Cercherò, in queste mie note, di commentare due testi che costituiscono la trascrizione di conversazione tenute da Barison agli specializzandi: si tratta in realtà non di vere e proprie lezioni su un tema specifico, ma appunto, di "divagazioni", cioè di brevi commenti a spunti o temi i più diversi tra loro, che Barison proponeva ai suoi ascoltatori, molti dei quali giovani.
In particolare possiamo riferirci a 2 conversazioni tenute presso la Clinica Psichiatrica di Padova nel ’91 e nel ’92, di cui possediamo il testo. Non è evidentemente un testo pubblicabile in quanto non rivisto né corretto dall’Autore per questo fine; cercherò peraltro di riportare fedelmente i passi di Barison su alcuni temi da lui trattati e che vorrei commentare.
Prima di tutto però vorrei soffermarmi sul termine "divagazioni", termine scelto da Barison stesso, per chiarire il suo intendimento a parlare di psichiatria senza l’obbligo di sviluppare un tema preciso e per tentare di porre l’interlocutore di fronte a una serie di stimoli e curiosità, che cominciavano, per chi non conosceva Barison, dal momento stesso del suo ingresso in Aula: questo minuto e apparentemente fragile ottantacinquenne si sedeva dietro la cattedra, estraeva dalla cartellina un quaderno e cominciava a parlare, "lanciando" in mezzo al gruppo degli ascoltatori una serie di riflessioni, pensieri, osservazioni, su temi diversi e spesso molto lontani tra loro, tutti peraltro carichi e densi di riflessione e di esperienza personale.
Non era certo una lezione accademica quella a cui si assisteva, ma un continuo rimandare alla necessità di sondare i problemi nella loro essenza, anche cogliendo il valore del particolare, del segno apparentemente poco significativo, ma capace comunque di stimolare Barison a interrogarsi e a interrogare: anche a interrogare sì, nel senso proprio del termine; Barison chiedeva ai suoi giovani ascoltatori di dire il loro parere su alcuni temi che toccava nel corso della conversazione; spesso si richiamavano a precedenti incontri o convegni e riprendeva un punto trattato in quelle sedi, facendo per così dire da "raccordo", e facendo comprendere all’auditorio che le sue non erano proprio delle divagazioni, ma che stava proponendo un pensiero articolato su più temi, ma alquanto unitario e continuo nella sua struttura.
Il fatto di chiedere a chi lo ascoltava di esprimersi sugli argomenti trattati comportava di fatto un riconoscimento della (pur giovane) esperienza altrui e nello stesso tempo anche un notevole rispetto per le opinioni espresse. Non che Barison fosse tenero con chi esternava dei punti di vista da lui non condivisi, questo no: ma ascoltava ed era incuriosito da ciò che i più giovani potevano osservare e questo era, di per sé, una grande lezione magistrale.
In queste conversazioni ad es., citava dei lavori scritti da giovani psichiatri, commentandoli e rendendo chiaro di averli veramente letti, ciò che costituiva motivo di profonda soddisfazione personale per chi si sentiva valorizzato da questo "grande vecchio" della Psichiatria.
Uno dei paragrafi di questa conversazione ha per titolo "La meraviglia giovanile".
"Anche lasciando da parte miei personali ricordi autobiografici, è un fatto che le più belle e incisive osservazioni di eventi psichiatrici che io ricordi sono state presentate da psichiatri, psicologi, assistenti sociali, fisioterapiste, logopediste GIOVANI….
È perché il giovane è naif e inesperto che si meraviglia e nota questo cose interessanti? È un po’ la tesi venata di sufficienza di qualche autorevole psichiatra non più giovanissimo. Io non la pensi così. Per cogliere dati di alto interesse come quelli cui alludo, occorre saper meravigliarsi, ma di quella meraviglia che è una capacità di interpretare e che richiede nella fattispecie una competenza psichiatrica fatta anche cultura specifica….
Coglie vissuti irripetibili, oltre la diagnosi, pur essendo la diagnosi non trascurata.
Non si tratta di naiveté, né di ignoranza. Ma di una dote positiva, che certo la giovinezza esalta come intensità vitale, e che, purtroppo, la maturità può attutire: fino alla involuzione dello psichiatra maturo che trova "tutto naturale" e quindi "non interessante".
Quando scrive questo Barison è in pensione da oltre 20 anni: senza dubbio cogliamo all’inizio delle sue riflessioni un narcisistico vezzo autobiografico: egli non può lasciar da parte o dimenticare che, molto giovane, non ancora 30enne, aveva colto nel suo primo lavoro pubblicato sulla schizofrenia l’importanza dell’ "astrazione formale del pensiero quale sintomo di schizofrenia".
