Questo secondo libro parte proprio dai commenti della stampa e di molti pensatori dopo la morte di Basaglia; puntualmente Peloso raccoglie i vari articoli pubblicati e li ripropone alla nostra memoria compiendo un’opera secondo me importante di riposizionamento storico dell’avventura dell’uomo/psichiatra Franco Basaglia.
Un’avventura cominciata all’interno delle mura della Clinica Universitaria padovana di Malattie nervose e mentali nel corso degli anni 50, fino al 1961, anno in cui Basaglia entra, come Direttore, nel manicomio di Gorizia.
Dell’importanza avuta dagli anni di formazione padovana Peloso si era già occupato nella sua prima opera, ma riprende anche in questa ultima a più riprese la fondamentale radice fenomenologica a cui Basaglia aveva attinto profondamente, rivelandosi fin da quegli anni un intellettuale rigoroso, curioso, non chiuso negli schemi così rigidi di una formazione universitaria organicista, capace di sfidare un sapere che gli sembrava fin da allora retrivo e non in grado di cogliere fino in fondo la reale dimensione della sofferenza dei pazienti che la Clinica comunque accoglieva; chiaramente era sempre un accoglimento selezionato, l’ingresso e la possibile occupazione dei letti della Clinica non era solo basato su una diagnosi, essendo chiaramente i pazienti più gravi destinati al ricovero in Ospedale Psichiatrico.
Ospedale psichiatrico che Basaglia conosce in qualche modo “per immersione”; non è una conoscenza graduale, ma è proprio un sentirsi sommerso da una realtà a tratti così brutale da poter essere difficilmente immaginata prima, tanto che Basaglia paragona il suo ingresso nell’ospedale psichiatrico di Gorizia alla sua esperienza avvenuta durante la guerra (1944) in cui, giovane studente universitario, era stato incarcerato perché oppositore antifascista.
La prima impressione quindi è di un ospedale che somiglia a un carcere, riporta gli stessi odori, la stessa disumanizzazione: ecco io penso che un corretto profilo di Basaglia debba partire da questa situazione di coraggio, straordinario, con cui Basaglia comincia ad affrontare non il problema del manicomio di Gorizia, ma il problema del manicomio in sé: Gorizia diventa un emblema, diventa il sussunto di tutto ciò che la chiusura manicomiale, in ogni parte del mondo, porta con sé.
Lottare per liberare Gorizia significa quindi cominciare un lavoro di rottura con l’istituzione manicomiale capace di diffondersi a macchia d’olio, di espandersi all’inizio in tutta Italia, ma anche oltre, in quanto i concetti che stanno alla base della lotta contro la separatezza provocata dall’Ospedale psichiatrico e la conseguente istituzionalizzazione sono concetti universali, ed è proprio per questo che la figura di Basaglia negli anni 70 diventerà un’icona di questa lotta, capace di superare, e di molto, i confini italiani.
Vi è da dire, a mio avviso, che, già verso la fine degli anni 60, la graduale conoscenza della realtà impoverita e gretta cui erano costretti i pazienti all’interno dei manicomi aveva colpito profondamente la società italiana che, se da una parte doveva riconoscere la perdita di umanità causata dai manicomi, dall’altra non era ancora in grado di pensare compiutamente a una società in cui i malati mentali potessero essere curati senza erigere dei muri, senza obbligare alla perdita degli affetti, senza infliggere la morte civile (perdita del diritto di voto, del diritto di testare, firmare dei contratti eccetera).
Il secondo libro di Peloso ci porta dentro quest’ultima contraddizione, dopo essersi a lungo soffermato sulle vicende che, prima della morte Basaglia, avevano portato alla promulgazione della legge 180.
Peloso ripete più volte che Basaglia, contrariamente a quanto gli si attribuiva, non aveva mai negato l’esistenza della malattia mentale, ma aveva quasi esasperatamente sottolineato l’esistenza delle due facce della malattia: la malattia in sé, portatrice di sofferenza e dolore mentale, e la corazza istituzionale, vera e propria altra malattia che, oltre a nascondere la prima, aveva in sé il torto più grave: quello di nascondere l’unicità della persona, rendendo impossibile riconoscerla all’interno della massificazione imposta da una istituzione così disumanizzante e priva di possibilità terapeutiche.
Questo mi pare un punto essenziale, in quanto, per molti anni dopo la 180, costituì il punto di attacco al pensiero basagliano, soprattutto da parte di chi il manicomio non lo aveva mai visto né “respirato”. Quindi attaccare Basaglia attribuendogli la patente di antipsichiatra, di negazionista della malattia mentale, è sembrato per un tempo piuttosto lungo l’unica maniera di difendere l’indifendibile.
Io ho iniziato la mia esperienza di lavoro sul campo sei mesi dopo la legge 180, dapprima, per pochi mesi, in O.P., e poi sul territorio.
Devo dire che allora gli scontri e i conflitti su questi temi erano particolarmente accesi, e il mondo sembrava veramente diviso tra basagliani e antibasagliani, in una realtà in cui anche molte associazioni dei familiari dei malati sembravano schierate a viso aperto contro la legge 180.
Realtà che, purtroppo, si è sviluppata senza Basaglia; a rigor di termini devo ammettere che molti dei suoi allievi non hanno contribuito a chiarire come l’essere riusciti a superare il manicomio non volesse assolutamente significare la chiusura della ricerca terapeutica, della presa in cura delle persone gravi e meno gravi, della importanza di soffermarsi su concetti come accoglienza, sollecitudine, preparazione e continua formazione del personale “psic-“, concetti che andavano senza dubbio insieme ma non contro a quanto Basaglia si era sforzato di testimoniare (in prima persona) e di scrivere.
