La psichiatria, si sa, come la vita stessa, è sempre in crisi, cioè in eterno mutamento. Ma la crisi di cui voglio oggi parlare non è tanto quella epistemologica di sempre, che ci costringe ad un continuo equilibrismo paradigmatico, ad una continua invenzione, quanto quella che deriva esattamente dal suo contrario, cioè dalla stasi: stasi di modelli, stasi di operatività, stasi di mutamenti istituzionali: una stasi pervasiva che blocca ogni slancio creativo, ogni folgorazione innovativa, al di là di quello che viene presentato come un indubitabile progresso.
Qualche tempo fa un libraio specializzato mi ha chiesto quale fosse un testo importante di questi anni; con sorpresa non me ne è venuto in mente alcuno, a parte forse qualche bel manuale di psicofarmacologia e di neuroanatomia, forse qualche bel libro di psicoterapia cosiddetta cognitiva che in realtà ripropone la tradizione psicodinamica depurata dalla metapsicologia e dagli esoterismi.
Seguendo questa riflessione ho ripercorso i mutamenti del mio continuo esercizio di una prassi complessa e coinvolgente di cui vado orgoglioso. Personalmente ho continuato a lavorare come un pittore che non abbandona mai, di fronte alle rotture dell’arte moderna, il disegno e la capacità di rappresentare le cose se non come sono, almeno come si vedono, in tutte le loro particolarità e i loro dettagli. Ho, come tutti, progressivamente mutato i miei schemi psicofarmacologici, con indubbi ma certamente non risolutivi benefici per i pazienti, soprattutto quelli più gravi.
Ma tra questa mia egosintonica realtà e la produzione scientifica da cui siamo invasi, mi sembra si sia scavato un vallo, sia sul piano delle teorie e delle tecniche psicoterapeutiche, così sempre precarie e irresolute anche se religiosamente somministrate nei corsi di formazione, sia sulle proposizioni clinico-biologiche di congressi noiosissimi nei quali siamo chiamati a sentire il lento accumularsi delle stesse cose; sia, forse ancora di più, di fronte alle formulazioni sociopsichiatriche e fenomenologico-umanistiche col loro confusivo per quanto seducente afflato verso il riconoscimento della persona del malato piuttosto che sulla delucidazione della loro malattia, cioè degli effettivi motivi per cui si rivolgono a noi.
A questo disagio mi sono dato allora la risposta più banale: che anche la psichiatria sta consumando la sua fase post-moderna, nella quale, in assenza di idee forti e rivoluzionarie, si lavora sul già detto e sul già scritto, in una mescolanza pluriparadigmatica fatta di sentieri interrotti e recuperati, di riscrittura, di frantumazione regionale del sapere in mille rivoli tra i quali è difficile se non impossibile districarsi e scegliere. La recente visione della messe di pubblicazioni edite in volume negli stands librari del recente congresso della World Psychiatric Association a Firenze ha accentuato la mia impressione di deregulationconcettuale che in realtà continua a persistere e a pervadere la nostra disciplina.
Per riesaminare con un minimo di ordine il disordine che regna nell’attuale psichiatria, in cui in fondo tutti gli operatori trovano il loro spazio espressivo ed operativo, ma nella quale sono forse i pazienti più gravi a non averlo, ho trovato una data, il 1982, quella della mia laurea e del mio esordio come psichiatra, che ha coinciso con quella che è stata l’ultimo tentativo ideologico della nostra disciplina, l’edizione del DSM-III e l’inizio del dominio accademico e concettuale della psichiatria nordamericana con il suo volenteroso programma di azzeramento empirico dei saperi e di ritorno ad una clinica pura e asettica dove le persone sono classificate e trattate per dei disorders, dei cluster sintomatologici, che se hanno l’immenso merito di focalizzare i motivi dell’intervento psichiatrico, lo amputano nello stesso tempo di ogni interrogazione sulla loro origine, sul loro senso, su tutto ciò che non è misurabile e verificabile empiricamente, su ciò che non rinvia ad una predisposizione genetica.
Al di là del cattivo uso che è stato fatto di questo manuale e delle successive revisioni e aggiornamenti (tra i quali il drammatico impatto didattico che ha portato alla formazione di nuove generazioni di psichiatri del tutto ignari e disinteressati a quanto la psichiatria aveva prodotto antecedentemente nel suo cammino secolare – un rischio già da denunciato con Maggini in un articolo del 1991) questa psichiatria, tutt’altro che ateoretica come si era presentata, è dovuta andare incontro a numerosi aggiustamenti per sopravvivere e trovare una sua giustificazione, secondo il ben noto modello epistemologico di Imre Lakatos della creazione di una cintura di teorie accessorie che non ne modificano gli assunti paradigmatici di fondo.
