Elisabetta d’Inghilterra, è la storia che volta pagina. Non tanto lei che più tradizionale non si può, e ha fatto nient’altro che il suo dovere, ma un apparato di governo dello Stato del quale ha tenuto conto. Soprattutto di un popolo cocciuto, intelligente, tradizionale, geloso della propria extra-europeicità da sempre. Cosmopolita, tenuto insieme per comuni interessi di facciata (anche e soprattutto commerciali) nei “Dominion”, il “Commonwelt” e qualunque altra Istituzione potesse essere timbrata “Made in England” [01]. I successori odierni si affrettano a promettere “coram populo” che faranno esattamente come lei, nel rispetto scrupoloso della tradizione, ma è difficile pensare che la corona inglese andrà oltre il “business” colorito dei cerimoniale “pour epater le bourgeois”. Carlo III e gli orfanelli cresciuti di Lady Diana, sono poco convincenti, anche se accompagnati dalle rispettive compagne, inquadrati in favore di telecamera mentre s’inchinano a sfiorare qualche mazzo lasciato alla nonna. Ciò che più conta è che sono fuori dalla storia! Il padre loro, sua maestà Carlo III, un re appassito, troppo vecchio per reggere due secoli di tradizione materna, poco credibile nella sua contrizione. Già incoronato un paio di volte, poco dopo la notizia ufficiale della dipartita della madre a Balmoral e durante la comunicazione del cerimoniale delle esequie, Carlo lo sarà ancora molte altre, in questo interminabile funerale. Anche la ben nota e imbarazzante Camilla Parker Bowles (la sua antica “soluzione B”) pare sovraesposta.
Nessuno di questi personaggi “regali” sembra poter colmare il vuoto che un grande impero di abusi e vessazioni democratiche (durate quattro secoli), ormai giunto alla semplice enunciazione di luoghi geografici, attende di essere cassato “de facto”, oltre che dalla storia. Nessuno di codesti Windsor, sfilati in gramaglie sembra avere futuro in questo secondo millennio rovente, rissoso, ipovedente! Almeno 5-6 grandi potenze sono pronte a disputarsi il titolo di “Grande”. Attentissime a individuare il provocatore di turno, a osservare chi cade nella provocazione per primo, chi resiste più a lungo chi mostra la faccia di bronzo più impenetrabile delle due statue di Riace. Un gioco paziente, lunghissimo e pericoloso, che non merita le lacrime di tanta povera gente accorsa al funerale del secolo, dei secoli, “in saecula saeculorum”, che non sa neppure perché piange, perchè porta fiori, perchè si trova lì, adesso … forse per raccontare come fu lungo quel trapasso storico di due secoli? E così sia! Amen!
Malgrado io non avessi mai avuto nulla a che fare con Elisabetta, in questa festinazione celebrativa di esequie mondiali, m’è tornato in mente che qualcosa della sua epoca mi era girato intorno e mi aveva iniziato al pensiero critico. Avevo un fratello maggiore, l’«aîné», come dicono i francesi, con un anno meno di lei, concepito quando si “forgiavano i destini dei popoli”, gli anni Venti del secolo passato. Io appartenevo al decennio successivo quando “si mandava ad effetto la presa del potere”, ad opera del fascio-nazismo, la più grande follia mondiale che l’Europa abbia mai concepito. Deliri di pseudo-purezze razziali diffuse da pseudo-sciamani violenti e paranoici, con le buone o con le cattive. Mio fratello grande, faceva sempre cose impossibili! Frequentava il prestigioso “Liceo-ginnasio Luigi Galvani” di Bologna, studiava il greco con la feroce professoressa Tormentini, la lingua straniera era il tedesco e gli avevano fatto mandare a memoria (in tedesco) “Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn, Im dunkeln Laub die Goldorangen glühn …” il celeberrimo poema di Goethe, per intero. All’Università aveva affrontato il biennio d’ingegneria che, soltanto quelli bravissimi ci mettevano 4 anni a finirlo!
