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CRIMINI DI SCIENZA. PSICHIATRI, CRIMINOLOGI E LA GRANDE GUERRA

26 Giu 15

Di Pierpaolo Martucci, rita.corsa

ABSTRACT

One hundred years ago, during First World War, the European intellectuals were involved in the so-called Krieg der Geister, a "cultural battle" between scientists and academics of the belligerent Nations.
The Authors analyze the nationalist mobilization of positivists psychiatrists and criminologists in Italy and recall two episodes in the life of Sigmund Freud, related to the events of the psychoanalytic movement during the Great War.

 

Key words: First World War, Psychiatry, Criminology, Psychoanalysis.

 

 

Cento anni fa, nel corso della Prima Guerra Mondiale gli intellettuali europei furono coinvolti nella cosiddetta Krieg der Geister, una “battaglia culturale” fra scienziati e accademici delle Nazioni belligeranti. 

Gli Autori analizzano la mobilitazione nazionalista degli psichiatri e criminologi positivisti in Italia e  rievocano due episodi della vita di Sigmund Freud, legati alle vicende del movimento psicoanalitico durante la Grande Guerra.

 

Parole chiave: Prima Guerra Mondiale, Psichiatria, Criminologia, Psicoanalisi

 

1.     Cent’anni fa la Grande Guerra degli scienziati

 

A partire dallo scorso anno, nel centenario della Grande Guerra – l’ «orribile devastazione che ha sommerso il mondo», per usare le parole di Viktor Tausk – si sono moltiplicate le rievocazioni nei campi più disparati. Giusto un secolo or sono l’Italia rompeva la neutralità ed entrava nel conflitto. Conflitto che non fu semplicemente la soglia dell’ «età della violenza» – secondo la definizione di Ferguson (2008) – la causa prima della catena di eventi sfociati nelle dittature degli anni Trenta, nella Seconda Guerra Mondiale, poi nella Guerra Fredda, sin nella odierna «terza guerra mondiale a pezzi», per riprendere la efficace espressione di Papa Bergoglio.

Fu anche la grande anteprima dei crimini di guerra e contro l’umanità, anche se questa verità è stata in pratica occultata o rimossa dalla intervenuta focalizzazione sulle posteriori vicende degli anni Quaranta. Eppure sin dal 1914 vennero poste in essere una sequenza di azioni belliche “criminose” (nel senso di precise violazioni di convenzioni internazionali e norme consuetudinarie già esistenti, quali la Convenzione dell’Aja del 1907) di gravità crescente: internamento ed esecuzioni di massa di civili; bombardamenti aerei terroristici sulle città; guerra sottomarina indiscriminata; uso massiccio di aggressivi chimici e di armi particolarmente crudeli; infine il primo grande genocidio del XX secolo, quello armeno. Non è certo questa la sede per indagare i motivi dell’attenzione solo marginale che la ricerca sulle atrocità del Novecento ha dedicato alla situazione nella Prima Guerra Mondiale, né per spiegare il sostanziale disinteresse manifestato dalla criminologia internazionale su tali temi (cfr. Jamieson, 2012; Maier-Katkin, Mears, Bernard, 2009).

Ci limitiamo ad osservare che la focalizzazione sui contesti posteriori in cui agirono entità totalitarie – prima fra tutte quella nazionalsocialista – ha senz’altro favorito quella traslazione della responsabilità dai singoli alle “ideologie antiumane” che ha di frequente attraversato le narrazioni storiografiche posteriori. Mentre l’aspetto imbarazzante (ma innegabile) del primo conflitto mondiale con tutte le sue spaventose ricadute  risiede nel fatto che esso ebbe origine e sviluppo tra Stati il cui ordinamento era democratico o comunque liberale, con la sola eccezione della Russia zarista.  E altrettanto scabrosa rimane la circostanza che alla mobilitazione totale delle popolazioni aderirono – spesso entusiasticamente e con scarse eccezioni – le elìte accademiche e professionali del tempo, ben presto schierate sui contrapposti fronti della Krieg der Geister, la “guerra degli spiriti” che oppose per anni scienziati e studiosi europei.

Criminologi, antropologi e psichiatri italiani non fecero eccezione, abbandonando rapidamente quel cosmopolitismo dei saperi vagheggiato dal Positivismo in nome del primato universale della scienza. 