Si deve a questo primo lavoro di Barison la prima più importante descrizione schizofrenica verso le forme di linguaggio e di pensiero formalmente astratte ed indebitamente generalizzate.
"E’ questo il sintomo consistente nella astrazione formale del pensiero: è la caratteristica tendenza a esprimersi a livello astratto, anche quando il contenuto del pensiero è costituito da fatti singoli, concreti, materiali. Lo schizofrenico tende e rendere con espressioni astratte e generalizzate quanto potrebbe essere detto con termini più concreti e adeguati. L’interpretazione che ne diede allora fu di un tentativo di difesa (si direbbe ora coping) contro la dissociazione delle idee, come una sorta di riparazione intuitiva del pensiero schizofrenico alle dissociazioni. (Gozzetti, 1998)
Gozzetti ricorda altresì che S. Arieti nella IIª Ed. dell sua "Interpretazione della schizofrenia" riprese e diede largo spazio a questo lavoro giovanile di Barison.
Lo stesso H. Ey, dopo la lettura di questo lavoro, venne a Ferrara (dove allora Barison lavorava) per conoscere Barison, dando inizio ad una amicizia che si sarebbe protratta per decenni.
Ma si comprende comunque come, in un mondo accademico ove purtroppo ancor oggi l’età sembra contare ancora molto (forse troppo), il dire, expressis verbis, che le persone più giovani possono essere portatori di elementi di conoscenza genuina del mondo dell’altro, perché questi giovani sono anche molto preparati e dotati di "capacità di interpretare", costituiva senza dubbio una novità e uno stile completamente libero.
Molte volte d’altronde ho sentito dire da Barison che l’essere anziano gli dava una completa libertà di pensiero e di espressione, anche qui con un atteggiamento alle volte assai polemico verso chi non voleva sentire (nel senso profondo del termine) i suoi discorsi. Come ho prima sottolineato, da questo punto di vista Barison non sembrava avere mezze misure: i suoi commenti caustici tendevano a colpire, senza alcuna attenuazione, le persene colpevoli soprattutto, secondo lui, di allontanarsi dalla Psichiatria "vera", dove per "vera" Barison intendeva che "Psichiatria è stare con malati": in questa drastica definizione, che egli ripeteva spesso, si trovava del resta concentrato il fulcro dei suoi interessi, che nelle divagazioni (di cui qui ci occupiamo) sono ben rappresentati: una clinica caratterizzata dalla riflessione (in netta di dissonanza con ogni tentativo di scambiare la clinica psichiatrica con elenchi di sintomi e/o criteri diagnostici) su cui poggiare uno studio psicopatologico profondo basato su riferimenti fenomenologici e ermeneutici.
Senza dubbio, nelle "divagazioni" compare anche la tendenza di Barison a essere più intuitivo che sistematico, la sua fascinazione per nuclei di riflessione che cambiavano perché grande era l’attenzione ai cambiamenti, alle novità: ricordo che nel 1983, a Firenze, nel corso del convegno nazionale per la presentazione della versione italiana del DSM III, Barison era presente e fece un intervento molto critico su ciò che il DSM non avrebbe mai potuto cogliere nell’incontro con il malato, dimostrando così una notevole capacità di non lasciarsi trascinare dalle mode, senza rinunciare ad una riflessione su ciò che avrebbe significato per la Psichiatria Italiana l’introduzione di questo nuovo strumento diagnostico.
Dopo questa breve introduzione possiamo chiederci: ma cosa vuol dire insegnare la Psicopatologia?
Intanto evidenziamo che il termine psicopatologia si intende specificare sia il disturbo studiato che la scienza che lo studia.
Questa puntualizzazione mi sembra importante perché è chiaro da quando Barison, come tutti gli psicopatologi, parla di psicopatologia non vuole assolutamente riferirsi al disturbo mentale ma al metodo che studia come l’essere umano affronta, organizza, sente, interpreta il suo essere sofferente.
Psicopatologia è, per usare una felice espressione di Del Pistoia, "una ricerca di senso radicata nella clinica psichiatrica", non è la clinica psichiatrica.
La clinica, cioè, è la base di partenza su cui si costruisce la ricerca psicopatologica, intesa essenzialmente come tentativo di comprendere il come viene organizzata una esperienza, per poterla cogliere nei suoi aspetti più significativi, più costitutivi.
Le "divagazioni" barisoniane ci chiariscono al di fuori di ogni dubbio che la concezione di insegnamento di Barison è originale, inusuale, spesso apparentemente disorganizzata e, soprattutto, centrata sui temi che in quel periodo interessano a Barison stesso.