Anche Elisabetta II del Regno Unito è stata una primogenita e, in altre dimensioni, arrivo a immaginare quello che mio fratello “grande” possa avere subito. Aggiungerò che quando la corte d’Inghilterra si occupava della formazione di sua maestà, coloro che, in Italia, si occupava della mia e di quella dei mie fratelli, c’insegnavano a odiare i figli della “perfida Albione”. Dunque gl’Inglesi (e lei, lo era) erano nostri nemici fin dai tempi della spedizione in Britannia della nostra cesariana romanità … che li sottomise. Barbari, spocchiosi e con la puzza sotto al naso, solo perchè mangiavano cinque volte al giorno … e Dio li doveva pure “stramaledire”! Insomma, vomitevoli insegnamenti scolastici, ma anche alla radio, al cinema e sulla carta stampata. Ricordo benissimo sul “Corriere dei Piccoli” di aver letto, senza ridere, "Re Giorgetto d' Inghilterra / per paura della guerra / chiede aiuto e protezione / al ministro Ciurcillone". E ancora “Rusveltaccio trottapiano presidente americano …” sul “Balilla”.
Ripassando, però, la storia del Novecento, bisogna riconoscere che Elisabetta si è trovata dalla parte giusta, io, noi, gli Italiani, da quella sbagliata. Io c’ero, facevo le elementari, abitavo a Bologna, tenevo un diario. Brevemente dirò che il padre di lei, sua maestà Giorgio VI (“Re Giorgetto”), ebbe la mano felice, quando accettò le dimissioni del tremebondo primo ministro Neville Chamberlain per passare l’incarico al più risoluto Winston Churchill che, tornato alla politica attiva, come primo lord dell'ammiragliato, non aveva dato tregua al suo premier, finché non lo spodestò. Fremente d’ira verso Hitler, sir Winston nel rovente maggio del 1940, giunse a presiedere quello storico “gabinetto di guerra” riunito in permanenza a Downing Street. Nel suo testo “Five Days in London. May 1940”, John Lukacs [02] confronta l’irrefrenabile e vigorosa loquacità di Churchill e della impossibilità di reggere "cinque minuti di conversazione col primo ministro", citando le pagine di un diario inedito del flemmatico e annoiato Lord Halifax, steso infine al tappeto.
Erano giorni (per l’esattezza i 5 giorni fatidici, dal 23 a 28 giugno 1940) che Churchill stava battendosi come un leone contro i suoi stessi colleghi (“tory”) di governo, mentre Hitler, il nemico vero, stava mettendo a ferro e fuoco l’Europa intera. Ci voleva freddezza e tempestività, non bisognava sbagliare una mossa. “Churcillone” e “Re Giorgetto” furono all’altezza della situazione, ciascuno nelle proprie finzioni. Il primo, mise a tacere Edward Frederick Lindley Wood, conte di Halifax, ministro per gli affari esteri del Regno Unito, l’ostinato dissidente interno molto più pericoloso di Hitler! Due sostanzialmente le tesi di quello storico “gabinetto di guerra” seduto in permanenza a Downing Street. Da un lato Halifax, rappresentava il partito della trattativa, convinto che se ad Hitler si fosse concesso qualcosa, si sarebbe accontentato e avrebbe desistito dalla sua folle impresa, come si fa coi pazzi quando si dà loro ragione per rabbonirli. Dall’altro Churchill, sosteneva la linea dura con foga dicendo che, pazzo o non pazzo, bisognava schiacciarlo, altrimenti, se si fosse scesi a patti col Führer, l’Inghilterra era spacciata, e con lei il mondo intero.