 

2.     La mobilitazione degli psichiatri e criminologi italiani

 

Nei primi anni del Novecento in Italia era ancora profonda l’impronta lombrosiana sulla psichiatria e frequente la commistione con la criminologia e l’antropologia.  Questo perché permaneva forte l’esigenza di garantire alla psichiatria la “scientificità” delle altre branche mediche, e il lombrosiano “metodo della stadera”, con «la raccolta, la descrizione e la catalogazione di fatti positivisticamente intesi» appariva il più adatto allo scopo. Non è senza significato che Enrico Morselli, figura centrale della psichiatria italiana di quegli anni, ancora nel 1926 dedicasse a Cesare Lombroso (indicato, insieme ad Ardigò, «gloria del pensiero italiano») uno dei suoi due controversi volumi su La psicanalisi.  E l’alienista Marco Levi Bianchini, il primo fondatore nel 1925 della Società Psicoanalitica Italiana, si dichiarava seguace tanto di Freud che di Lombroso, definendo quest’ultimo «un grande iniziato», accostandolo a Karl Marx e addirittura a Gesù Cristo (Levi Bianchini, 1921, p.109).

Ma questa sopravvivente influenza aveva rimosso da tempo – e in misura sempre più radicale – un tratto dominante nella cultura dell’ultimo positivismo lombrosiano, ossia il socialismo riformista e l’intransigente pacifismo:  «Ma qual delitto più criminoso della guerra, che è un ammasso intero di delitti su grande scala di stupri, incendi, saccheggi, provocati da cause simili a quelle dei delitti comuni, come le ambizioni personali, le cupidigie ecc., perdonati appunto e solo perché in grande scala!» (Lombroso, 1896).

Al contrario, la fedeltà più pervicace agli schemi lombrosiani si manifestò proprio fra gli alienisti della medicina militare. Già nel 1911 in occasione della guerra di Libia (1), Gaetano Funaioli, ufficiale medico assistente della Clinica psichiatrica di Roma, sosteneva la necessità di organizzare anche in Italia un servizio psichiatrico militare analogo a quello già presente in altri Stati europei:

«Sarebbe, d’altra parte, poco decoroso, che i medici militari italiani si disinteressassero di una tale questione vitale, dappoichè dall’Italia è partita per opera di Lombroso e sua scuola, e per opera di Morselli, Tamburini e Bianchi, la scintilla che ha irraggiato tanta luce di vero in fatto di Scienza psichiatrica e di Psicologia criminale, le cui applicazioni interessano nel modo il più diretto, tra tutti gli ambienti collettivi, quello militare» (Funaioli, 1911, p.338).

 

E di lì a poco la militarizzazione della psichiatria italiana sarebbe stata un fatto compiuto.  Superate le incertezze del primo anno di neutralità e qualche iniziale tentativo di obiettività “scientifica”, con l’entrata in guerra del nostro Paese nel maggio 1915 la grande maggioranza degli psichiatri e criminologi italiani si schierò senza riserve per l’intervento.  La direzione dei Quaderni di psichiatria  – la rivista fondata da Enrico Morselli e affidata alla redazione del figlio Arturo – nell’ editoriale “Psichiatria e guerra” esortava patriotticamente ad arruolarsi:

«Noi pensiamo che la classe alienistica Italiana sia pronta a tutti quei sagrifizii di persona, di comodità e di interessi, che il bene supremo del Paese oggi reclama da tutti i suoi figli. Noi sappiamo già del fervore patriottico con cui molti dei nostri colleghi hanno risposto al richiamo sotto le armi (…). Vada ad essi tutti il nostro più caloroso plauso; vada il nostro saluto augurale: potrà la Psichiatria Italiana segnare per loro merito nei suoi fasti una nuova e sublime pagina di gloria!» (2).

Pochi mesi dopo, già 170 medici psichiatri, quasi tutti di provenienza manicomiale, risultavano mobilitati (3). Il famoso alienista Augusto Tamburini fu incaricato di organizzare il Servizio neuropsichiatrico di guerra, nella cornice della Sanità Militare. In ciascuna delle quattro armate impiegate sul fronte vennero creati reparti medici specializzati ed alla fine del conflitto erano attivi

dieci reparti psichiatrici e ospedali da campo ed  una trentina di reparti specializzati negli ospedali o nei manicomi delle retrovie e della zona territoriale, che avevano a vario titolo preso in carico come minimo 40.000 soldati.

