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Fatti come topi. Nella stessa tana.

30 Nov 20

Di k.luchetti

"La pioggia è caduta, e poi ancora sempre meno e poi più nessun incoraggiamento, non uno solo, per la strada" 

 "Eravamo dunque rimasti tra noi? Gli uni dietro gli altri? La musica s'è fermata. < Riassumendo, mi son detto allora, quando ho visto come girava, non è più divertente! È tutto da ricominciare!> Stavo per andarmene. Ma troppo tardi! Avevano rinchiuso zitti zitti la porta dietro di noi civili. Eravamo fatti, come topi".  

Luis-Ferdinand Céline 

 "Vorrei essere lasciato in pace / Nessuno che ti dica più niente / Nessuno che ti faccia promesse / Nessuno che ti regali speranze / Nessuno che ti dica d'amarti". 

Emidio Paolucci 

 

Mi ricordo delle casse di piante in omaggio fuori dall'entrata dell'ospedale.  

Ricordo le immagini di medici e infermieri vestiti da supereroi su Facebook. Mi ricordo, la favola del popolo fomentata dalle televisioni e nutrita dallo stesso discorso che ha sperato che i sanitari con il loro sacrificio permettessero il più presto possibile al capitale di rimettersi in moto, sfrenato. 

La favola è durata il tempo di una stagione e dopo aver assaggiato l'estate, la nuova chiusura dettata dall'impennata dei contagi ha portato via con sé, getto di spugna, gli incoraggiamenti, i fiori e i patrioti. "La pioggia è caduta e poi ancora sempre meno e poi più nessun incoraggiamento, non uno solo, per la strada". "La musica si è fermata", quella dell'elogio, ma ha continuato a suonare la musica dei numeri sterili, quella della critica acefala e il populismo non ha mai smesso di parlare. 

"È tutto da ricominciare!", mi verrebbe da dire, ma poi cosa? 

Percorro la strada che buia ai piedi delle montagne affianca abitazioni e connette la mia casa con l'ospedale. Nelle finestre le luci accese, da fioche a necessariamente sparaflashate, inchiodano le esistenze che dall'altra parte del vetro abitano a posizioni naturalmente insignificanti se confrontate col tutto. Chi siede al tavolo, la testa tra le mani, sul muro dei quadri con la cornice nera, tre, o quattro e la luce che acceca. Chi avvolto da luce calda, per la finestra guarda fuori, chissà dove e cosa pensa. Chi di profilo parla, non si vede l'interlocutore, o forse solo con le sue voci, con la sua oscurità.  

Mi colpisce la fragilità dell'uomo. La mia fragilità, quella di chi mi accompagna, di coloro che incontro e che vengono chiamati a fare cose grandi, tipo sconfiggere una pandemia, da fragili. Mi colpisce anche la fragilità di chi urla, di chi alza la voce, di chi minaccia, violento, passivo o aggressivo che sia: minacciosi, pazzi, pericolosi, emarginati, mafiosi, tutti bisognosi di qualcosa: fragili. Non esistono i forti. Fragili, tutti, in quanto uomini e donne 

Ho visto la foto di un uomo pieno di muscoli, uno di quelli che ha passato parte della sua vita a tirare su pesi, uno sportivo direi, che io non sono, morto per coronavirus19. 

Fragili-tutti-in-quanto-uomini-e-donne. 

E il ragazzo-senza-amore è nel letto con gli stessi vestiti da due settimane e dorme piuttosto sedato con addosso la giacca a vento. I pantaloni rotti, mi ricorda Trinità che si fa un bagno nel vecchio West e poi indossa di nuovo i vestiti pieni di polvere. Ma a differenza di Trinità che ha nemici fuori, lui i nemici ce li ha anche dentro. E la follia che ha dentro è il risultato del niente che ha fuori. Non una mamma che lo ama, non un fratello che lo cerca,  un padre che lo sostiene e lo rialza quando cade. 

"L'Amore è finito [quando è stato?], anche la natura non cresce più. Voglio solo morire": queste le parole che mi ha rivolto quando siamo andati a prenderlo nel sottotetto dove si era rifugiato. Un sottotetto di una casa oramai diventata un cantiere. Una casa che era stata familiare, prima della separazione dei genitori, prima delle occasioni che gli altri fratelli hanno avuto, non colpiti, come lui, dalla schizoroba. 

Emidio è un ergastolano di cui parla Pierpaolo Capovilla mentre narra la grandezza del cuore umano, che le sbarre non cancellano, dice, cuore umano che è grande, ma anche piccolo, a volte. 

In quel grido lanciato dal ragazzo c'è rassegnazione, ma speranza che la natura possa iniziare a crescere, di nuovo. La casa a essere vissuta. L'attorno a essere riempito. 

Quindi la notte qualcuno lo va a cercare, per quello aveva sbarrato la via di accesso alla soffitta, nella persecuzione il seme del desiderio di essere cercato. Ma "non riesco mai a beccarlo" dice, alludendo al suo persecutore. Per cui "non voglio essere lasciato in pace / voglio qualcuno che mi dica qualcosa / qualcuno che mi faccia una promessa / che mi regali speranze / che mi dica ti amo". 

E sono sempre più convinto che la fagilità dell'uomo possa essere contenuta soltanto dall'amore, fragile anch'esso perché umano. Per cui mi chiedo, può esserci una clinica senza amore o meglio una cura senza il prendersi cura? 

Sistemi diagnostici freddi e piatti e linee guida questo fanno: sradicare l'amore dalla cura. 

Cura senza prendersi cura. 

Cura come mero frutto di un giudizio. Pregiudizio. 

Ma di cosa sto scrivendo, mi chiedo. 

Della fragilità umana che ci accomuna tutti, esseri umani, quando rimaniamo con il "cerino in mano", quando viene chiusa la porta "dietro di noi civili"; quando ci troviamo "fatti come topi", quando è oramai troppo tardi, per rendercene conto. Fragili tutti. 

Alle cinque del mattino mi trovo in Pronto Soccorso a soccorrere un giovane uomo che si è portato da solo a questo incontro, ha parcheggiato l'auto nelle strisce blu, tanto oggi è domenica, dice. 

Vittima della psicopatologia delle relazioni, del tradimento, del lockdown. 

Posso offrire a lui un letto dove riposare, dopo una notte insonne, naufragato nel pensiero suicidario, come soluzione certa al dolore dell'abbandono. 

In fin dei conti stiamo parlando ancora una volta di amore, quello mancato, quello sottratto, quello cercato di notte in ospedale.  

Può l'ospedale rispondere al bisogno di amore? Per quale diagnosi? Per tutte o per nessuna.  

Fatti come topi, pazienti-e-terapeuti. Accomunati dalla stessa fragilità.  

Niente più piante fuori dall'ospedale.  

Niente più disegni di medici e infermieri vestiti da Superman.  

Nell'epoca del "non ce n'è coviddi". Fatti come topi. Nella stessa tana. 

 

 

 

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