Non è come dianzi abbiamo detto, un insegnamento sistematico, anzi dà per scontata la conoscenza dei fondamenti della clinica psichiatrica e mira invece a incuriosire e a far pensare; vuole solleticare l’interlocutore, vuole rendersi conto se si può trovare un terreno condivisibile, dove un confronto delle idee non rimanga sterile, ma vivifichi le capacità dei partecipanti nel loro lavoro con i pazienti. Insomma, vuole che non ci si fermi lì, che le sue provocazioni facciano nascere dei nuclei di curiosità.
Questo "divagazioni" risalgono ad un periodo (1991-1992) in cui Barison era decisamente orientato all’approccio ermeneutico.
L’ermeneutica, lo sappiamo, è l’arte delle interpretazioni; secondo la tradizione greca "l’ermeneuta è un angelo, cioè letteralmente un messaggero, a questo ambito si riferisce l’etimo tardivo che fa risalire l’ermeneutica a Hermes, il messaggero degli dei" (Ferraris, 1998).
Interpretare dunque, ma che cosa e come?
Non si tratta certo della interpretazione psicoanalitica, ma di un riuscire a ricostruire l’esperienza interna dell’altro attraverso le metafore e i "come se". Scrive Barison: "…Si tratta di una specie di giro avvolgente che lo psichiatra tenta verso un nucleo, che resta indicibile, ma è altamente significativo: del resto avviene qualcosa del genere quando cerchiamo di cogliere l'essenza di qualsiasi personalità anche normale.
Questo nucleo indicibile, ma significativo appartiene in fondo (se applichiamo i concetti dell’ultimo Heidegger) al linguaggio non denotativo, al disvelarsi-nascondersi dell’essere, così ben simbolizzato nella radura del boscho (Lichtung)": Lichtung rimanda alla poca luce di cui possiamo disporre, ma di cui comunque dobbiamo far uso nel nostro tentativo di comprensione.
Barison amava moltissimo la metafora della "Lichtung": perché? Una prima spiegazione sta nelle parole stesse del filosofo: la Lichtung "è matafora per la luminosità e l’oscurità, ma anche per l’eco e il suo spegnersi, per ogni suono e per il suo svenire".
"L’ultimo Heidegger appare impegnato nel paradosso di non catturare mai l’oggetto della ricerca, ma di custodirlo e salvaguardarlo nella sua costitutiva indicibilità.
Egli contrappone il "girare intorno" e il "lieve circoscrivere" all’atteggiamento catturante e smascherante della metafisica e della scienza. Custodire, salvaguardare, lasciar essere, rappresentano i vertici della metafora heideggiana della Lichtung".
(…….)
Ma, al momento in cui vogliamo capire più a fondo il senso che assume la Lichtung heideggeriana per l’ascolto psichiatrico, ci imbattiamo nella scoperta sorprendente di alcune pagine di W.R. Bion.
E’ Bion che troviamo sulla strada del pensiero dell’ultimo Heidegger. Possiamo allora concludere con le sue parole.
"Mi ci è voluto molto tempo per convincermi che era necessario spogliarmi di memoria e di desiderio e più ancora ce ne volle per cogliere il vizioso effetto che ha sull’osservazione il bisogno di capire a tutti i costi.
Tale bisogno è un particolare esempio di intrusione (…). Man mano che divenni più capace di far tacere i miei pregiudizi, mi accorsi che riuscivo a cogliere l’evidenza che c’era, piuttosto che lamentarmi dell’evidenza che non c’era. Quando le mie orecchie divennero più abituate al silenzio, piccoli suoni divennero più facili da udire. Mi ricordai di un’analogia che Freud usò, quando scrisse che doveva artificialmente accecarsi per poter dirigere il più debole barlume di luce in una situazione molta oscura.
Imparai a considerare l’importanza del silenzio per ascoltare i più "deboli suoni". Ciò funzionò. E cominciai ad ascoltare suoni che un tempo non sarebbero stati avvertiti" (Bion, 1981, pp.55,65).
Invece di provare a fornire una brillante, intelligente, bene informata illuminazione per chiarire i problemi oscuri, suggeriscono di procurare una "diminuzione della luce". Un penetrante raggio di oscurità, il reciproco del faro. L’oscurità sarebbe così assoluta da raggiungere un assoluto vuoto luminoso. Così che, se un qualche oggetto esistesse, per quanto, si mostrerebbe molto chiaramente" (Bion, 1976, pp. 36-37); (Muscatello, Scudellari, 2000).
Io non so se Barison conoscesse questa pagina bioniana, ma sono certo che egli, pur se spesso così caustico nei confronti della psicoanalisi, ne condividerebbe il senso e la profondità.