 

3.     Bonificare l’esercito e “psichiatrizzare” il nemico

 

L’immane conflitto determinò la proliferazione senza precedenti delle psicosi belliche e la psicopatologia “da trincea” sarebbe divenuta, inevitabilmente, il capitolo clinico e teorico impostosi con prepotenza allo studio degli psichiatri e degli psicoanalisti del primo ventennio del secolo scorso (4).  Ma l’apparato della psichiatria militare italiana, legato a modelli di derivazione lombrosiana, tendeva a rigettare l’interpretazione psicogena dei disturbi, preferendo spiegarli come la conseguenza dei traumi bellici in individui «deboli», «degenerati» o «predisposti  costituzionalmente alle psicopatie o alle reazioni criminose», oppure come casi di simulazione.  Compito “patriottico” degli alienisti  era individuare i frodatori e bonificare l’esercito dagli elementi inaffidabili:

«Per tutti costoro, sia che si tratti di veri alienati o di anomali, o semplicemente anche di criminali, l’importante è di toglierli subito dal fronte e di provvedere alla profilassi morale dell’esercito combattente con l’allontanarne gli elementi che lo possono inquinare. Infatti è disastroso il potere di diffusione di contagio di cui può essere capace un solo alienato paranoico perseguitato-persecutore, o i danni enormi che può cagionare l’esecuzione di delicati ordini affidati ad un graduato che sia alienato o semplicemente psicopatico» (Antonini, 1915, p.340).

 

L’altro aspetto della mobilitazione di medici e scienziati sociali fu il discredito degli studiosi austro-tedeschi a favore di quelli francesi e  la “patologizzazione” e “disumanizzazione” del nemico, con la pubblicazione di studi sulle psicopatie ereditarie presenti nelle dinastie regnanti «degenerate» degli Imperi Centrali o la costruzione di profili criminologici su base etnica dei popoli germanici e dei loro alleati, contraddisti da «primitivismo» e «barbarie atavica»:

«Si sono lette nei giornali notizie raccapriccianti sulle crudeltà commesse dai Bulgari a danno dell’infelice popolo serbo – scriveva un commentatore anonimo – (…) Nulla manca per caratterizzare la jena Bulgara, assetata di sangue; e nulla manca – aggiungiamo – per agguagliare i Bulgari ai loro attuali alleati, maestri e padroni, i Tedeschi. La genesi di questa orrenda, abominevole psicologia etnica, che si trasforma in psicopatologia collettiva, si spiega col criterio antropologico. Si è detto scioccamente che la Antropologia ha fatto bancarotta in questo certame immane di popoli, di nazioni, di razze: ma solo il fatto che noi Italiani ci battiamo pel principio di nazionalità, e l’altro fatto che i Bulgari sono inumani perché di origine Tartarico-Mongoloide, bastano alla rivendicazione della Storia naturale del genere umano» (5).

 

E ancora:

«Se anche non si può riconoscere ai due imperatori perfetta normalità di mente, si deve convenire che le loro anomalie hanno un valore trascurabile a confronto dei larghi moventi psicologici e sociali che hanno preparato la guerra d’oggi […] noi non ci troviamo di fronte a sovrani pazzi che abbiano trascinato i loro popoli; ci troviamo di fronte ad una nazione pericolosa: la Germania» (Lugaro, 1915, p,.413).

 

Era la Krieg der Geister, che indusse Sigmund Freud, nelle sue Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte a chiosare la fine della “ecumene scientifica”: «Anche la scienza ha perduto la sua serena imparzialità; i suoi servitori, esacerbati nel profondo, cercano di trar da essa armi per contribuire alla lotta contro il nemico. L’antropologo è indotto a dimostrare che l’avversario è un essere inferiore e degenerato: lo psichiatra a diagnosticare in lui perturbazioni spirituali e psichiche» (Freud, 1915/1976, p.123).

Ma anche il pensiero e – dettaglio ben più importante – le azioni del padre della Psicoanalisi in quegli anni non furono esenti da contraddizioni, come dimostrano due vicende non troppo note.

 

4.     Sigmund Freud e la «sfortuna»

 

La prima riguarda il caso del grande accademico austriaco Julius von Wagner-Jauregg, primo e sinora unico Premio Nobel (1927) in ambito psichiatrico.  Egli  fu inquisito, insieme ad un vasto gruppo di altri neuropsichiatri,  per  la ferocia dei trattamenti elettrici inflitti ai soldati reduci dal fronte e sospettati di  simulazione. Si trattava di una tecnica derivante da quella ideata agli inizi del Novecento, quando era usuale sottoporre le isteriche «a test con aghi per la disestesia». Gli aghi venivano introdotti superficialmente alle estremità degli arti inferiori e, dopo, veniva fatta  passare della corrente elettrica di bassa intensità.

