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I Ceri di Gubbio – la corsa dei Matti.

27 Giu 22

Di Sergio-Mellina

 

L'cero 'n se ferma

L’imperativo categorico eugubino

 

Via, ch’eccoli!”

Grido al passaggio dei Ceri durante la Corsa,

da sempre [01].

 

Se do le luci sul set della memoria, alla parola “Gubbio”, meglio ancora “Ceri di Gubbio”, si annodano i fili di una tela in cui compare questa scena: «Dotto’, sono le sei e mezza. Oggi aumentiamo un pochino la dose d’insulina. Facciamo 25 unità sulla natica destra e 26 sulla sinistra, dovremmo ottenere il coma, ieri c’eravamo quasi!» [02].

A strattonarmi nel giaciglio dello psichiatra di guardia di “Villa Elisabetta” [03] la casa di cura privata, molto esclusiva del mio direttore, anzi della di lui consorte, era l’abile infermiere psichiatrico Ubaldo, che indicheremo col nome di fantasia «Mosca» [04].

Il paziente era un giovanottone di Brisighella portato dal padre perché solo lì era possibile fare la Sakel-terapia in piena sicurezza, Ubaldo era nativo di Gubbio e m’insegnò ad andarci ogni 15 maggio, cascasse il mondo. Per molti anni mi ci sono recato con Silvia, poi con tutti i figli, man mano che ci nascevano. Dapprima in città, rischiando di dormire in macchina perché gli alberghi erano pieni e andavano prenotati con largo anticipo. Poi trovammo una via di mezzo, andando a Fossato di Vico, da certe suorine che tenevano pensione ed erano felici di ospitare un famiglia rumorosa, di molto appetito, di grande entusiasmo e soprattutto matta, guidata da un “Primario dei matti” in persona, attratti non si sa bene in virtù di quale magico, tenace, arcano richiamo.

Certamente io volevo capire le origini remote di tanta follia della tradizione in un borgo medioevale, ma Silvia era innamorata dell’Umbria in maniera speciale. C’eravamo stati da fidanzati per fare dei giri. Dal pozzo di San Patrizio a Orvieto, manufatto rinascimentale di Antonio da Sangallo, a Deruta per le ceramiche artistiche, dalle Fonti del Clitunno a Trevi, dal “Cochetto”, dove si fermava a mangiare anche il “Duce”, sulla “Romea”, evitando accuratamente Spoleto quando c’era il “Festival dei Due Mondi”, troppo snob.

A Silvia piaceva il clima spirituale e artistico dell’Umbria, gli oggetti artigianali, i manufatti, le ceramiche … Ad ogni rientro, nel bagagliaio dell’automobile, trovava posto un piatto decorato, un vaso istoriato, una sedia restaurata scovata dall’antiquario …

Man mano che ricordo l’Umbria, mi torna in mente Giovanni Gigliozzi, scrittore e regista Rai, che avevo incrociato in Via Asiago 10, quando recitavo nei radiodrammi della Compagnia di Prosa di Roma ed ero studente di medicina, molto consultato da celebri voci radiofoniche sulle patologie più strane. – «Mellina, vedi che domani è il Venerdì Santo, dobbiamo andare a Todi, alla Cattedrale di Santa Maria Annunziata. Ho promesso che faremo “Jacopone”, il “Pianto della Madonna”. Rina Franchetti mi ha già assicurato che ci sarà. Tu devi assolutamente venire, mi manca la turba, il popolo … il controcanto è fondamentale, lo sai. Passo io a prendervi con la macchina a mezzogiorno. Appuntamento davanti al baretto di Via Asiago. Puntuale mi raccomando!».

Umbria, luogo fascinoso di passioni e contraddizioni, di tradizioni remote, impregnate di sacralità pagana, naturale, ascetica, mistica, trascendente. L’Umbria è stata presente nella mia esistenza fin dalla prima gita liceale, ci andammo col pullman della scuola come premio di fine anno. Erano gli anni Cinquanta del secolo passato, i tempi di Luciano Emmer “Terza liceo”, la censura occhiuta sull’adolescenza, il primo Giubileo, la Diccì, Papa Pacelli, il dopoguerra. Il professore di filosofia ci aveva portato nientemeno che a Ficulle, sulla Via Traiana (la “Cassia Nuova”). Voleva che prendessimo confidenza con gli etruschi facendoci visitare i “sepolcreti rurali” (le grotte della Madonna della Maestà). Umbria! Italia di mezzo. Quella verde carducciana, terra di santi che ammansiscono lupi, terra pagana di adoratori rurali delle divinità delle acque, delle fonti, delle fecondità, dei raccolti, luogo misterioso e attrattivo, presente anche nella vita di Silvia, che aveva visitato col padre, da bambina.