Il fatto sorprendente è però come Hitler fosse giunto in quattro e quattr’otto sulla Manica nei pressi di Dunkerque passando per la Francia, la quale aveva opposto ben poca resistenza. In aiuto dell’eventuale lettore frastornato dall’incalzare di quegli eventi lontani, si rammenta brevemente. La “seconda battaglia di Sedan”, luogo tipico di scontri franco tedeschi, aveva colto un po’ tutti di sorpresa e, purtroppo, senza difesa. Un lampo sinistro. Le micidiali truppe corazzate hitleriane, il poderoso “19º Panzerkorps” al comando del generale Heinz Guderian, era scivolato lungo la Mosa, risalendo il fiume dalla parte opposta dello schieramento difensivo francese, poi con ponti di barche, zattere e altri marchingegni dei genieri della Wehrmacht, più la copertura aerea della Luftwaffe, lo avevano riattraversato più a nord piombando alla spalle della inutile linea Maginot con 850 carri armati di ultimissima generazione. La manovra era iniziata il 12 e il 15 maggio 1940 era conclusa. Furono tre giorni micidiali che stordirono l’Europa e portarono Hitler sulla Manica, in Alta Francia (i territori di Passo di Calais e Piccardia) nei pressi di Dunkerque. Le coste francesi, belghe, olandesi erano alla portata della “Luftwaffe” di Hermann Goering, ma anche le regioni settentrionali della Scozia, come pure le rive danesi e norvegesi dovevano essere difese dalla “Raf” di Hugh Dowding. Uno dei tanti momenti cruciali del nazismo hitleriano pianificato, che stava per sopprimere l’Europa, anche con l’arma aerea, passò alla storia, col nome di “Battaglia d’Inghilterra”.
Un altro fatto storico che non può essere sottaciuto a merito degli Inglesi e della prontezza di reazione del loro permanente “gabinetto di guerra” di fine giugno 1940, è l’evacuazione di Dunkerque. C’era stata una serie di errori madornali per cui gli alleati, dopo lo sfondamento della linea difesa Dinant-Namur-Sedan, si erano trovati i Tedeschi coi loro panzer davanti, ed era il 21 maggio 1940, in quel di Abbeville. Il loro corpo di spedizione era tagliando in due, la situazione disperata. Il comandante in capo, generale francese Maxime Weygand, appena succeduto al generale Maurice Gamelin, anch’egli francese non sapevano che pesci pigliare. Intervenne un vero e proprio miracolo di Churchill, chiamato in codice “operazione Dynamo”. Il premier inglese riuscì a trasportare in Inghilterra fino all’ultimo uomo dei suoi "Tommies" spiaggiati in un "cul de sac" della Piccardia, quel maledetto diverticolo con vista Manica chiamato Dunkerque. Gli arenili del nord della Francia, a una manciata di chilometri dal Belgio. Bene o male, Churchill li fece imbarcare su qualunque cosa potesse galleggiare, senza dimentica gli alleati francesi, belgi, olandesi e chiunque avesse voluto scappare dai nazisti. Fu utilizzata dalla nave più grande al gozzo più piccolo. Esecutore sul campo dell’operazione fu il generale irlandese John Din comandante del “BEF” [03] il supporto inviato dagli inglesi in Europa per aiutare i Francesi.
I dettagli della Storia sono sempre illuminanti. La paranoia patologica di Hitler sembrava inarrestabile. Aveva un “piano” per tutto (anche per la sua morte). Nella circostanza che si vuole sottolineare, Hitler, per nostra fortuna, ebbe delle esitazioni nella prosecuzione della “Operazione Barbarossa”, una volta giunto davanti alla grande Isola che ancora mancava alla sua vendicativa e frenetica ingordigia d’Europa … la madre cattiva! Il “Caporale” di Braunau am Inn, si era scolpito nella memoria il quadro umiliante della celeberrima carrozza ferroviaria della “Compagnie Internationale des Wagons-Lits”, nota per essere stata il Vagon-Restaurant dell'Orient Express, piantata su un binario nel bosco della Piccardia, vicino Compiègne, dove l’11 novembre 1918 era stato firmato l’armistizio di resa senza condizione, con ammissione di colpa e ingente ristoro per danni di guerra dell’Impero tedesco nei confronti dei vincitori della prima guerra mondiale. Era la precondizione del Trattato di Versailles, dove si presentarono alla firma ufficiale della pace il 20 giugno 1919. Per la “triplice intesa”, in cui si erano infilati gli USA, la Francia, la Germania e gli Stati Uniti d’America. Un’’anticipazione degli “Atlantici” buoni, democratici e virtuosi?
