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Il mito dell’intelligenza artificiale

13 Nov 23

A cura di Sarantis Thanopulos

Erik J.Larson è un filosofo e informatico statunitense. Il suo libro “Il mito dell’intelligenza artificiale” è stato recentemente pubblicato in italiano da Franco Angeli Editore. In un’intervista a “Repubblica”, il 31 di Ottobre, fa alcune affermazioni che, per la loro concisione ed essenzialità, meritano di essere riportate. Intorno all’ I.A, dice Larson, si è creato un mito, alimentato da esperti, media e scienziati, secondo cui il nostro futuro sarà inevitabilmente gestito da macchine più intelligenti di noi. Il mito cresce a detrimento dell’intelligenza naturale e del buon senso. Larson fa notare un’evidenza che la stoltezza collettiva ha reso opaca: “Il ventesimo secolo è stato un periodo di grandi scoperte, dalla relatività alla teoria dei quanti, al Dna. In questo secolo non è ancora successo nulla. Che cosa abbiamo? Aziende enormi, con enormi computer e con un’enorme quantità di dati che vogliono cambiare il mondo.” Si potrebbe precisare che da almeno settanta anni non abbiamo avuto una grande scoperta scientifica degna di questo nome. Il vuoto di creatività lo colma, e lo nasconde, l’I.A.  

Larson usa una metafora incisiva: “È come cercare di arrivare alla luna salendo su alberi sempre più alti: la ChatGpt è un albero più altodei precedenti, ma resta un albero, mentreserve un razzo per arrivare sulla Luna.” Indipendentemente dalle intenzioni del suo autore, la metafora ci dà il senso dell’hubris che l’ideologia costruita attorno all’I.A rappresenta. L’immagine dell’albero sempre più alto richiama la Torre di Babele, l’impotenza dell’uomo desolato, alienato dalla propria solitudine, che si rifugia nell’onnipotente volontà di scalare la cima del cielo. Più va in alto, più la cima si allontana. 

Temibile sarebbe la nostra epoca se, andando di questo passo, gli esseri umani perdessero così tanto il contatto con sé stessi, avendo perduto il contatto con gli altri, da voler essere Dio. Ognuno di loro parlerebbe la propria lingua incomprensibile agli altri e a sé stesso. Non potendo comunicare, agirebbe. Sarebbe un agire da automi obbedienti a schemi mentali che vivono di vita propria, di un’infinita combinazione di dati derivanti da un rapporto quantitativo con la realtà, tendente, a un suo estremo totalmente dissociato dall’esperienza corporea, al non senso. 

Lorena Preta, psicoanalista della SPI, ha denunciato recentemente, in un convegno sul diniego a Venezia, la crescente disincarnazione dell’esperienza umana e ha indicato nell’“identità digitale” l’ideale mortifero nascosto dietro la proliferazione di entità identitarie sempre più mentalizzate e non comunicanti. A Preta ha fatto eco, in un convegno sul corpo a Palermo, Paola Camassa, altra psicoanalista della SPI.  Riprendendo un concetto di Freud -il principio di piacere come custode della vita- Camassa ha mostrato come le esigenze della conservazione della specie umana e quelle del piacere sessuale si sostengono a vicenda, trovando una comune espressione nel corpo pulsionale, erogeno predisposto all’incontro con l’oggetto del desiderio, dal quale emergono le emozioni, il pensiero, il nostro senso di sé e del mondo. Il corpo pulsionale, plasmato dalla relazione primaria erotica con la madre, sarebbe l’origine di tutte le esperienze di appagamento condiviso: “l’amore, il gioco, il linguaggio, l’arte, la ricerca, le produzioni materiali”.  

Nulla è più lontano dalla sensibilità dell’eros femminile, amante dell’inatteso e della scoperta, dell’ambizione fallica di un’intelligenza “superiore”, di una mente calcolatrice incorporea che è incompatibile con la vita. Siamo soggetti desideranti per definizione imperfetti -sempre mancanti e alla ricerca di un altro il cui desiderio eccede la nostra volontà-, esistenti come membri di una comunità in cui il dovere etico di prendere cura di tutti (con amore e odio, nella buona e nella cattiva sorte, lontani dall’indifferenza) è la condizione per essere e sentirsi vivi.  

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