Anche se può apparire rischioso mettere insieme Heidegger e Bion , alla fine ci si ritrova pur sempre di fronte a due elevatissimi momenti di riflessione sul senso dell’incontro tra esseri umani e sul significato da dare a questo incontro.
In questo contesto è indubitabile che Barison è attratto da un incontro che si caratterizzi per la capacità di ascoltare, senza pensare di cogliere nessi di causalità: la sua è senza dubbio "ermeneutica dell’ascolto".
"Nel dialogo ermeneutico c’è l’incontro di due orizzonti che si fondono producendo un cambiamento di entrambi nel momento della interpretazione: come dice Gadamer, si verifica un aumento di essere. In questo senso si accomunano un esame clinico ed un primo atto psicoterapico.
L’interpretazione vera è quella che modifica entrambi.
…L’interpretazione ermeneutica è quindi un evento. A fronte di una scena capitale reale che può non esserci stata, ciò che conta è la scena capitale che il paziente ci fa vivere con lui" (Barison).
Se questo è l’orizzonte in cui si muovono gli interessi culturali e scientifici di Barison nei primi anni ’90, possiamo pur dire che le "divagazioni" rappresentano anche per lo stesso Barison un momento importante di riflessione con un gruppo di ascoltatori particolare quale quello degli studenti e degli specializzandi.
Barison ha sempre continuato, praticamente fino a pochi giorni prima di morire, ad avere attorno a sé piccoli gruppi di colleghi con cui rifletteva su aree di interesse diverso: rapporti tra neurologia e psichiatria, Rorschach, etc….
Le "divagazioni" erano anche frutto di questi incontri, su cui a posteriori Barison tornava, riempiendo di osservazioni il suo quaderno.
Ci si può chiedere se questo modo di parlare di psicopatologia possa essere un modello da seguire per quanto riguarda l’insegnamento di questa disciplina; io credo di no e sono anche convinto che Barison sapesse bene che molte delle osservazioni che lui faceva non potevano essere comprese nella loro compiuta profondità se non da un piccolo gruppo di ascoltatori.
Non credo che si possa usare il metodo delle "divagazioni" perché, per farlo, bisognerebbe essere portatori di un grande sapere, e soprattutto di una enorme capacità di creare collegamenti, di facilitare l’emergenza della complessità , non di idolatrare la banalizzazione delle conoscenze psichiatriche: in questo senso, ripeto, anche sapendo che quello di Barison non è un modello copiabile, pur tuttavia dovremmo riuscire ad estrapolare qualche nodo base per la ricerca e lo studio della psicopatologia.
Il primo punto è il rimando presente e continuo ad una ispirazione fenomenologica che, pur caratterizzando maggiormente i primi studi di Barison continua a permeare sempre il senso della sua ricerca: fenomenologia intesa proprio nel senso originario del termine, di ritorno alle cose stesse, di sospensione del giudizio per poter cogliere con la massima libertà intellettuale ciò che avviene dentro e fuori di noi.
Il metodo dell’epoché è la porta d’ingresso della fenomenologia: " è la condizione per non pre-giudicare la conoscenza, per non costruire giudizi sul mondo prima di aver posto l’interrogazione sul senso. Per questo essa non può essere intesa come un impensabile "distacco" dalla realtà" (Armezzani, 1998).
"…Ma in che cosa consiste, concretamente, questa sospensione, questa messa in parentesi dell’atteggiamento naturale? Non è una possibile astrazione del pensiero dal mondo; non è una formula da enunciare; non è una conazione filosofica. E’ invece un operazione metodica, un esercizio per il quale spesso Husserl usa l’aggettivo "faticoso". La fatica è quella di liberarsi dai vincoli più forti e più universali e perciò più occulti, dai vincoli dell’essere — già – dato del mondo, la difficoltà sta "nel neutralizzare il complesso delle abitudini mentali dominanti" e nell’assumere un atteggiamento "innaturale" (Armezzani, 1998).
"Imparare a vedere e a descrivere ciò che sta dinanzi agli occhi esige studi speciali e faticosi" (Husserl, 1954).
Quanto dice qui Husserl dovrebbe servire a sfatare un altro fraintendimento: l’opinione che è un atteggiamento fenomenologico coincida con la visione ingenua, naif, accessibile a tutti e puramente descrittiva: invece come ancora scrive Husserl (1954) "l’atteggiamento fenomenologico e l’epoché che gli inerisce sono destinati a produrre innanzitutto una completa trasformazione personale".