Ma torniamo ai Ceri di Gubbio, alla Festa, rigorosamente con la effe maiuscola, alla Corsa vertiginosa che si snoda incredibilmente per le anguste vie medievali del Borgo. Noi, come carovana familiare, ci siamo andati fino al 1980. Una volta, prima di chiudere la baracca istituzionale della follia con la “Centottanta del 1978”, la “Basaglia-Orsini”, ci avevo portato in gita i “matti” del manicomio romano di Monte Mario – il “Santa Maria della Pietà” – con la caposala Suor Maria Caterina. La cosa più inverosimile è che ad “andare in toppa” [05] – anche per ubriachezza molesta – furono proprio gli infermieri psichiatrici. E ancor più fuori del comune è il fatto che a prendersi cura di loro e a riportarli ad uno ad uno sul pullman, affettuosamente, come si fa coi figli esuberanti, furono proprio i matti, peraltro contentissimi della gita, che se si guardarono bene dal prendere parte alle mattane eugubine.

Un anno molto lontano, alla simbolica ”Alzata” di mezzogiorno, avevo sulle spalle Alba Silvia, l’ultima nata, la quinta dei miei cinque figli, che tra le altre recriminazioni ha sempre lamentato quella di essere stata, una volta, smarrita dall’intera famiglia nella calca eugubina festante. Volevo farle vedere meglio lo svolgimento della “Corsa” in quello che è considerato formalmente l’inizio spettacolare, quando sento battermi leggermente sulla spalla destra. Una voce maschile beffarda mi sussurra all’orecchio: «Se me ce fai montà sù, t’arcont tut quel che se vede». Per me è rimasto il marchio, il timbro di autentica, sul concentrato della Festa dei Ceri di Gubbio.

La Corsa dei Ceri, consiste nel trasporto – in corsa sfrenata – di tre macchine a spalla, di legno, del peso di circa quattro quintali, dalla Piazza Grande [06], al Santuario sul Monte Ingino [07], dedicato al santo patrono Ubaldo. Quattro chilometri e trecento metri di corsa sfrenata in salita. Ciascuno dei Ceri è "incavijato" con un ferro (la “cavija”), per stare dritto, su apposite barelle o stanghe. Sono previste due fasi una mattutina che si conclude con l’”Alzata” di mezzogiorno e i tre giri (le “birate”) intorno al pennone in senso antiorario. Una pomeridiana, la Corsa vera e propria, che si conclude sul Monte Ingino, il “Colle Eletto”. L’intervallo è ristorato dalla “Tavola Bona”, il pranzo sontuoso dei ceraioli, dove si servono prelibatezze come il famoso “baccalà alla ceraiola”, la “coratella dei tamburini” e sono invitate le persone di riguardo. Si badi bene che la Festa di Gubbio, non è una rievocazione storico-religiosa, come spesso viene frainteso per superficialità. L’evento eugubino di metà maggio, è un rito propiziatorio pagano, che si perde nella notte dei tempi, in onore della terra, segnatamente, Cerere, la dèa delle messi, affinché il raccolto – prossimo alla maturazione – sia generoso.

La pedissequa narrativa corrente, racconta di una festa religiosa cattolica del medioevo in onore di sant'Ubaldo, vescovo e patrono di Gubbio, niente di più, ma non è tutto. Codesta versione eroica, taglia un lungo tratto di storia antica e di preistoria, in cui tale ricorrenza è sempre stata festeggiata, tranne le interruzioni per i conflitti mondiali. Documenti storici medioevali (di facile accesso), fanno risalire la nascita della Festa e della Corsa dei Ceri di Gubbio, a dopo la morte del loro vescovo e padre spirituale, Ubaldo Baldassini (1085-1160). Come condottiero, nel 1151, li aveva guidati vittoriosamente in battaglia contro la coalizione di undici città confederate, ostili a Gubbio, che l’avevano cinta d’assedio e, quattro anni dopo, li aveva salvati dal saccheggio di Federico Barbarossa (1155). In epoca medioevale, dunque, il festeggiamento, per gratitudine, a ricordo dell’impresa, sarebbe consistito, in un’offerta di cera, che le corporazioni eugubine, donavano al patrono. Successivamente, la quantità generosa di cera decorata con colori vivaci e distinguibili per confraternita, ricopriva un manufatto di legno per sostenerla, molto più adatto alla bisogna. Naturalmente la Festa e, successivamente la Corsa, testimoniavano l’entusiasmo del dono, la riconoscenza, la generosità, la lealtà a Sant’Ubaldo.