Dunque Hitler era in attesa, non si sa bene di cosa. Traversata la Manica avrebbe completato lo strangolamento finale, macinato fulmineamente dalla “Blitzkrieg” della sua “Wehrmacht”, della sua “Luftwaffe”, della sua “Kriegsmarine” coi suoi micidiali “U-Boot”. Era lì al comando della sua micidiale macchina bellica di corpi speciali e di élite. Erano 20 anni che aspettava questo momento. Francia e Belgio erano stremate, prossime alla resa. Cosa lo trattenne? Gli storici hanno scritto moltissimo su questo argomento, momento topico della II guerra mondiale. O si vince o si perde, la storia del mondo cambia comunque. Di ancora più topico e rilevante c’è che mentre Hitler stringeva la sua tenaglia sull’Europa, che voleva tutta per sè col piano Barbarossa, i suoi nemici giurati, Stalin e Churcill (il diavolo e l’acqua santa, starei per dire, ma erano due diavolacci entrambi, l’uno peggio dell’altro) lo andavano accerchiando ancora più esternamente da Stalingrado, alla Normandia come sarebbe accaduto 4 anni dopo con “il giorno più lungo”, quel 4 giugno del 1944. C’è anche una corposa bibliografia alla quale si rimanda.
Le argomentazioni che mi sono piaciute di più sono state quelle di Lucio Villari [04].
« Alla fine di maggio 1940, nella angoscia di Dunkerque, erano […] Francia e l'Inghilterra ad avere le ore contate […] noi storici ci chiediamo perché i capi militari e politici tedeschi non diedero il colpo di grazia alle truppe nemiche ammassate e disperate distruggendole con bombardamenti a tappeto. La risposta non può che essere una sola: la Germania stava vincendo la guerra e Hitler attendeva con calma la resa dell'Inghilterra […] Ma di risposte ce n'è ancora una, la più interessante politicamente: Hitler attendeva l'esito del confronto di opinioni, nel partito conservatore e nel governo inglesi, tra lord Halifax, ministro degli esteri, Neville Chamberlain (l'uomo di Monaco, il primo ministro che Churchill aveva appena sostituito dopo un altro clamoroso smacco delle truppe britanniche nella Norvegia invasa dai nazisti) e appunto Winston Churchill. Il confronto era tra i primi due, favorevoli alla ricerca di una strategia diplomatica […] che permettesse un accordo di pace con la Germania e quindi la rapida risoluzione del conflitto, e Churchill, determinato a proseguire la guerra ma costretto […] a negoziare questa decisione sia in presenza della disfatta […] di Dunkerque, sia di fronte alla forte pressione rinunciataria degli esponenti conservatori più conservatori degli altri, se non addirittura filotedeschi. La partita si giocò […] nel Gabinetto di Guerra […] a Downing Street […] in affannose conversazioni private […] protagonisti Mussolini, e quasi contemporaneamente, Roosevelt […] cominciamo da Mussolini. A lui pensarono […] Halifax e Chamberlain, stabilendo […] contatti con l'ambasciatore italiano a Londra, per convincerlo […] a una iniziativa di mediazione tra la Germania e l'Inghilterra […] che non significasse né sconfitta né vittoria per i due paesi in guerra. L'Italia aveva […] dichiarato la non belligeranza e quei conservatori non sapevano (e non lo sapeva neanche Churchill) che in quei giorni di maggio Mussolini aveva già deciso […] di entrare nel conflitto a fianco delle armate tedesche. […] la manovra e le lunghe discussioni erano per costringere Churchill a servirsi della mediazione di Mussolini e a concedere qualcosa a Hitler […] la sospensione degli armamenti britannici e la cessione di una parte della flotta o di basi navali inglesi in cambio di un accordo che evitasse una guerra che si annunciava con distruzioni e disastri crescenti. L'offensiva "italiana" cominciò segretamente nel Gabinetto di Guerra coinvolgendo anche l'intero governo […] fin dal 23 maggio. Da Roma giunsero segnali di attenzione, ma Churchill resistette all'ipotesi dell'intervento di Mussolini. Halifax era il più deciso e Chamberlain dichiarò esplicitamente che Mussolini poteva svolgere “qualsiasi parte nel gioco" (“play any part in the game”) ».