Non voglio sparare sui DSM, uno sport che, anche quando praticato con analisi dettagliate e concettualmente ineccepibili (Wakefield, 1997), giova solo agli psicologi e a quanti antipsichiatri si nascondono tra di noi, ma solo evidenziare quanto apparenti siano stati i suoi benefici per la psichiatria clinica a parte l’effetto collaterale positivo di aver rinforzato la nostra identità medica, orientando la prassi sulla semplice polarità diagnosi-terapia, facendoci accettare di più da colleghi e pazienti.
COMORBIDITA’
Il concetto di comorbidità nasce nell’ambito della medicina generale nel 1970 ad opera di Feisten e coll ed indica in quel contesto "ogni distinta entità clinica aggiunta che è stata o può comparire durante il decorso clinico di un paziente che ha la malattia indice sotto osservazione". In epidemiologia clinica quindi il concetto diventa fondamentale per indicare due patologie distinte per lo meno da differenti eziopatogenesi e diventa importante per definire la scelta terapeutica in base alla presenza di vari fattori, il giudizio prognostico, una corretta valutazione dei risultati di follow up, un eventuale approfondimento delle scelte etiopatogenetiche perché il frequente rilievo di correlazioni tra patologie ritenute distinte può far nascere ipotesi sui sottostanti meccanismi che le legano.
Il termine nasce quindi in ambito medico e tuttavia trova la sua maggiore popolarità in ambito psichiatrico.
Altre ridefinizioni si sono succedute in questo ambito: per Klerman (1990) la comorbidità in senso stretto significa che due o più disturbi sono presenti nello stesso tempo, mentre in un senso più esteso si può parlare di comorbidità quando due o più disturbi si presentano nel corso della vita. Per Strakowski (1995) si intende "la presenza di una sindrome psichiatrica, antecedente o compresente in aggiunta alla diagnosi principale" inserendo una gerarchia tra le diagnosi.
Per Cloninger la comorbidità indica "la probabilità che un soggetto con un disturbo indice abbia anche un altro disturbo" introducendo il concetto di rischio relativo.
Nel corso del tempo è diventato più chiara la necessità di parlare di comorbidità di fronte alla "co occurrence" di entità cliniche e non di sintomi come alcuni autori avevano iniziato ad indicare, e la necessità di definire il tempo di osservazione, definito, limitato e di distinguerlo da un tempo più prolungato, "lifetime", se ritenuto importante nell’osservazione.
Il problema dell’applicabilità del concetto in psichiatria riguarda il fatto che per parlare di comorbidità dovremo avere delle malattie mentali conosciute se non nell’etiologia almeno nella
fisiopatogenesi tali da poter essere distinguibili. In realtà quello che si indica in psichiatria, negli studi epidemiologici più recenti, riguarda la sovrapposizione di classi diagnostiche la cui categorizzazione nosografica non è legata alla presenza di un eziopatogenesi "organica", in tal caso si rimanda ad una malattia medica o neurologica, da principi ordinatori essenzialmente fenomenici clinici; non si parla di malattie in psichiatria ma piuttosto di sindromi ordinate secondo criteri psicopatologici, di disturbi che secondo le moderne classificazioni sono distinti nosograficamente in base a criteri clinici fenomenici, senza alcun modello gerarchico ed in qualche modo correlativo dei diversi. Pertanto la definizione di comorbidità in psichiatria andrebbe corretta con "la concorrenza di due o più sindromi, distinguibili nosograficamente a prescindere dalla patogenesi, presenti nello stesso individuo, nel periodo di tempo preso in esame" (Aragona e Vella, 1998).
Un esempio sono i dati relativi alla comorbidità del disturbo bipolare, elevata per abuso-dipendenza da sostanze, disturbo di panico, di ansia generalizzata, fobia sociale, disturbi alimentari e disturbo borderline di personalità.
La definizione di comorbidità in psichiatria necessita di uno spostamento di concetto dalle malattie alle sindromi i cui criteri di definizione sono più specifici e precisi ed è più facile ottenere dei quadri più chiari e dunque dei dati di comorbidità più affidabili. Anche se bisogna considerare la variabilità individuale e la probabilità di riscontrare quadri misti che non sempre rappresentano l’associazione di due quadri ma spesso rappresentano il fallimento della distinzione dei due.
In ogni caso singolo il concetto stesso di comorbidità può risultare un artefattosia perla dubbia validità dei test e delle interviste semistrutturate, sia per la necessità di valutarla nel corso pluridecennale dei disturbi, sia per la riduzione, se non l’assenza totale di regole gerarchiche di diagnosi. (Aragona e Vella, 1998).