Ciò che è rimasto ed è possibile ammirare oggigiorno, sono la data della festa, il protocollo del cerimoniale, le regole non scritte ma rispettate, che valgono per l’intera giornata. Brevemente, la cronologia, prevede: ore 5.30 i tamburini svegliano i “Capitani” e i “Capodieci”, ore 6.00 il "Campanone" del Palazzo dei Consoli sveglia tutto il borgo. Ore 7.00 visita al Cimitero Civico per commemorare i ceraioli defunti, il che significa che il ciclo vitale della natura trapassa dalla morte alla rinascita con l’esplosione della primavera. Si può aggiungere che i tre Ceri, praticamente, vengono assemblati in piazza “coram populo”, anzi con la partecipazione entusiastica del popolo eugubino che segue e controlla nei minimi dettagli l’osservanza dei rituali tradizionali. La spettacolo del mattino, che vale l’intera Festa, è l’“Alzata” di mezzogiorno, ma l’ingresso in Piazza Grande -la più grande balconata pensile del nostro medioevo – è uno spettacolo emozionante che monta d’intensità man mano che i soggetti – ciascuno, protagonista assoluto, nel ruolo assegnato – si succedono in rapida, festosa, eccitata esultanza, sulla scena.

Preceduti dal Trombettiere e dall’Alfiere, entrano il Capitano e il Vice-Capitano, che ricevono le chiavi della città dal Sindaco col beneplacito del Vescovo, mentre le “Chiarine” di Vitorchiano balzano rapidamente sulla balconata del Palazzo dei Consoli e intonano gli squilli convenuti, cui segue il “fazzoletto”, l’inno ufficiale della Festa, eseguito dalla banda musicale della Città. Ed ecco i “Capodieci” festanti che si sbracciano con le “brocche” di ceramica sopra la testa, seguiti dai “Capocetta” che alzano l’accetta bardata di rosso e, infine le statuine dei tre santi che, con un folto gruppo di ceraioli appresso, nelle rispettive divise gialle, blu, nere, che con la fusciacca rossa svolazzante, vanno a scomparire nei sotterranei del Palazzo dei Consoli in un tripudio colorato e sonoro di voci, canzoni, grida festose.

È già iniziato quel fenomeno partecipato collettivamente che si può tentare di definire come un tumultuoso trionfo dello spazio prossemico, del contatto, del bacio, dell’abbraccio, fra tutti i festanti, che diviene contagiosamente collettivo, per quella smania di toccare, carezzare, percuotere ritmicamente, tutte le parti del cero e delle statuine che lo sormontano, fino a diventare un corpo di individui che esprimono un’anima totale, antica, tradizionale, carnea, materica della natura che si rappresenta in tre aspetti simboli unici ma diversi: quello di sant'Ubaldo (patrono di Gubbio), di san Giorgio (protettore di artigiani e merciai), di sant'Antonio Abate (protettore dei contadini e degli studenti). Una esplosione di solidarietà, partecipazione della comunità tutta. Popolo, individuo coppia, gruppo, Eugubini, stranieri, amici, ospiti, ceraioli, curiosi, capitati per caso, ormai parte di un insieme dei simboli (i santi) che sono celebrati dalle confraternite, a scomparire quando viene evocato il padre di tutti, per i credenti. Ritualità apotropaica, toccare, allungare le mani, la processione e la corsa, la meditazione, la preghiera il ribollire degli ormoni della primavera, la furia delle passioni. Siamo a mezzogiorno e sulla scalea del Palazzo dei Consoli lo spettacolo entra nel vivo. Capitano e Vice Capitano, s’incontrano, a conferma palese del fatto che il potere sulla città è nelle loro mani.

Dal portone del Palazzo dei Consoli, escono i ceraioli col “Capocetta” davanti – ciascuno abbracciato al proprio Cero – e si precipitano per la scalea a raggiungere la barella di competenza che aspetta verticale e fremente con sopra il “Capodieci” che guiderà il Cero nella Corsa. Le operazioni d’”incavjiamento” dell’esagono ligneo alla barella, come l’ancoraggio della statuina di competenza in vetta, a coronare il Cero, sono frenetiche. Il "Capodieci" ritto tra le stanghe, gesticola e incita la folla, impugna la “brocca” che va e viene tra lui e il “Capocetta” per dare l’acqua al legno affinché la “cavija” (il ferro) picchiata, col piatto dell’accetta, nell’asola del “timicchione” inferiore del Cero, entri meglio. Nel frattempo altri ceraioli che hanno disceso la scalea per ultimi con la rispettiva statuina del santo la fissano sul "panottolo" superiore del cero con la supervisione del Capocetta che picchia dentro la fessura un cuneo di legno. Il vaso dell’acqua non serve più e dunque sale in alto per tornare nelle mani del “Capodieci” per essere gettato alla folla. È il segno d’inizio della Festa dei Ceri di Gubbio.

