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Il diritto dell’embrione alla vita

10 Set 23

A cura di Sarantis Thanopulos

Nel 2017 due coniugi avevano dato il loro consenso per la conservazione, via congelamento, di un embrione ottenuto, con la fecondazione artificiale, dalle loro cellule seminali. In attesa che l’embrione potesse essere impiantato nell’utero della donna che soffriva di endometriosi. Pochi mesi dopo l’uomo aveva abbandonato la casa coniugale e successivamente la coppia si era separata. Nel 2020  la donna ha voluto procedere all’impianto, ma l’uomo si è opposto. Il conflitto è arrivato alla Corte Costituzionale. Che doveva decidere se dare ragione alla donna, secondo la quale il diritto di essere madre era un diritto assoluto, fondamentale della persona, o all’uomo che sosteneva, invece, il diritto all’eguaglianza: dal momento che la legge consente alle donne di rifiutare l’impianto, annullando l’iniziale consenso, altrettanto dovrebbe essere permesso anche agli uomini.  

Le argomentazioni della Corte, che con una recente sentenza (24.05.2023) ha dato ragione alla donna, sono sorprendenti. La sentenza si muove, attraverso continui passaggi complessi che cerca di bilanciare, sulla strada di un sostegno costante del diritto della donna a essere madre. Quando ci si affida a categorie totalizzanti come il “diritto assoluto alla maternità”,  il terreno diventa minato. Come si può separare questo diritto dal dovere di essere madre in condizioni di responsabilità che garantiscono il benessere dei figli? Nella direzione opposta, avere dei figli è l’appagamento di un diritto se non sono garantite le condizioni che consentono il godimento dell’esperienza vissuta con loro, o piuttosto l’esercizio coatto di un dovere nei confronti di un “diritto” della società: l’incremento della procreazione? Invocare il diritto alla maternità come principio fondamentale che può anche esigere l’obbligo di essere padre, è azzardato. 

La sentenza della Corte diventa più incomprensibile quando, andando oltre il diritto della donna alla procreazione, afferma -pur con una serie di precisazioni dettate dalla prudenza, che non annullano la sostanza–  il diritto dell’embrione alla vita. Essa fa riferimento a un’altra sentenza (23.02. 2016) in cui si parla di “dignità dell’embrione, quale entità che ha in sé il principio della vita” per ribadire che esso non può essere usato come un “bene” nel campo della ricerca scientifica. Con la precisazione, tuttavia, che la tutela dell’embrione dalle manipolazioni non interferisce con la definizione dell’inizio della vita umana sulla quale non c’è consenso univoco nella scienza. Tra il dire che l’embrione non è materiale qualsiasi da trattare indifferentemente e l’affermare che in conseguenza di ciò ha il diritto di svilupparsi in un feto umano accedendo alla vita, la distanza è grande. 

Sarebbe cosa buona che fossimo più prudenti nel parlare di “diritto alla vita”. Dissociato costantemente dalla qualità del vivere e concepito puramente come sopravvivenza materiale, non è un derivato della fraternità umana (che è fatta di desideri, emozioni e affetti). È seriamente condizionato dalla convenienza e dall’opportunismo e soggiace a limitazioni gravi politicamente legittimate e a volte legali. Il diritto alla vita è del tutto compatibile con alcune forme di dominio e di schiavitù. Insistere sul diritto alla vita degli embrioni, che esseri umani non sono, se non a uno stato molto potenziale, quando dei bambini sono lasciati annegare nel mare, comporta il rischio di una concezione della condizione umana che la riduce a entità biologica priva di esistenza vera. 

L’idea di un diritto dell’embrione alla vita è in contraddizione con il diritto della donna, non concesso dalla legge agli uomini, di revocare il consenso dato a un impianto. Lo è, e ciò è una cosa più seria, anche con il suo diritto di abortire, di poter scegliere se essere madre. Appare in filigrana dietro la sentenza, il dovere più che il diritto della donna a procreare. Ma ciò che c’entra con la Costituzione? 

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