Il crollo di un ponte può rappresentare il rimando emotivo ad aspettative deluse, a obiettivi prima avvertiti come possibili e successivamente vissuti come irraggiungibili, alla potenziale soddisfazione di bisogni che si trasforma in una cocente frustrazione.
La sua caduta dà rappresentazione alla separazione, alla perdita, allo scardinamento di rapporti fino a quel momenti vissuti come stabili e addirittura alla sensazione di rovina irreparabile. Ed è questo, accanto alle ragioni economiche e di mobilità delle merci e delle persone, il motivo del perché i ponti sono una delle opere che primariamente vengono ricostruite nella fase postbellica. Essi rappresentano la continuità lacerata del dialogo fra le generazioni.
Nell’aprile 1945 Pietro Calamandrei fondò la rivista “Il Ponte”, pensando alla ricostruzione del ponte Santa Trinita di Firenze, fatto saltare dai nazisti. Il nome della rivista ha voluto rappresentare il bisogno di ricostruire la democrazia in Italia dopo il periodo fascista. Il ponte di Mostar in Bosnia ed Erzegovina ha sancito per secoli l’unione etnico-religiosa di due parti della stessa città, quella cristiana e quella musulmana. Dopo la sua distruzione nel 1993 durante la guerra nei Balcani, è stato ricostruito a partire dalle due parti monche con materiali nuovi come il vetro e l’acciaio, a significare la spinta verso il futuro, ma conservando le stesse sembianze originarie, come memento della tragedia. Il ponte, simbolo del bisogno di comunicazione e pacificazione, rappresenta la capacità di non arrestarsi di fronte agli ostacoli, di valicare le fratture, di ricucire gli strappi. Il ponte indica che le due parti, e di conseguenza il vuoto che si presenta fra l’una e l’altra, sono superabili, ricongiungibili, che c’è quindi la possibilità di fare un passo e poi un altro e un altro ancora per attraversarlo.
La ricostruzione del ponte è la rappresentazione plasticamente simbolica del passaggio da vissuti di precarietà psichica, di azzeramento di progetti esistenziali, di depressione e angoscia di morte, di paura del futuro a vissuti di riparazione, a rinnovate sensazioni di potenzialità ricostruttive dei propri progetti esistenziali, di riappropriazione delle aspettative verso l’avvenire. Una delle più antiche vie del sale partiva dal porto di Genova e, attraversando prima gli Appennini e poi le Alpi, permetteva alle merci di transitare e di raggiungere l’Europa. Il nuovo ponte dovrebbe avere quelle caratteristiche di percorribilità e di apertura e noi tutti dovremmo diventare gli stradini, eredi dei curatores viarum dell’antichità romana, capaci di curare, ripristinare e a mantenere aperta e transitabile la nostra nuova Via del Sale. Per Renzo Piano, la progettazione e la costruzione del nuovo ponte, sospeso tra il coraggio della modernità e la prudenza della tradizione, hanno il senso di eludere i confini tra invenzione e memoria, e di trasmettere la passione per gli incroci, gli scambi, le connessioni, per i varchi in contrapposizione alle barriere. Il nuovo ponte è, quindi, l’espressione di una posizione intellettuale ed emotiva che prende le distanze dall’omologazione, dal conformismo, ma anche dalla faciloneria tecnica e però è capace di rispetto per il genius loci, per l’identità del territorio, che non può essere svilita né violentata. Sappiamo che nel Grand Tour italiano del primo novecento, obbligatorio nel tragitto formativo degli intellettuali europei, Genova non aveva un ruolo centrale, anche perché i viaggi in territorio ligure erano molto scomodi. Sigmund Freud, descrivendo il suo viaggio verso Genova in una cartolina postale indirizzata a sua moglie Martha e datata il 13 settembre 1905, parla di “un brutto viaggio con molti tunnel”. Il nuovo ponte è una risposta importante a quelle difficoltà di connessione tra Genova e il mondo e può indicare il bisogno di raccogliere le forze per attraversare la vita là dove la realtà si increspa in difficoltà ed ostacoli e diventare una grande risorsa per il bisogno di avvicinare, congiungere, conciliare, collegare, andare verso l’ignoto, ma anche per essere ospitali verso chi viene da fuori a visitare la nostra bella terra.
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