In Francia, ad esempio, per i casi “intrattabili” il neurologo Clovis Vincent (1879-1947) ideò una forma “persuasiva” di psicoterapia, chiamata torpillage (affondamento, dal francese torpille = siluro), nella quale venivano utilizzate correnti elettriche faradiche e galvaniche. Tale pratica fu ulteriormente perfezionata e, durante la guerra, divenne la famigerata “terapia elettrica”, un vero e proprio strumento di tortura applicato ai soldati che lamentavano varie forme di shock bellici, ritenute dai medici militari mistificazioni più o meno consapevoli, per evitare il ritorno in linea.  Oltre che in Francia, il sistema fu utilizzato da altri Paesi nei fronti contrapposti, segnando alcune «fra le pagine più oscure della cronaca psichiatrica» (Corsa 2013, p.118).

Nei primi mesi del 1920, la Commissione militare della neonata Repubblica austriaca che indagava su abusi e crimini di guerra e si occupava della condotta del futuro premio Nobel, chiese un parere peritale a Freud. Quest’ultimo, che era stato compagno d’università ed amico di Wagner-Jauregg, cercò di scagionarlo. Pur condannando la brutalità e l’inefficacia della pratica elettrica, si dimostrò molto morbido nei confronti del collega:

«Se [la pratica elettrica] è stata usata negli ospedali di Vienna, sono personalmente convinto che, quanto al professor Wagner-Jauregg, i suoi interventi non giunsero mai alla crudeltà. Non sono in grado di garantire per altri medici che non conosco. (…) alcuni medici dell’esercito seguirono la tendenza, tipica dei tedeschi, di realizzare i loro propositi senza guardare in faccia nulla e nessuno (…) La potenza della corrente, come pure la brutalità del resto del trattamento, furono incrementati fino a un punto intollerabile. (…) Non è mai stato smentito il fatto che negli ospedali tedeschi vi furono a quell’epoca dei casi di morte durante il trattamento, e di suicidio in conseguenza di esso. Non sono assolutamente in grado di dire se anche le cliniche di Vienna abbiano attraversato questa fase terapeutica» (Freud, 1920/1976, pp.173-174). L’elusività della risposta fu decisiva per l’assoluzione di Wagner-Jauregg.

D’altra parte proprio la Grande Guerra, con il suo enorme carico di peculiare disagio psichico, aveva dato un contributo decisivo alla diffusione della dottrine freudiane. Il capitolo della psicopatologia bellica  divenne in breve un’area d’intersezione tra la neurologia e la psicoanalisi così potente, da far dichiarare a Ferenczi  che  «(…) le esperienze acquisite con i nevrotici di guerra (…) hanno condotto i neurologi oltre la scoperta della psiche, li hanno condotti quasi a scoprire la psicoanalisi» (Ferenczi, 1919/1992, p.18). Il medico inglese W.H.R. Rivers, da poco convertito alla psicoanalisi, commentava: «Si direbbe che il destino ci abbia offerto (…) una straordinaria occasione per mettere alla prova la verità della teoria freudiana dell’inconscio» (in Zaretsky, 2006, p.142).

Il V° Congresso Internazionale di Psicoanalisi, tenutosi a Budapest poche settimane prima della fine delle ostilità (28-29 settembre 1918), fu ampiamente consacrato ai traumi psichici dovuti alla guerra. Molti interventi furono polarizzati sulla sentitissima materia inerente alla psicopatologia traumatica di guerra: fu un evento «caratterizzato da vari fatti» e, in particolare, «fu (…) il primo congresso al quale partecipassero rappresentanti ufficiali di tutti i governi, in questo caso dell’Austria, Germania e Ungheria. La ragione della loro presenza fu la crescente attenzione che si dava (…) al ruolo delle “nevrosi belliche”. Un libro di Simmel, uscito all’inizio dell’anno, insieme all’eccellente lavoro pratico svolto da Abraham, Eitingon e Ferenczi, avevano impressionato (…) gli ufficiali medici superiori dell’esercito, e si parlava di erigere in vari centri cliniche di psicoanalisi per il trattamento delle nevrosi di guerra» (Jones, 1953/1995, pp. 244-245).

