apportare al nostro modo di costruire e abitare le nostre case e le nostre città senza ambire immediatamente alla città ideale o, all’opposto, senza farci corrodere dal sospetto del contagio e di disumanizzarci, fabbricando l’anonimato e distanziando ferocemente i corpi?
Nel periodo della pandemia da più parti si è proposto di sanitarizzare, o meglio ospedalizzare gli spazi domestici, dotandoli apparecchiature sanitarie (termometro, saturimetro, attacco per erogatore di ossigeno, ecc.).
Pensiamo, però, che tali proposte siano destinate ad affievolirsi fino a scomparire dal giorno dopo la comparsa del vaccino anti-Covid-19 e che quindi valga la pena di ragionare in termini prospettici e preventivi e non pensarci in un’eterna “guerra” contro un misterioso virus. L’innovazione deve sforzarsi di essere sostanziale e non solo strumentale.
Per Peter Zumthor l’architettura è esposta alla vita, quindi proviamo a immaginare come ristrutturare gli attuali spazi di vita. Forse è ora di pensare agli appartamenti con meno open space e più spazi suddivisi per preservare tanto l’intimità, quanto la possibile socializzazione, con la rivalutazione dei corridoi che separano le specifiche funzioni degli spazi, con la presenza dell’italianissimo balcone che, durante l’epidemia ha permesso l’incontro non virtuale di suoni e voci.
In tal senso la soluzione che hanno attuato Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal a Parigi e a Bordeaux è semplicissima. Hanno dato circa 30 mq a ciascuna delle mille abitazioni esistenti, aggiungendo un pezzo all’edificio; ogni famiglia ha potuto scegliere di sistemare un terrazzo, un giardino pensile oppure una stanza in più eventualmente per l'anziano, che così avrebbe evitato quelle residenze sanitarie assistite, che, ahinoi, si sono rivelate un brodo di coltura del coronavirus.
Non dimentichiamo che tali ristrutturazioni sarebbero l’occasione per provvedere a interventi antisismici.
Lo spazio della casa, del condominio e lo spazio pubblico, debbono quindi essere permeabili e flessibili. La flessibilità è la cifra della buona architettura. Nel tempo sono stati trasformati gli anfiteatri Romani, sono cambiate le chiese con il Concilio di Trento, sono state riconvertite le fabbriche del Novecento. Dobbiamo continuare a trasformare, anche negli ambiti storici. Collegata alle abitazioni urbane vi è una serie di spazi verdi più o meno prossimi. Occorre unirli fra loro ed averli sul nostro cammino per raggiungere il lavoro, la scuola, gli uffici pubblici, gli ospedali etc.
Nel 1905 in una cartolina postale inviata alla moglie il 13 settembre, Freud evidenziava la mancanza di verde nel paesaggio cittadino genovese: “Tutto pietra, solo vie… e piazze con palazzi, inoltre il porto, fortezze, il mare, il cimitero, tutto estremamente elegante”. In realtà Genova ha diversi spazi verdi, male o per niente collegati fra loro e, quindi scarsamente fruibili quando è necessario il cosiddetto distanziamento sociale.
Sindaci e sindache (soprattutto) di città grandi e piccole (Parigi, Copenhagen, Vienna, Melbourne, Barcellona, Grenoble, Pontevedra, Lubjana) si sono dati l’obiettivo di dare ai cittadini un ambiente più sano, intervenendo sulla mobilità: ridurre il traffico automobilistico a favore di tragitti percorribili a piedi o in bicicletta. È una sorta di Green New Deal: la città viene riconfigurata mediante qualità e durata della mobilità: 20 minuti per raggiungere i luoghi essenziali. Prende forma una grande operazione di decentramento. E nella nostra città vi è una grande tradizione di decentramento.
Riqualificando il verde e concatenandolo, si formerebbero a Genova corridoi ecologici che si innesterebbero nel sistema delle vie e delle piazze e ogni quartiere potrebbe averne almeno uno che va dai monti al mare: da Coronata a Villa Bombrini, dal Righi a Ponte Parodi, dai Forti alla Foce, etc. Strategie come questa sono state adottate in Europa tramite gli adeguati finanziamenti e hanno poi prodotto performance economiche.
Le nostre città, modello da sempre per la qualità della vita, debbono continuare a essere luoghi del caos, ma non del disordine e dell’inquinamento. Lavorando sulle piccole cose si può ottenere più qualità – dell’aria e non solo – per quel nostro palinsesto imprevedibile di traiettorie, sguardi e pensieri che abbiamo nella mente e nelle gambe fin da quando usciamo di casa al mattino e ha bisogno, prima di ricomporsi nel ritorno al punto di partenza, di avere più aria: “Faire circuler l'air et les hommes”.
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