In questo contesto "le divagazioni" rappresentano invero un fondamentale momento di scardinamento dei pregiudizi e di invito all’operare secondo il metodo della fenomenologia, e questo non perché Barison si soffermi in modo particolare a riflessioni generali su questi temi, ma proprio per l’esatto opposto, perché l’ascoltatore lettore può, se vuole, riuscire a farsi portare da un tema all’altro, aggiungendo di volta in volta qualcosa di suo, approfondendo lo sguardo, passando da un tema generale alla miniatura cesellata di un particolare, di un osservazione che fino ad allora non era comparsa nel suo campo mentale, ma che in quel momento, grazie alla sollecitazione ricevuta, riesce a riempirsi di un quid novum legato alla sua esperienza personale: in questo senso l’ascoltatore-lettore sente non tanto di avere "imparato" qualcosa, ma di aver colto una dimensione nuova all’interno di un fenomeno che egli aveva fatto proprio solo parzialmente. In altre parole l’ascoltatore-lettore delle divagazioni non è chiamato a essere un ricettacolo passivo di una "conoscenza" che gli viene data dall’alto, ma è stimolato a pensare alla propria esperienza arricchendola, se possibile, nel confronto con le osservazioni, intuizioni, folgorazioni talora contenute nel pensiero barisoniano.
Ritorniamo ora alla psicopatologia (fenomenologica): mi permetto anch’io di divagare, scusatemi fin da ora.
Ritorno alla psicopatologia: perché?
Ritorno perché molta parte della Psichiatria, italiana e non, ha pensato (e in parte continua a pensare) che fosse possibile una Psichiatria basata solo sulla descrizione di sintomi e comportamenti, senza alcun rimando all’interiorità dei pazienti, alla loro modalità di essere — nel — mondo (Dasein).
Ma andiamo per gradi.
Come a tutti ben noto, fu Jaspers il primo operò una sistematizzazione della psicopatologia; il grande merito di Jaspers è quello "di aver introdotto la categoria della soggettività e dell’intersoggettività: egli ha posto l’area dei vissuti dei pazienti come oggetto tematico per la psichiatria e anche come sorgente per le conoscenze, le acquisizioni e la formulazione della diagnosi psichiatrica… . Il limite della fenomenologia jaspersiana è quello di aver ritenuto che tutto ciò che dell’esperienza del paziente poteva essere rivissuto dal medico fosse una realtà psicologica comprensibile ed afferrabile con categorie ermeneutiche, mentre tutto ciò che non poteva essere comprensibile cessava di essere una esperienza psichica, cessando pertanto di essere oggetto di interpretazione, per trasformarsi invece in una semplice definizione organica naturalistica" (Borgna, 1988).
L’Allgemeine Psychopathologie fu pubblicata nel 1913; nel 1919 Jaspers pubblicò la Psicologia delle visioni del mondo che, come scrive Galimberti (1987), "è la prima opera che segna il vero e definitivo distacco della psicologia dall’ordine delle scienze naturali".
Nella Psicologia delle visioni del mondo crolla ogni distinzione tra malattia e salute, perché tematico diventa il rapporto tra l’individuo e il suo mondo. "Le manifestazioni psicologiche non sono più ricondotte alle loro cause né comprese attraverso l’Einfühlung, come avveniva rispettivamente nella sezione "esplicativa" e "comprensiva" della Psicopatologia generale, ma esaminate come rivelatrici dei modi essenziali in cui un’esistenza riceve, trasforma, si progetta nel mondo" (Galimberti, 1979).
Un ulteriore passo in avanti si compie con il saggio di Binswanger "Über Phänomenologie", contenente il testo di una relazione tenuta nel 1922 a Zurigo, saggio fondamentale per il nostro discorso odierno, di cui ora riassumeremo alcuni concetti cardinali.
Binswanger (1922) scrive che "la psicopatologia è e rimane una scienza di esperienza, una scienza di fatti: e pertanto non vuole né pretende innalzarsi fino alla visione delle pure essenze nella loro assoluta universalità.
Non ha d'altra parte nulla da temere se la fenomenologia investe anche il suo territorio. Se la psicopatologia fenomenologica non è in grado di innalzarsi fino a delle pure essenze, essa d'altra parte non è più identificabile con quella psicopatologia che si usa definire descrittiva o soggettiva. Lo psicopatologo tradizionale classifica l'accadimento psichico abnorme in classi, generi e specie, che si rapportano e sono connessi tra loro in un sistema gerarchico, da contrapporre in toto a quello del cosiddetto uomo sano. Il fenomenologo orientato verso la psicopatologia per contro si sforza incessantemente di attualizzare ciò che il paziente gli comunica, di riferirsi alle sue parole, al significato cui allude, all'oggetto, alla cosa, all'Erlebnis di per se stesso, come immediatamente gli si rivela.