Finalmente l’”alzata”. Il “Campanone” rintocca, il “Capodieci”, al segnale del “secondo Capitano”, alza la brocca, ormai svuotata dell’acqua, una per gli spettatori, due per il “Campanone”, tre per lanciarla alla folla festante. Nel momento topico, s’inarca acrobaticamente sulle punte davanti della barella per trascinarle verso terra (“il volo d’angelo”) al fine di eseguire una erezione perfetta del Cero, aiutato dai suoi ceraioli, fra l’urlo osannante di tutti. Il rituale sincronizzato dei movimenti dei ceraioli, armonicamente dosato con la massima potenza, rende possibile l’apparizione contemporanea dei tre Ceri ritti nel cielo, incoronati dalle tre statuine, in un tripudio vistoso di colori, di grida, di entusiasmo. Nel frattempo la folla – incurante delle “birate” mattutine, coi Ceri ormai rizzati e scalpitanti – si accapiglia per terra, cercando qualche frammento di “brocca” da serbare per ricordo. La stessa folla che poco prima, protesa, fremente, ebbra per l’”alzata”, attendeva la preziosa ceramica, lanciata dal “Capodieci” sulla loro testa. La diretta televisiva di quest’anno 2022 è riuscita a far vedere tutti i dettagli.

Alle 17.00 ha luogo la processione dietro la statua di Sant’Ubaldo dal Duomo alla chiesa dei Neri. Intorno alle 17.50, con l'"Alzatella" ha inizio la competizione più sfrenata del pomeriggio. Dai “ceppi” che li sostengono, alla chiesa dei Neri, la prima fermata, via di corsa in attesa d’incrociare la processione, che viene in senso contrario, sono 150 metri. Le soste canoniche sono quattro, ma i tempi possono sempre essere migliorati. Dalla prima alla seconda sosta sono 665 metri (Calata dei Neri, Corso Garibaldi, Calatella di Meli). Dalla seconda alla terza sono 990 metri (Calata dei Ferranti, Mercato, San Lorenzo, San Martino Via dei Consoli). Dalla terza alla quarta, che inizia col fazzoletto bianco sventolato dal Sindaco dal Palazzo Pretorio, sono 960 metri (le “birate” della sera, il Vescovado, le Orfanelle, primo buchetto e secondo buchetto). Dall’ultima sosta, alla porta di Sant'Ubaldo, dove i Ceri sono poggiati a terra, dopo essere stati fatti passare in orizzontale con abilità e precisione millimetrica, per l’angusta strettoia delle mura, badando bene a non danneggiarli, neppure con un graffio, ha inizio il tratto più duro, più lungo, più spettacolare.

Sono 1565 metri, con un dislivello di +229 metri. Fra urla eccitate di “via, via, via”, cambi (“mute”) vertiginosi di ceraioli scalmanati – “capodieci”, “puntaroli”, “braccieri” – si susseguono su per gli stradoni sterrati del Monte, nove viali, otto tornanti, tre “capelucce” [08], la curva finale e l’arrivo in Basilica sono in totale 4 chilometri e 330 metri secondo le misurazioni ufficiali, perchè c’è chi si è preso la briga di controllare, verificare, documentare, e dunque per ogni eugubino la lunghezza di quel tratto è creduta con assoluta certezza, e rimarrà tale, indipendentemente dal tempo storico, cronologico, del calendario degli anni. Lo sforzo è sovrumano. Io stesso, una volta, ho tentato di seguire la corsa dopo il passaggio di Sant’Antonio, ma non sono riuscito a fare neppure mezzo tornante, mentre i ceraioli ricoprono la distanza in nove-dieci minuti. Perché tanta fatica? Perché tanto fiato speso se il tragitto percorso dai Ceri (sempre in corsa a perdifiato) dall’inizio alla fine, anche su per la salita dello “stradone” fino alla Basilica, in cima al Monte Ingino, è sempre lo stesso, con lo stesso ordine di arrivo delle tre macchine di legno?