E oltre sempre Villari
[…] avanzo l'ipotesi che il misterioso carteggio Mussolini- Churchill, di cui si parla […] da decenni […], non sia altro che il contatto, veicolato dal nostro ambasciatore a Londra Giuseppe Bastianini, con il governo italiano per questa strana mediazione che Mussolini non avrebbe comunque mai intrapreso sia perché sarebbe stata malvista da Hitler, sia perché stava per entrare in guerra anche contro l'Inghilterra. […] che Churchill fosse assolutamente contrario all'intervento di Mussolini […] il Duce, in quei giorni, non poteva saperlo; […], provenendo […] dal ministro degli Esteri britannico, […], non poteva che avere l'avallo del primo ministro, cioè di Churchill. Potrebbe – perché no? – essere questa l'origine della leggenda del misterioso scambio epistolare tra i due. Può anche darsi che tra le carte che Mussolini portava con sé nel 1945 vi fossero […] i documenti diplomatici dell'invito britannico alla sua mediazione con Hitler. In caso di cattura da parte degli Alleati, sarebbero stati […] utili a una sua difesa [….] A Mussolini Churchill preferì Roosevelt, […] Churchill chiese a Roosevelt , bloccato dagli isolazionisti americani, di aiutare militarmente l'Inghilterra nella lotta senza quartiere contro Hitler, presentandogli la disfatta di Dunkerque come un segnale di un pericolo reale per la libertà e la democrazia. E Roosevelt non fu insensibile alla richiesta.
Senza nulla togliere a quanti si batterono, anche a costo della vita contro il nazismo e il fascismo, la mia opinione, per quel che può valere, è che la seconda guerra mondiale fu vinta da Winston Churchill e da Josip Stalin. Due personaggi agli antipodi, radicalmente diversi per temperamento, carattere, visione del mondo, della propria gente, della guerra, del modo di governare, di dare ordini, di motivare imprese, comunicare entusiasmi, terrorizzare … Entrambi non erano religiosi, anzi! Uno era temuto per le sue “sfuriate”, l’altro per le sue “purghe”. Uno era stato in seminario e aveva odiato la religione. Dell’altro, i familiari avevano temuto che volesse farsi mussulmano [05] ma forse il suo entusiasmo era dovuto al fatto che quando meditava coi lettori del Corano era costretto all’astinenza e depurava il fegato. Forse non aveva compreso l’induismo non violento e non settario di Ghandi, la sua morale «ahimsa» (“non nuocere”, in sanscrito), la «satyagraha» (“forza della verità”) il suo principio etico e politico. Il «Mahatma» ("grande anima"), fu per Churchill l’avversario più difficile, che lo fregò nel 1947 ottenendo l’indipendenza del subcontinente indiano. Dipinto dai suoi esegeti come persona sanguigna, tenace, amante della vita, smodato in tutto.
La storia comparativa ci ha insegnato che ogni circostanza, ogni accadimento necessita di determinati personaggio che siano in grado di adattarsi ala realtà per dare risposte corrette e adeguate. L’umanità che verrà dopo andrà valutando il giudizio con lo scorrere del tempo. Al momento, non si andrebbe lontano dalla realtà pensando che Churchill sia stato il più famoso e più grande dei primi ministri inglesi di ogni tempo. Difficile dire chi dei due fu il più cocciuto, testardo, determinato. Churchill era smodato in tutto Fumatore accanito, gran bevitore, collerico incontenibile e, per quanto possa sembrare incredibile amava cose semplici, dirette, fruibili all’istante come le barzellette scurrili. Ebbe a dire della Russia che è "un indovinello avvolto in un mistero all'interno di un enigma". Aveva scoperto l’acqua calda. I Russi stessi lo pensano quando dicono “ la Russia non si può pensare” « Rossia umom ne pognat ». Di certo non aveva studiato in Seminario come l’avversario-alleato Josif Stalin Dzugasvili.