Certo dopo il 1972 e la radicale drammatica chiusura dell’esperienza Goriziana, Basaglia, che nel frattempo si era già spostato a Trieste, radicalizza il suo pensiero concentrandolo sulla necessità di comprendere l’importanza della lotta antiistituzionale e del rapporto che la psichiatria deve avere con il Potere, politico, giudiziario, economico.
Di questo periodo soprattutto si occupa quindi il secondo libro di Peloso, che mette nelle sue osservazioni innanzitutto le sue capacità di Storico, poi la sua esperienza di Psichiatra.
A differenza di quanto in qualche modo caparbiamente sostenuto da Peloso, mi permetterei, forse anche per motivi di età, di essere un po’ più critico rispetto agli anni triestini di Basaglia e, soprattutto, a quanto accaduto dopo la sua morte.
Come ho detto dianzi, Basaglia è stato attaccato in quanto uomo di sinistra, in quanto (supposto) negatore dell’esistenza della malattia mentale, in quanto portatore di una critica alle istituzioni totali che evidentemente diventava critica a coloro che le avevano gestite e continuavano a farlo, fossero essi politici o tecnici.
Questi attacchi apparivano forse più comprensibili all’interno della società italiana degli anni 60- 70, intrisa di profondi rivolgimenti sociali, spesso impossibilitata a emergere dal mare delle proprie contraddizioni, che sbocceranno nel buio periodo brigatista, e nell’assassinio dell’on. Moro, avvenuto pochi giorni prima della approvazione della legge 180: forse è utile ricordare che questo era il clima in cui era inserito il dibattito, spesso quasi feroce, sui manicomi, sulle modalità con cui la società doveva prendersi cura delle malattie mentali, sulla radicale negazione non della sofferenza, ma del contenitore di questa sofferenza, incapace di curarla, ma molto efficiente nel renderla “cronica”, “inguaribile”, “senza speranza”.
In realtà, la legge 180, a torto soprannominata legge Basaglia, (ben altre cose Basaglia avrebbe voluto…), ebbe l’unico merito di normare i ricoveri volontari e quelli effettuati senza il consenso del malato (TSO), ma non comportò nessuna rivoluzione, che peraltro nessuna legge avrebbe potuto comportare; per legge si sarebbero potuti però destinare ai nuovi servizi per la salute mentale energie fresche, fondi adeguati, strutture territoriali aperte, cosa che accadde solo in pochissime realtà.
Fino a metà degli anni ‘90 gli Ospedali psichiatrici di molte parti d’Italia (Nord e Sud) continuarono ad accettare i ricoveri e a gestire tutti quei pazienti che non avevano potuto trovare nelle strutture territoriali una diversa modalità di accoglienza, di cura, di rinascita di una speranza.
Cosa possiamo dire dunque della avventura basagliana? Come si sarebbe evoluta la legge 180 se Basaglia non fosse prematuramente scomparso? Ci sarebbero state delle effettive differenze con quanto poi accaduto?
Penso che possiamo avere di tutto ciò una lettura innanzitutto storica, ed è quello che innanzitutto ha fatto Peloso nei suoi due volumi; possiamo ancora seguire Peloso nella sua lettura molto concordante con la visione basagliana di una lotta antiistituzionale che non poteva fermarsi solo dopo la distruzione delle mura manicomiali; possiamo fare una valutazione, dal punto di vista di operatori psichiatrici, di che cosa è realmente cambiato nella assistenza e nella cura ai malati mentali e nella società odierna, 45 anni dopo l’approvazione della legge 180,100 anni dopo la nascita di Basaglia, a quasi 44 anni dalla sua morte.
Nei due volumi dedicati da Paolo Peloso all’opera e alla vita di Franco Basaglia, io ho ritrovato il tentativo di dare una risposta a tutte queste domande, risposta che per forza di cose è sempre parziale, ma che testimonia la necessità di non perdere di vista la lezione fondamentale lasciataci da Basaglia: non ci può essere salute mentale all’interno di una dimensione di coartazione e di violenza, non ci può essere terapia se non nella libertà delle persone, non ci può essere salute senza salute mentale.
Ricordando le parole di un grande fenomenologo (A.Tatossian): “.. Se l’umanità non sceglie le sue malattie mentali, essa sceglie la sua psichiatria, poiché questa riflette lo spirito dell’epoca e la sua antropologia latente”.
È proprio partendo da questo Zeitgeist che si può a mio avviso comprendere come l’opera di Basaglia non sia solamente riassumibile nella locuzione “lotta al manicomio”, ma debba includere una lettura molto più profonda, che in qualche modo ha fatto emergere all’interno della nostra società un bisogno collettivo di ricerca di vie diverse nell’approcciarsi alla presa in cura della sofferenza mentale; che poi questa lettura, negli anni 70, si sia soprattutto centrata su un aspetto più politico meno “tecnico”, ciò è a mio parere incontrovertibile, e in questa torsione vi è stato senza dubbio il rischio, in molte situazioni diventato realtà, di una cieca opposizione a tutte le tecniche, come se il ricercare tecniche più adeguate di intervento sulla sofferenza mentale dovesse significare sempre e di nuovo ricadere nella disumanizzazione e nella separatezza del malato dalla società.
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