La prima clinica psicoanalitica doveva sorgere a Budapest, come Ferenczi riferiva in una lettera del 8 ottobre 1918, in cui il medico ungherese ragguagliava Freud sulle ricadute pratiche dei dibattiti svoltisi durante il congresso, fra le quali la costituzione di un reparto psicoanalitico sperimentale per il trattamento delle nevrosi belliche. Ma, nel giro di un mese, la sconfitta militare e il collasso dell’impero asburgico vanificarono ogni prospettiva e le sorti della psicoanalisi risentirono pesantemente degli esiti della conflagrazione mondiale, tanto da indurre un disilluso Freud a scrivere le seguenti righe al collega ungherese:

«Caro amico, (…) In verità anche la nostra analisi ha avuto sfortuna. Con le nevrosi di guerra aveva appena cominciato ad attirare l’interesse del mondo, che la guerra finisce (…). Ma la sfortuna è una delle costanti della vita. (…)» (6).

Curiosamente, l’imbarazzante passaggio sembra per certi versi riecheggiare le osservazioni che dodici anni dopo  Louis-Ferdinand Céline avrebbe messo in bocca all’interlocutore di Bardamu, il medico e psichiatra protagonista del suo Voyage au bout de la nuit :

«La guerra, vede, Bardamu, con i mezzi incomparabili ch’essa ci dà di saggiare i sistemi nervosi, agisce al modo di un formidabile rivelatore dello Spirito umano! Ne abbiamo per secoli di che chinarci, meditabondi, sulle recenti rivelazioni patologiche, secoli di studi appassionanti… Confessiamolo francamente… Noi fin qui non facevamo che sospettare le ricchezze emotive e spirituali dell’uomo! Ma adesso, grazie alla guerra, è fatta…» (Céline, 1932/1992, p.90).

Ma Sigmund Freud, probabilmente, non avrebbe gradito l’accostamento.

 

 

 

 

NOTE

 

(1)  È opportuno ricordare che Cesare Lombroso, specialmente dopo il 1890, si oppose con crescente intransigenza al militarismo ed all’imperialismo coloniale europeo dei suoi tempi e si dichiarò da subito contrario alla prospettiva della conquista della Libia, da lui considerata impresa rovinosa e che ebbe luogo due anni dopo la sua morte. Già nell’aprile 1902 aveva scritto: «Tutto prova, che in forma insidiosa, ma sempre più tenacemente progrediente, noi andiamo avvicinandoci a nuovi pericoli, simili o peggiori ancora forse di quelli dell’Eritrea, alla conquista di Tripoli» (Lombroso, 1903, p.245).

 

(2)  “Psichiatria e guerra” (1915): in Quaderni di psichiatria, 6, 285-286.

 

(3)  Cfr. “Psichiatria e guerra” (1915): in Quaderni di psichiatria, 9-10, 397 ss.

 

(4)  Sul tema delle psicosi belliche nel dibattito psicoanalitico del tempo vedi diffusamente Corsa (2013): Edoardo Weiss a Trieste con Freud. Alle origini della psicoanalisi italiana, Roma, Alpes, pp. 107-134.

 

(5)  “Sullo stato mentale dei popoli belligeranti” (1917): in Quaderni di Psichiatria, 5, 224.  Sul tema si vedano le puntuali analisi di Andrea Scartabellati (2007).

 

(6)  Freud a Ferenczi, 17 novembre 1918, in Freud, Ferenczi (1998), pp.335-336. Cfr. anche Corsa (2013),  pp.110-114.

 

 

 

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“Psichiatria e guerra” (1915): in Quaderni di psichiatria, 6, 285-286.

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SCARTABELLATI A. (2007): “Il dovere dei medici italiani nell’ora presente. Biopolitica, seduzione bellica e battaglie culturali nelle scienze umane durante il primo conflitto mondiale”, in Medicina & Storia, 7, 69-94.

 

ZARETSKY E. (2004): Secrets of the Soul. A Social and Cultural History of Psychoanalysi, New York, Alfred A. Knopf. (I misteri dell’anima. Una storia sociale e culturale della psicoanalisi. Milano, Feltrinelli,  2006).

 

 

 

 

 

Rita CORSA    rita.corsa@spiweb.it

Pierpaolo MARTUCCI     martucci@units.it

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