Vezzeggiato dalla madre col nomignolo “Soso”, fin da bambino, aveva detto di chiamarsi “Koba l’indomabile” a 16 anni, soprannome di sfumatura caucasica ispirato al mugik dell’altopiano che lotta per l’indipendenza della sua patria. Conosciuto, infine, come “Stalin” fin dal 1917. Tutti sanno che Josif Stalin è stato il dittatore sovietico rivoluzionario e comandante militare, che conosciamo. Prese il potere alla morte di Lenin (1922) e resse la carica di segretario generale del PCUS fino alla morte (5 marzo 1953). Nato a Gori come Josif Vissarionovič Džugašvili il 18 dicembre 1878, da un ciabattino che lo picchiava sia quando era sobrio che quand’era ubriaco, e da madre casalinga, che lo ha accudito con amore, soprattutto quando lo ritrasse dal Seminario Teologico di Tiflis perchè aveva contratto la tubercolosi. Vi era entrato (sano) a 15 anni, dopo la scuola primaria di Gori, dove s’era rivelato uno dei migliori della classe. Figura gigantesca tragica brutale del Novecento del secolo passato, Josif Stalin ha saputo tenere insieme il frutto della rivoluzione che altri, i “compagni” avevano preparato elaborato e perseguito dall’idea di Karl Marx. Al georgiano di umili origini, enigmatico, sfuggente, abile, diffidente, la nobiltà, la borghesia, il clero, non gliel’hanno mai perdonata, ma anche gl’invidiosi comuni. Difficile dire cosa sarebbe successo dell’URSS in quei 31 anni in cui esercitò il suo governo autocratico. Fiutò la competenza e l’abilità di Georgij Konstantinovič Žukov, gli affidò l’Armata Rossa, gli disse distruggete la Wehrmacht. Arrivò al bunker di Berlino prima di tutti. Entrambi Churchill e Stalin si fiutarono, s’intesero, vinsero!
Dei Windsor c’è una fotografia storica col loro primo ministro che li mostra sorridenti sul balcone di Buckingham Palace nella giornata della vittoria, l’8 maggio 1945. Si vedono, da sinistra a destra: la principessa Elisabetta, in divisa la regina consorte Elizabeth Bowes-Lyon, il primo ministro Winston Churchill, il re Giorgio VI e la principessa Margaret sorella di Elisabetta. Giorgio VI muore il 6 febbraio 1952. Anche quei funerali furono bastevolmente lunghi, non certamente come questi. Elisabetta fu incoronata il 2 giugno 1953. Lo ricordo benissimo perché avevo iniziato fin dall’anno precedente una serie di esami importanti (quelli di apertura) alla facoltà di medicina [06] un vero e proprio tour de force e, Maurizio Di Paola, uno dei tre che studiava insieme a me e a “Nino” Lo Cascio, non si voleva perdere una trasmissione dei servizi che mandava la televisione.
A conclusione di questa vita, questo defunto impero, questi capitoli di storia, questi funerali, il pensiero corre rapido a Samarcanda, Uzbekistan, antichissimo terminal di Marco Polo sulla via della seta. È il 15 di settembre 2022. Si deve tenere il vertice “Sco” ('Organizzazione per la cooperazione di Shanghai) ovvero uno schieramento dal sapore nettamente antioccidentale che riunisce potenze anche nucleari, come Cina, Russia, India, Pakistan, Kazakhstan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tajikistan. Ci saranno anche la Turchia, forse l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Egitto. Ai convenuti si aggiungerà per la prima volta l’Iran. Quanto ai nomi, si vedranno Vladimir Putin, Xi Jinping Narendra Modi, il battitore libero double face Recep Tayyip Erdoğan, membro Nato ma senza mandato. Sullo sfondo, l’Oceano Pacifico, di questi tempi molto frequentato, si stanno svolgendo esercitazioni militari congiunte Russia-Cina. La domanda è quali disegni stanno tracciando per i nuovi assetti del mondo i nuovi “grandi” e quelli che ignorano di essere “invecchiati”?