Il senso di questa Festa per chi la coltiva, la tramanda e la ripete con assoluta fedeltà identitaria, come in altre circostanze etnografiche studiate dall’antropologia culturale consiste proprio nel rispettare meticolosamente le procedure del cerimoniale (quasi totemico) affinché il rito, divenuto mito e simbolo, si svolga sempre identico a se stesso, inalterato negli anni. Tale da essere riconosciuto immediatamente senza sbavature, incertezze, turbamenti critici, traumi, lutti, amnesie, operando, cioè, “la rottura del tempo” (Chiara Mellina) [09]. È mantenuto “fuori dalla storia” – direbbe Ernesto de Martino – per garantire la “presenza”. Secondo la categoria demartiniana della “destorificazione del negativo”, dove la mediazione del religioso è palese, l’evento critico dell’esistenza viene espunto dalla storia. Il “negativo” non deve mai prevalere nell’accadere storico dell’esistenza, vale a dire allagare lo “spazio vitale” interpersonale dell’individuo con l’altrui presenza, per fargli perdere, appunto, la capacità di agire sul reale.

Secondo un’angolatura fenomenologica e storico-religiosa, il ripetersi della “Festa” e della “Corsa dei Ceri” – verrebbe da pensare, sempre secondo il maestro napoletano – impedirebbe la destrutturazione dell'”esser-ci”, in una storia umana. Vanificherebbe l’ethos del trascender-si per evitare il “rischio” di perdere i propri riferimenti domestici. La celebrazione annuale del rito, il rimando al mito, la donazione di senso e la riconoscibilità domestica dell’evento, agirebbero in senso apotropaico verso una eventuale crisi della presenza, meglio ancora indicherebbero una via di fuga certa, sicura e rassicurante, ai primi segni di spaesamento. Non è casuale che tornino per la “Festa” e la “Corsa dei Ceri” molti figli di Gubbio emigrati nei “quattro continenti”, come pensavano i rinascimentali, che ignoravano l’esistenza dell’Oceania e dell’Antartide. Non è priva di senso la grande sofferenza patita (molto vicina all’angoscia) durante la sospensione del rito negli ultimi due anni, funestati per di più dalla grave pandemia di Covid 19, ora più che mai aggressiva con le varianti Omicron 4 e 5, che si apprestano a diventare dominanti.

Quali siano le origini di questa ricorrenza, quale il significato antico di questa celebrazione che si svolge al centro dell’Italia nella metà del mese di maggio di ogni anno, è agevole individuarli dal punto di vista storico-medioevale, poiché le fonti sono abbastanza concordi, come abbiamo sopra accennato. Altra cosa invece è indagare nelle tradizioni protostoriche che celebravano i riti propiziatori alla dea Cerere perchè concedesse una messe abbondante della terra, già fecondata, al termine della primavera. La fiumana Anita Schwarzkopf Seppilli (1902-1992), moglie di Alessandro e madre di Tullio, è l’antropologa e filologa classica, che meglio di qualunque altro ha studiato il fenomeno [10]. Contrariamente ad altre celebrazioni congeneri, la “Festa di Gubbio” e la “Corsa dei Ceri” si mantiene inalterata nel tempo, senza evidenti contaminazioni, impermeabile, se così si può dire, alle intromissioni della contemporaneità. moderne cerimoniale, protocollo, ritualità, orari, partecipazione popolare sempre uguale.

Quest’anno 2022, per me, è stata una cosa assolutamente diversa. Per la prima volta, la Festa e la Corsa dei Ceri, tra le più antiche tradizioni folcloriche italiane, l’ho vista in diretta televisiva continuata, dall’inizio alla fine, seguendola passo, passo, in rete [11], dalla mattina alla sera, standomene a casa, comodamente seduto davanti allo schermo grande del mio PC. Devo confessare che sono rimasto sbalordito e parimenti emozionato come fossi presente, anzi meglio. Mi è mancato il calore degli abitanti, in verità molto cordiale, affacciati festanti alle finestre con drappi colorati o sulle soglie di casa lungo il percorso, con la brocca di vino e il bicchiere, ma per il resto, mi sono trovato a mio agio, anzi coinvolto. Va notato, a questo proposito, che gli Eugubini, pur essendo cortesi e ospitali, sono molto gelosi della loro festa e non permettono a chicchessia di appropriarsene. Ricordo che un anno lontano, insofferenti verso l’intrusione fastidiosa della televisione che pretendeva di seguire i Ceri in Corsa, i ceraioli non esitarono a rovesciare il pulmino con le apparecchiature e tutta la troupe, senza complimenti. Si tratta di una tradizione degli Eugubini per gli Eugubini. La Festa è esclusivamente di proprietà e per il piacere degli Eugubini che per dovere di cortesia apprezzano gli ospiti ma cacciano risolutamente i visitatori arroganti. “L'cero 'n se ferma”, è l’imperativo categorico eugubino. Chiunque ne intralci il passaggio viene spazzato via.