La peculiarità di questo stile fenomenologico di cogliere i fenomeni psicopatologici sta nel fatto di non considerare mai il fenomeno isolato: il fenomeno avviene sempre sullo sfondo di un Io, di una persona. Nel particolare fenomeno si manifesta l'insieme della persona e attraverso il fenomeno noi vediamo la persona".
Nel 1936 Minkowski tenne una conferenza al gruppo di lavoro dell'Évolution psychiatrique; tra gli ascoltatori interessati c'erano Lacan ed Ey: il titolo della relazione era: "La psicopatologia, il suo orientamento, le sue tendenze". Si tratta dl un lavoro corposo e molto interessante (Minkowski, 1937).
Ne ricordiamo solo alcuni punti correlati al nostro discorso.
Minkowski sottolinea che gli stessi sintomi possono essere incontrati in stati patologici diversi, ma quello che importa non sono i sintomi, ma lo stato mentale che li condiziona.
Ancora un fattore importante, forse il più importante, è osservare le modalità con cui la personalità del malato si comporta di fronte a dei sintomi specifici. Minkowski scrive: "Seduto davanti al mio malato, lasciandolo parlare o facendogli delle domande, io cerco di confrontare il suo psichismo al mio, valutando ciò che i due posseggono in comune dal punto di vista della struttura, e cerco di ricavare dei dati relativi a questa struttura. Un fattore intuitivo interviene incontestabilmente: certe parole, certi gesti sembrano particolarmente rivelatori, senza che se ne possa comprendere subito la ragione. Senza dubbio la vita di un alienato può essere del tutto differente dalla nostra; essa può anche essere a noi inaccessibile. Ma nello stesso tempo, l'alienazione mentale fa parte del tutto e ne è solidale, e non si può non trovare in noi una risonanza nella misura in cui noi stessi siamo solidali con questo tutto e lo personifichiamo.
Questo non vuole affatto dire che noi tutti portiamo in noi stessi dei nuclei di malattia mentale. Questa affermazione può essere vera o falsa, ma non interessa. Ciò significa soltanto che, dal momento che l'alienazione mentale, in quanto manifestazione della vita, è possibile, ciò comporta che le pietre che la costituiscono si devono ritrovare, anche se in altro posto e con diversa tonalità, in noi, in quanto esseri umani".
Esula da questo lavoro la pretesa di poter citare, se pure brevemente, tutti i principali autori che hanno contribuito ad arricchire e sistematizzare la disciplina psicopatologica; non posso non esimermi dal ricordare Schneider (1959), con i suoi concetti basilari di fondo (Untegrund), spazio extra-psicotico, tema (contenuti dell'esperienza psicotica) e forma del tema (modo di esserci, Seinsweise des Themas).
Da Schneider in poi il problema della Sinngebung (la donazione di senso) è stato al centro della ricerca psicopatologica, "toccando con Binswanger senza ombra di dubbio la vetta più alta" (Di Petta, 1995).
Donazione di senso dunque: anche se la psicopatologia fenomenologica segue più strade: non abbandona mai il Verstehen japersiano, rivolto a vissuti coscienti, "ma vuole anche indagare, appoggiandosi specialmente a Husserl, sull’attività preriflessiva non cosciente, così come fanno l’ultimo Binswanger e il suo allievo Blankenburg". (Gozzetti, 1999)
"Ascoltare, sentire descrivere in collaborazione col malato, cercare di cogliere un senso seppur provvisorio da comportamenti che, a prima vista, possono sembrare assurdi: questo è lo scopo della psicopatologia, o, se si vuole, della ermeneutica psicopatologica, col suo faticoso perseguire il cammino della comprensione, formando e riformando come in un cerchio su di un tema, riprendendo ogni volta, con ulteriori possibilità di intravedere sempre di più".(Gozzetti, 1999)
Ma va chiarito che la descrizione e l’analisi non sono possibili in psicopatologia se non nell’incontro tra operatore e paziente: non esiste altra forma di conoscenza psicopatologica che non sia quella che si fonda sulla intersoggettività.
Scrive Husserl (1965): "siamo dei molteplici soggetti sensibili, ma in quanto comunichiamo, il senso di tutti serve ad ogni soggetto, e ciò in modo tale che ognuno si trova di fronte a un mondo che si è costituito con tutti questi sensi e sa che, per questo rispetto, esperisce un mondo uguale a quello degli altri. E’ come se ci fosse un mondo collettivo correlativo a un soggetto unico" (1912-1928, pag. 126).
