Non fare il bene, questo è peccare
(P.P.P.)
Come psicoanalista ho sempre ritenuto che la psicoanalisi, se vorrà resistere al tempo, debba mantenersi inattuale, nel senso inteso da Nietzsche nelle ‘Considerazioni Inattuali’: includersi dentro e mantenersi fuori. Unico fra tutti gli intellettuali e artisti italiani del nostro secolo, e forse non solo italiani, Pasolini è stato un magnifico inattuale: nessuno come lui ha saputo situarsi dentro il discorso sociale (politico, culturale, letterario, artistico) e al tempo stesso mantenersi fuori, brillando in una sorta di fulgida intelligenza solitaria che ha saputo farsi perciò straordinario messaggio condiviso e, come io auspico per la psicoanalisi, qualcosa che resiste al tempo.
Discorso che non si consuma, che nutre l’altro e nutre se stesso “col mio stupendo privilegio di pensare”, come recita in una poesia de ‘La religione del mio tempo’.
Il 5 Marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini, ed oggi in tutta Italia e non solo se ne celebra il centenario, candidato col sostegno di diversi Paesi europei all’Anniversario Unesco per l’anno 2022-23. La sua biografia è nota. Esordisce come poeta ancora nella sua terra friulana nel ’42 con le Poesie a Casarsa, per passare poi alla narrativa con i Ragazzi di vita nel ’55, ed esordisce nel cinema con uno dei capolavori nel neorealismo, Accattone del ’61, mentre intensa è l’attività di critico letterario e cinematografico (ricordo le bellissime Narrazioni di Narrazioni) ed editorialista di varie testate e de Il Corriere della Sera. L’inizio di un nuovo genere artistico non significò mai, per Pasolini, l’abbondano di un altro; artista e intellettuale completo ed eclettico, o ‘totale’ come qualcuno lo ha definito, nella sua breve vita egli andò cumulando i generi e i saperi, intrecciando le varie cifre stilistiche, in una personalissima poetica e lettura del mondo.
Un’opera così vasta, da rendere impossibile trarre delle citazioni per un breve omaggio.
Ma gli omaggi e le rassegne su Pasolini non sono mai vuoti rituali di maniera; su lui nascono fondazioni, siti, gruppi che ne discutono, i giovani che lo scoprono si appassionano: Pasolini, unico fra gli autori contemporanei italiani, suscita un vero amore. Non occorre essere colti o intellettuali per amare Pasolini, le sue struggenti poesie, la poetica sacra di alcuni film come Il vangelo secondo Matteo, gli articoli infuocati, gli scritti sul cinema e l’arte, mentre alcune sue espressioni, come ‘il Palazzo’, per intendere il Potere, sono entrate nel linguaggio comune, così come il suo ossuto volto iconico, amato oggi anche da chi lo contrastava un tempo, appartengono ormai all’immaginario collettivo. Pur contemporaneo e amico di figure culturali rilevanti come Moravia e Elsa Morante, è solo Pasolini che si è imposto all’eternità.
Vi è qualcosa di potente ed irriducibile nella sua parola, ricordato in questi giorni anche dal Presidente Mattarella.
Diceva che la felicità deriva dal possesso culturale del mondo, e che è meglio essere nemici del popolo che della verità; queste due potenti affermazioni, che ho sempre conservato nella memoria della mia educazione intellettuale, rendono forse l’idea del suo grande potere non solo nell’arte ma nella coscienza della nostra società. Pasolini era un’intellettuale etico, figura che va scomparendo, di cui è stato forse l’ultimo esemplare. L’intreccio singolare di capacità poetica e di forza intellettuale ne ha fatto un fenomeno unico in grado di raggiungere l’immaginario di un vastissimo pubblico, e di incidere profondamente, e per un tempo duraturo grazie alla sua inattualità, nel confuso corpo sociale italiano, di cui vide con anticipo lo smarrimento dei giovani che iniziavano a drogarsi, l’ottusità della borghesia, l’arrivo del politicamente corretto e i suoi disastri, la progressiva perdita del sacro, le false promesse del progresso che andavano distinte dal vero sviluppo. Soprattutto, vide con feroce e triste lucidità quella che chiamò ‘mutazione antropologica’ degli italiani, popolo immaturo alla democrazia, abbagliato dal giovane benessere e malgovernato, che da cittadino, senza passare per alcuna fase di consapevolezza come avvenuto in altre nazioni, diventava direttamente consumatore. Gli accalorati editoriali di Pasolini, tuttavia, oggi racchiusi negli Scritti Corsari e spesso citati nel dibattito pubblico per il loro aspetto ‘profetico’, sono tuttavia feroci atti d’accusa a una specifica classe politica o a delle istituzioni corrotte con la singolare caratteristica, a mio avviso (che contribuisce a renderli struggenti essi stessi ed indimenticabili) di contenere una profonda pietas per gli esseri umani; gli umili, i poveri in particolare, ma tutti gli esseri umani, in quanto umani. Pasolini ha sempre attaccato ‘il Palazzo’, la corrosività anonima del potere che raggiunge il suo estremo in Salò, ma il suo pensiero e la sua opera sono interamente dedicate alla caducità, alla fragilità dell’essere umano a cui non è dato altro strumento, in questo mondo insensato, che la ragione. Se l’uomo è abbandonato dal dominio della ragione, come accaduto nella sua tormentata esistenza, altro elemento con cui non è difficile identificarsi e che ne genera motivo di fascino, finisce preda di scissioni e spinte pulsionali distruttive.
Le occasioni commemorative non sono mai prive di insidie, soprattutto su un’opera sterminata, intima e insieme universale, attuale e inattuale, spesso ridotta ai suoi geniali slogan noti in tutto il mondo culturale, oggi feticcio di chi lo ha amato e di chi ha finito per amarlo in ritardo.
Uomo “vissuto dentro una lirica, come un ossesso”, è con una lirica che scegliamo di salutarlo.
Qui il poeta immagina se stesso e la madre incontro il finire della vita, la pietas per lei si ripiega su se stesso e ogni essere umano
….
La casa è piena delle sue magre
membra di bambina, della sua fatica:
anche a notte, nel sonno, asciutte lacrime
coprono ogni cosa: e una pietà così antica,
così tremenda mi stringe il cuore,
rincasando, che urlerei, mi toglerei la vita.
Tutto intorno ferocemente muore,
mentre non muore il bene che è in lei,
e non sa quanto il suo umile amore,
-poveri, dolci ossicini miei-
possano nel confronto quasi farmi morire
di dolore e vergogna, quanto quei
suoi gesti angustiati, quei suoi sospiri
nel silenzio della nostra cucina,
possano farmi apparire impuro e vile…
In ogni ora, tutto è ormai, per lei, bambina,
per me, suo figlio, e da sempre, finito:
non resta che sperare che la fine
venga davvero a spegnere l’accanito
dolore di aspettarla. Saremo insieme,
presto, in quel povero prato gremito
di pietre grigie….
….
Perduti in fondo a questo fresco
pezzo di terra: ma non sarà una quiete
la nostra, ché si mescola ad essa
troppo una vita che non ha avuto meta.
Avremo un silenzio stento e povero,
un sonno doloroso, che non reca
dolcezza e pace, ma nostalgia e rimprovero
la tristezza di chi è morto senza vita…..
(1959, Appendice a La religione del mio tempo)
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