Per quanto mi riguarda, finalmente ho visto e capito tutto quello che c’era da vedere a da capire, tutto quello che ho letto, studiato, intuito, andandoci per vent’anni. Tutto quello che non avrei potuto né saputo trovare una persona a cui chiedere, nemmeno a Ubaldo” Mosca”. Tranne la cena dei ceraioli, la sera precedente alla festa, ho potuto vedere tutto nel minimo dettaglio. Sono salito sul campanile del Palazzo dei Consoli, roba da vertigini paurose; pareva di essere in cielo, affacciato sulla Piazza Grade e il territorio circostante a perdita d’occhio. Ho visto e sentito fischiarmi accanto, come un proietto, il batacchio del “Campanone” fragoroso. Ridiscendendo furtivamente per la scala, mi sono affacciato sull’ “Arengo”, la grande sala civica con la volta a botte, dove ho potuto cogliere la magia del linguaggio degli dèi, intravedendo le bronzee “Tavole Iguvine” indicanti prescrizioni rituali per l’officio dei misteriose culti collettivi nella lingua perduta degli antichi Umbri.

Più vicino al presente, ho visto, riposare tranquilli, Sant’Ubaldo, San Giorgio, Sant’Antonio, coricati, l’uno accanto all’altro prima della tenzone. Ho visto l’investitura dei Capitani in arcione di cavalli ornati di gualdrappa rossa con sopra ricamati lo stemma comunale e quello dei Muratori, Scalpellini e Arti congeneri. Non ho potuto sedermi alla “Tavola Bona” il tradizionale pranzo dei ceraioli nel Palazzo dei Consoli per l’Autorità e gli ospiti di riguardo, che peraltro non hanno trasmesso per più che evidente riservatezza. Ho visto le fusciacche rosse dei ceraioli svolazzare dietro ai Ceri spinti allo spasimo su per le tre ultime curve alla cima del Monte. Ho ascoltato la tristissima nenia serale della discesa “O lume della fede, Ubaldo sa-anto” dietro il tabernacolo delle statuette dei santi, un dolente, ma provvisorio commiato, più che una preghiera.

Alla fine dell’ultimo tratto, tradizionalmente Sant'Ubaldo entra primo, chiude la porta in faccia a San Giorgio, gira intorno al pozzo, entra in chiesa e “scavija”. Non sempre è così facile per Sant’Ubaldo. I Ceri che seguono si danno del filo da torcere l’un contro l’altro e qui sta il bello. Il fascino della competizione, nel pieno del rispetto della regola millenaria, che vieta il sorpasso, consiste, oltre che nella corsa dritta veloce senza pendute o cadute, con cambi sincronizzati alla perfezione, nel riuscire a poggiare le stanghe sul Cero che precede. Questo durante tutta la gara del rito della Corsa. Nel tratto conclusivo, però, la competizione oltre che più spettacolare e tirata allo spasimo perchè il Cero dev’essere abbassato in corsa per entrare in basilica, è più evidente, se per esempio, i Sangiorgiari riescono ad agguantare i Santubaldari e poggiandogli le stanghe sulla barella, impediscono loro di chiudere la porta! E via a seguire per Sant’Antonio. Su chi ha vinto, ha perso, chi ha penduto, chi è caduto si discuterà animatamente fino all’anno prossimo.

Se l’ordine d’arrivo è sempre il medesimo, se il cerimoniale protocollare tradizionale deve mantenersi inalterato, ovverosia a-storico, espunto dal tempo cronologico, profano, quello del lutto, delle calamità, della disperazione, affinché la ricorrenza abbia senso per chi la celebra puntualmente ogni anno, è difficile far capire a chi te lo chiede, chi ha vinto e chi ha perso. L’unico ristoro per il corpo e la mente, dell’esistenza di tutti gli Eugubini e quanti condividono la loro filosofia è che il mito, il rito, la festa, abbiano luogo, continuino. Ho un nipote diciassettenne, Marco Valerio Mellina con nonni e nonne eugubini per parte materna, che mal digerisce il fatto stabilito da una regola remota. Dubita anche della follia eugubina domandandosi che tipo di matti siano mai quelli di Gubbio, così ordinati, rispettosi delle regole, dei ruoli, di quell’agonismo leale che si chiama emulazione. «Ma allora non si vince nulla! Che gusto c’è, Nonno?».