Eugenio Borgna ci ricorda che " non ci è possibile conoscere nulla di ciò che si svolge negli abissi senza fondo della interiorità, della nostra interiorità e della interiorità dei pazienti, se non rinunciamo ad ogni atteggiamento di distacco e neutralità". (1996)
La psicopatologia fenomenologica ci insegna anche a tenere in massima considerazione la storicità del sintomo all’interno dell’incontro paziente — terapeuta: perché i sintomi o, meglio, i fenomeni, non sono dati osservabili in modo astratto, mentale astorico, oggettivato: essi "parlano" cioè acquisiscono frammenti di senso solo all’interno di una relazione: "prima dell’incontro clinico il sintomo, in certo qual modo, non ha senso. La sua storia si crea nella misura in cui esso viene espresso e colto". (Callieri, 1996)
Perché ho voluto sottolineare la distinzione tra sintomo e fenomeno? Questi due termini sono collegati a due modelli diversi: il sintomo rimanda ad un modello di malattia, nel nostro caso di malattia mentale, che comporta un danno ed è inaccessibile all esperienza dei più; il fenomeno costituisce la modalità attraverso cui la soggettività del paziente può trovare la sua espressione e il suo senso.
Insomma per la psicopatologia fenomenologica i disturbi mentali non sono delle entità di natura (in altre parole delle malattie somatiche (con l’eccezione evidente delle psicosi organiche)), bensì dei costrutti tesi a rappresentare, quanto più fedelmente possibile, degli stati di sofferenza soggettiva complessi e apparentemente privi di senso e impossibili da comprendere, ma che in realtà appaiono, nella lettura psicopatologica, solo modalità peculiari di costruzione di una singola e irripetibile soggettività. Lo psicopatologo si avvicina a questi modi di essere nel mondo con il massimo rispetto con la totale consapevolezza che non riuscirà mai a disporre di un saper completo ed esaustivo: la psicopatologia, per usare le parole di Gozzetti (1999), " gira attorno al suo oggetto, cercando di cogliere il significato e quindi più con l’ascolto che con lo sguardo, sapendo in anticipo che non arriverà mai ad una conoscenza totale".
Ma torniamo ora alle divagazioni. Non è certo possibile commentare in questa sede tutti i fenomeni via via toccati da Barison.
Un ricordo personale (e un pizzico di narcisismo) mi spingono a parlare oggi della W.S.: un ricordo personale in quanto io ero presente durante la conversazione del ’92 in cui, tra le altre cose, Barison si soffermò a lungo sul concetto di W.S., citando un lavoro che io avevo di poco pubblicato su questo argomento (ed ecco il narcisismo…).
Il tema della W.S. è un tema di grande interesse, in quanto identificato da molti Autori, a partire da Jaspers, come fenomeno tipicamente caratterizzante le fasi iniziali delle psicosi acute non confusionali.
Noi traduciamo oggi il tema W.S. con "stato d’animo delirante" o "atmosfera delirante", non più con "umore delirante": Stimmung in Tedesco è parola densa, che contiene in sé anche il termine Stimme (voce), ma anche come rileva Di Petta (1999) a locuzioni quali "Das stimmt! (va bene, sono d’accordo) o, in caso di disaccordo "Das stimmt nicht!".
Barison, parlando della W.S., la definisce come "uno stato morboso che compare nelle psicosi acute "lucide" (cioè non confusionali), tipo poussées schizofreniche e bouffées deliranti; aggiunge che "nella letteratura sull’argomento si compie l’errore di confondere questo evento psicopatologico tumultuoso sviluppo dei deliri che ad esso fa seguito, spesso sovrapponendosi ad esso. Ma ciò che è interessante è che nell’evento umore delirante non esistono deliri, ma tutto si svolge "come se" i deliri nascessero da questo magma informe. La parola umore (in italiano) favorisce una concezione piuttosto meccanicistica: di una specie di premessa "affettiva" al formarsi dei deliri. In realtà è una convinzione che nel cosiddetto umore delirante vi sia sempre un vissuto oscuro di azione esteriore: un’azione esteriore prodotta misteriosamente da un potere dotato di intelligenza e volontà, anche se, nella fase di W.S., del tutto ignoto".
Nella W. S. il paziente ha la sensazione angosciante, dolorosa quasi, che "qualcosa" sta cambiando o già cambiato, che il mondo esterno non è più pacatamente innocuo, ma che sono in atto trasformazioni, mutamenti, sovvertimenti che egli a malapena, ma di cui non sa dare alcuna spiegazione.
Barison aggiunge che l’umore delirante "produce nel paziente uno stato di cosiddetta perplessità: … il perplesso (a differenza del confuso) sa tutto di sé e dell’ambiente, conosce i significati normali, ma, in più, tutto assume nuovi significati, di irrealtà, di contraffazione , di manomesso intenzionalmente. E qusto si accompagna ad un senso di misteriosità, di presenza di potere sovrumano".