Note.
01. Prima del 1948 alcuni territori annessi all’Impero britannico venivano indicati con il termine “Dominion”. Essi erano legati alla Corona da speciali rapporti e vincoli, pur godendo di una certa, seppur incompleta, autonomia politica e amministrativa. A tutto il 1921, tra gli Stati dell'Impero britannico nei quali fu applicata tale definizione, ricordiamo il Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda, Terranova, l'Unione Sudafricana e lo Stato Libero d'Irlanda. Il termine fu utilizzato anche dopo il 1948 per alcune ex colonie che mantennero, dopo l'indipendenza, il monarca britannico come capo di Stato ma non di governo. La questione è molto intricata dal punto di vista del diritto internazionale, come lo sono tutte le questioni dei grandi imperi in dissoluzione. Se non vado errato, successivamente assunsero lo status di membri indipendenti del “Commonwealth”. Oggi, a piangere Elisabetta dovrebbero residuare i quattordici Commonwealth Realms. Australia, Antigua e Barbuda, le Bahamas, il Belize, il Canada, Grenada, Jamaica, Papua New Guinea, St Christopher e Nevis, St Lucia, St Vincent e le Grenadines, Nuova Zelanda, Isole Salomone e Tuvalu.
02. John Lukacs è stato professore di storia al Chestnut Hill College, Philadelphia, fino alla pensione e “visiting professor” in molte Università.
03. Il 1º Corpo d'armata inglese della British Expeditionary Force.
04. “Perchè Hitler esitò ad attraversare la manica?” La risposta di Lucio Villari su “la Repubblica, 30 marzo 2001, pag. 46.
05. Si deve a Warren Dockter, ricercatore dell'Università di Cambridge, la scoperta di queste particolari inclinazioni del giovane Winston Churchill tanto da tenentino di cavalleria agli ordini di Sir Hebert Kitchener nella Battaglia di Omdurman (2 settembre 1898) a Khartum in Sudan quanto successivamente India per mantenere il governo britannico.
06. Fisica Mario Ageno (ventisette) 1952; Anatomia Umana Normale Vincenzo Virno (25) 1953; Biologia generale Giulio Cotronei (29) 1953; Istembriologia. Giacomo Andreassi (trenta) 1953.
Bibliografia
Len Deighton. “La Battaglia d'Inghilterra”. Introduzione di Alan John Percivale Taylor, traduzione di Gianfranco Simone. Longanesi, Milano, 1962.
Robert Wright. “Dowding e la battaglia d'Inghilterra”. Longanesi, Milano, 1969.
John Killen. “Storia della Luftwaffe”. Longanesi, Milano, 1973.
Alan John Percivale Taylor. “Storia dell'Inghilterra contemporanea”. Laterza, Bari-Roma, 1975.
Andreas Hillgruber. “La strategia militare di Hitler”. Prefazione di Renzo De Felice. Rizzoli, Milano, 1986.
John Lukacs. “Five Days in London. May 1940”. Yale University Press, 1999. Edizione italiana “Cinque giorni a Londra”. Traduzione A. Agrati Edizioni Corbaccio, Roma, 2001.
Lucio Villari “Perchè Hitler esitò ad attraversare la manica?” La risposta di Lucio Villari su “la Repubblica, 30 marzo 2001, pag. 46.
Antonio Pelliccia. “Giulio Douhet. La vita e le opere”. Cromografica, Roma, 2009.
Antonio Martelli – «La Battaglia d’Inghilterra» – Il Mulino, Bologna, 2016.
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