Ho passato molto tempo a spiegare ai miei cinque figli che, a Gubbio, la palma del migliore spetta, non a chi sorpassa, ma a chi è riuscito a far correre il Cero più veloce, più dritto, più verticale, degli altri, con mute accorte di ceraioli e cambi perfetti, senza “pendute” né “cadute”, perdita di pezzi, strappate di vesti, scappellate di mitrie o troncatura di teste di santi, arrivando magari a poggiare le stanghe sul cero che precede. E, addirittura, al culmine della salita alla Basilica di Sant’Ubaldo in vetta al Monte Ingino, impedire ai “Santubaldari” di chiudere il portone di casa loro, perché le stanghe di San Giorgio si son messe di traverso o a, loro volta, i “Santantoniari” hanno fatto altrettanto coi “Sangiorgiari”. Chissà se avranno còlto il valore della lezione folclorica?

Note

01. Questo è sempre stato l’urlo degli Eugubini all’appressarsi dei Ceri in Corsa ogni 15 maggio da tempo immemorabile. Nel 1939, divenne la testata di un foglio ceraiolo della “Pro Gubbio”, interrotto allo scoppio della seconda guerra mondiale. Fu ripreso con alterne fortune nel 1976 fino al 1981 anno in cui Adolfo Barbi ne assunse la direzione come pubblicazione annuale autorevole.

02. Il dialogo fa riferimento ad un trattamento psichiatrico del secolo passato chiamato ICT. Inventato da Manfred Sakel (1900-1957), consisteva nell’indurre lo shock mediante il coma insulinico nel paziente schizofrenico, per poi agire una sorta di “marternage” durante la fase di risveglio con somministrazione di glucosio per via enterale con sondino gastrico, o parenterale con endovenosa lentissima di glucosio al 20%. All’epoca delle “cure disperate” degli anni ‘20 era sopravvissuta negli anni ’60, la pratica delle “combinate”: risvegliare il paziente in coma insulinico con l’ESK. Per chi volesse approfondire si rimanda a L’elettroshock. Una “terapia” empirica, inefficace e anche “pestifera” di Sergio Mellina. Pol.It 25 febbraio, 2019. Sakel versus Meduna, di Edward Shorter J ECT. 2009 Mar; 25(1): 12–14. (doi: 10.1097/YCT.0b013e31818f5766)

03. Una cosa esagerata dal punto di vista del lusso, perchè la filosofia di fondo era quella di competere con le cliniche svizzere, quanto a fasto ed eleganza. Un villone sfarzoso in località Garbatella storica, alla fine di via Carlo Spinola, strada senza uscita., ma con vista Cristoforo Colombo altezza “Palazzo dei Senatori”. Due piani sopra un seminterrato, giardino comodo, strada di sampietrini bruni levigati, dopo cancello automatico, che sale in leggera pendenza da un lato, per ridiscendere dall’altro, dopo che l’automobile ha depositato il padrone nel grande salone d’ingresso aldilà di vetrata scorrevole. Non più di 7-8 posti letto. Non meno di 10 unità di personale tra cui la signorina Donini per l’accoglienza e la cuoca Fernanda per menu “à la carte”, dimoranti stabilmente in Villa. Il direttore sanitario, il medico di guardia, la caposala, 4 infermiere, Icaro, l’infermiere maschio, il rag. Calvaruso per la contabilità. I nomi sono di fantasia, ma l’impresa, in perdita, durò poco più di un anno.

04. Tanti anni addietro, poco più della metà del secolo passato, sulla piazza di Roma, c’era Ubaldo un bravissimo infermiere psichiatrico che abbiamo evocato con un nomignolo di fantasia: «Mosca».. Era di Gubbio e si rendeva molto utile, per i lavori difficili della psichiatria domestica, segnatamente nelle cosiddette “terapie da shock”, inventate nel periodo interbellico tra la prima e la seconda guerra mondiale. Vito Maria Buscaino (1887-1978) non certo un patito della scoperta freudiana scriveva «pare quasi un destino che i malati di mente debbano sempre essere trattati con mezzi violenti: prima erano bastonate vere e proprie, quelle che consigliava Celso; ora sono sempre bastonate quelle che si somministrano, non più fisiche ma chimiche, anzi biochimiche!» (“Shockterapia” Enciclopedia Medica Italiana, Vol. VIII pp. 1791-97 Umberto De Giacomo). Ubaldo, che abbiamo indicato col nomignolo «Mosca», restò prezioso fino a quando un anestesista della “Neuro”, disertò la camera operatoria di Guidetti e si mise in proprio per praticare l’ESK in curaro direttamente a casa del paziente. Rammentiamo di sfuggita che Beniamino Guidetti (1918-1989), neurochirurgo famoso, aveva imparato il mestiere al Karolinska Institutet di Stoccolma, direttamente dal mitico Herbert Olivecrona (1891-1980) e aveva accettato la proposta di Mario Gozzano, per impiantare la neurochirurgia nell’Istituto romano di Clinica della Malattie Nervose e Mentali al civico 30 di Viale dell’Università.