La posizione di Barison qui è di una non separazione tra W.S. e perplessità, anzi egli afferma che la W.S. produce la perplessità.
E’ una posizione molto simile a quella assunta recentemente (1998) da B. Callieri, senza dubbio uno dei più grandi psicopatologi internazionali; in questo lavoro egli fa un chiaro accostamento tra W.S. e perplessità, andando contro ad una tradizione che ha sempre mantenuto distinti questi due stati psicopatologici.
Ma andiamo per gradi:
- Per Callieri (1962) la W. S. si caratterizza in una diffusione abnorme, aspecifica, generica della intenzione di significato, senza che per altro vi sia un compimento di significato. L’intenzione di significato si diffonde e si verifica "una trasformazione del significato di tutto quello che ci circonda: l’esperienza del mondo è carica di molteplici e contrastanti rapporti potenziali. Tutto il percepito e il percipiendo hanno perduto l loro significato abituale e non hanno ricevuto nessun altro significato che possa, sia pur transitoriamente, sostituirlo".
- Per la più recente tradizione psicopatologica comunque la W. S. non può essere considerata la base da cui poi prendono forme e contenuto i deliri: come scrive K. Schneider "la percezione delirante non è deducibile da uno stato d’animo".
- La perplessità viene definita come uno stato d'animo misto (fatuo e ansioso) con espressione mimica e gestica caratteristica in sospensione, e con espressioni verbali in cui è assente il risultato del pensiero, la sua concludenza.
La definizione di perplessità focalizza soprattutto la poca chiarezza, l'atteggiamento di difficoltà del paziente a mettere ordine in un mondo interno impreciso, vago, pieno di "vuoti", di sfumature che rendono ogni tentativo di avvicinarsi all'altro alquanto difficile se non impossibile.
Per Jaspers (1913), perplessità confusionale e psicotica non sono chiaramente separate; di fatto egli descrive in modo approfondito solo lo smarrimento confusionale; peraltro pur avendo egli ben colto le affinità esistenti tra perplessità psicotica ("paranoica") e Wahnstimmung e tra l'aspetto lucido della "perplessità paranoica" e quello invece "confuso" proprio dell’amenza.
In un saggio del ’58, Barison si era occupato a sua volta di W.S. e perplessità, scrivendo che "la Wahnstimmung consiste nella semplice coscienza" che un oggetto ha acquistato un significato nuovo, diverso dai suoi usuali, ma il soggetto non sa quale. Non si tratta di una fase del processo interpretativo, ma di una esperienza completa e particolare, di una varietà di interpretazioni con coscienza immediata di significato, anche se il significato è oscuro. La Stimmung di significato delirante diffusa si può presentare, in una forma ancor più sfumata, che costituirebbe quello stato di incertezza, di disorientamento affettivo che non è ansia e non è confusione, che si trova spesso nelle psicosi acute non confusionali e non distimiche, e che viene chiamato Ratlosigkeit, GrundStimmung".
E ancora Barison (1958) sottolinea che "il sintomo detto Ratlosigkeit si risolve in una forma particolare di Stimmung di significato delirante. In tale stato la coscienza di significato e ancora più sfumata che nella Stimmung propriamente detta. Essa si rivela nell'espressione del volto tesi, interrogante, senza che vi sia confusione. Soprattutto se accuratamente e opportunamente esaminato, il paziente allude alla percezione diffusa di un mondo nuovo, cambiato, vagamente minaccioso, inspiegabile".
Nelle divagazioni quindi Barison riprende un punto di vista già espresso molti anni prima arricchendolo e "perfezionandolo", dando dimostrazione di come il suo pensiero fosse sempre stato attivo su temi fondanti il pensiero psicopatologico quali appunto la W.S. e la perplessità, cioè su temi irrinunciabili per chiunque voglia confrontarsi con la comprensione degli esordi psicotici e in particolare, delle fasi esperienziali precoci delle psicosi acute non confusionali.
Tutto ciò non è scollegato dalla pratica terapeutica; Barison era rimasto colpito dalla nostra osservazione sulla importanza della voce, del parlare a questi pazienti, facendo loro comprendere la possibilità di riportare nell’area dello scambio interpersonale questa loro esperienza così angosciante: "far sentire la voce a questi "stonati" nel mondo dei significati", così egli aveva concluso le sue osservazioni, con un guizzo iperbolico, che sembrava da solo capace di aprire nuove letture del fenomeno W. S., partendo da qualcosa che noi avevamo annotato, ma che lui era stato in grado di riportare ad un livello raro di comprensione.
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