05. In gergo infermieristico manicomiale, andare in “toppa”, significava che il paziente aveva una crisi e bisognava prestare la massima attenzione. L’assistenza, in quei casi, era di 1 a 3, se non l’intera squadra del turno, magari con l’aggiunta di qualche “malatino” collaborativo del reparto.

06. La “Piazza Grande” di Gubbio dove affaccia il Palazzo dei Consoli è una delle piazze pensili medievali più grandi al mondo. Realizzata tra il Trecento e il Quattrocento è una gigantesca terrazza sostenuta da quattro arcate con volta a botte (gli “arconi”) fronte strada in salita, mai terminate. A protezione dal vuoto verso sud, c’era un lungo loggiato, demolito nel 1839 e sostituito con un parapetto panoramico per dare spazio allo sguardo del Palazzo Ranghiasci-Brancaleoni allora in costruzione (1821-1941), al lato nord. Praticamente, una lunga facciata neoclassica a tre avancorpi che si accomoda con pesantezza discreta nell’etereo clima della piazza. Il vasto quadrilatero sospeso, vede dal lato occidentale, il Palazzo dei Consoli fronteggiato ad oriente dal Palazzo Pretorio di cui è considerato il gemello, anche questo incompiuto, ma capolavoro dell’architettura medievale. Unisce i quattro quartieri di Gubbio (Sant’Andrea, San Pietro, San Giuliano e San Martino). È la mente e il cuore del governo della città, ma indica anche la potenza, la forza e la ricchezza di una città medievale che difendeva la propria industriosa libertà contro qualunque Imperatore, qualsiasi principe. Con altri mezzi e sapienti negoziati seppe resistere, 6 secoli dopo, al dispotismo napoleonico della discesa in Italia dell’Imperatore dei Francesi.

07. Le chiese essenziali per la “Festa” e la “Corsa dei Ceri”, sono tre, due dentro le mura del Borgo, l’altra fuori, sul Monte Ingino. La prima, la cosiddetta “Chiesetta dei muratori”, è la chiesa di “San Francesco della Pace”, famosa per avere nella cripta la tomba del lupo ammansito da Francesco d’Assisi, dove sono custodite ed esposte per tutto l'anno le statue dei tre santi. La mattina del 15 maggio vi si celebra la Messa dei Ceraioli con l’altare portato all'aperto perché possano parteciparvi il maggior numero di ceraioli. Vi si tiene la cerimonia del “bussolo”, dove vengono eletti i due Capitani che saranno in carica nei due anni successivi. Infine, si portano fuori i tre "santi" e, dopo averli collocati sulle rispettive barelle, s’incammina il corteo che arriverà fino alla Piazza Grande. La seconda chiesa, è il Duomo-Cattedrale di Gubbio, la vera casa di sant’Ubaldo, secondo molti Eugubini, consacrata a due Santi nordafricani, Mariano e Giacomo, martirizzati in Algeria nel 259. La terza, la “Basilica di Sant'Ubaldo”, invece, è una chiesa, ricostruita nel Cinquecento sul monte Ingino, al posto di un antico luogo di culto, cui è stata conferita dignità di Santuario e basilica minore. Custodisce le reliquie di Sant’Ubaldo nella misteriosa “Arca vecchia” e un antichissimo ostensorio siciliano, donato da Federico II di Svevia, il cosiddetto “telo da parato”, intessuto con orditi arabi, da tessitori palermitani. Qui vengono riposti i Ceri dopo la Corsa, fino all’anno successivo.

08. Le tre cappelle (“capelucce”) dell’ultima fase di ascensione al Monte Ingino, sono rispettivamente dedicate, in ordine di salita, all’Annunciazione, a Santa Maria delle Grazie, a Sant’Arcangelo.

09. Per Chiara Mellina, si rimanda al saggio apparso su Pol.It il 19 luglio, 2018 “A proposito di Ernesto De Martino” con Sergio Mellina.

10. Anita Schwarzkopf. I ceri di Gubbio: saggio storico-culturale su una festa folclorica, (con Fernando Costantini), Perugia, Università degli studi di Perugia, 1972. L'editore II Formichiere ha pensato di ristampare questa opera ormai introvabile della grande antropologa Anita Seppilli, già pubblicata nel 1972 negli Annali della Facoltà di Lettere dell'Università.

11. La Festa dei Ceri, dopo l’arresto di due anni (2020 2021), causa pandemia da Covid 19 è stata trasmessa integralmente da < www.arancialive.com >

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