SPETTRO
Il termine "spettro", una metafora mutuata dalla fisica, nella quale ha significati molto precisi e misurabili, è divenuto di uso comune perché risponde alla necessità di rintracciare elementi invarianti e di connessione tra diversi disorders frammentati nei DSM-n, soprattutto di quelli che mostrano sovrapposizioni e contiguità oppure elevata comorbidità. Ma il termine ha a sua volta diversi e concettualmente eterogenei significati che per lo più non sono esplicitati da chi li usa.
Un primo significato, che nasce dallo studio sulla genetica delle famiglie degli schizofrenici, tenderebbe ad indicare il fattore comune soggiacenti a diverse entità cliniche, sul modello dei diversi fenotipi sostenuti da un unico genotipo. Una variante di questo concetto è quello che unisce diversi disturbi sulla base dellarisposta ad identici trattamenti, e presuppone quindi un’ipotetica identità di tipo patogenetico.
Ma si possono costruire spettri su base puramente psicopatologica, evidenziando un presunto fenomeno primario o fondamentale, come già fecero Bleuler e Minkowski nelle loro rispettive definizioni del gruppo delle schizofrenie, valorizzando i concetti di Spaltung e di "perdita del contatto vitale con la realtà".
Ma in epoca post-DSM-III gli spettri sono costruiti su una base puramente fenotipica ed empiricamente rilevabile, in sostanza attraverso il rilievo di un continuum sintomatologico tra i diversi disorders, e sulla sovrapposizione degli aloni sintomatologici di essi, che rinvierebbero ad un’espressività parziale o incompleta del disturbo (forme attenuate o sottosoglia).
La scuola di Pisa, ad esempio, costruisce spettri aggiungendo ai "typical DSM core symptoms, isolated or atypical symptoms, often of low severity, as well as trait-like behavioural features that result of coping with the psychopathology" (Dell’Osso e coll, 2002). Ad esempio, la definizione dello spettro panico-agorafobico comprende: I sintomi tipici e atipici e atipici del DP; I segni, I sintomi e I modelli comportamentali usualmente associati ai sintomi fondamentali; I precursori di un disturbo non ancora completamente espresso; I residui di un disturbo presente in passato; alcuni tratti temperamentali e/o di personalità in grado di costituire un fattore di vulnerabilità per il disturbo (Cassano e coll. 1997).
Gli spettri così costruiti, sebbene nascano da indubbie intuizioni di carattere clinico, non sono concetti realmente empirici né tantomeno scientifici, indicano cioè un uso metaforico e soggettivo del concetto di spettro, piuttosto che un loro impiego valido in senso scientifico.
Si possono infatti costruire infiniti spettri sulla realtà clinica (spettro panico-agorafobico; spettro ossessivo, spettro bipolare, spettro post traumatico, spettro dei disturbi di personalità etc.), in gran parte sovrapposti e non mutuamente esclusivi, riproponendo le stesse difficoltà create dai concetti di singoli disorders e della loro comorbidità. Ciascun spettro inoltre può essere ulteriormente suddiviso, per rendere meglio valutabili le ipotesi etiologiche e fisiopatologiche oltre che per le diverse risposte ai trattamenti, come ad esempio propone Martin Alda per lo spettro bipolare (suddisiviso in spettro bipolare psicotico, bipolare classico, bipolare caratterologico/temperamentale).
Come concludono Aragona e Vella (1998) nella loro dettagliata analisi della nozione di spettro "la corrispondenza univoca che c’è in fisica (che permette di risalire con esattezza dall’osservazione di uno spettro alla sostanza che lo ha emesso) è purtroppo improponibile in psicopatologia": qui lo spettro non è che un insieme di sindromi (più o meno simili) accomunate in un ordine di qualsiasi tipo (fenomenologia, acuzie, cronicità, ciclicità, gravità, esiti, risposta a determinate terapie, familiarità, substrato somatico) da una caratteristica comune. Lo spettro così concettualizzato, non si distingue formalmente in nulla dal concetto di insieme: ciò che li distingue è solo la determinazione, cioè il principio metodologico che li costituisce e ne limita l’estensione, che per il concetto di spettro deve di necessità rispondere a finalità conoscitive sulla base di una precisa ipotesi patogenetica (causale o motivazionale).
E’ insomma impossibile costruire, in psichiatra, spettri sulla base di dati meramente empirici non supportati da validi criteri esterni di ordine etiopatogenetico. Si ripropongono così, alla fine, i limiti concettuali di sempre, quelli che non consentono ancora, in psichiatria, di poter parlare per tutti i quadri clinici, scientificamente, di "malattie" in senso medico e, quindi, di non poter omologare la prassi psichiatria a quella medica sulla base di combattere o correggere semplicemente i sintomi (Aragona e Vella, 1998).
Esemplificazioni cliniche
Ma scendiamo dalle vette astratte delle concettualizzazioni nosografiche al piano della realtà clinica, con alcune citazioni di esemplificazioni di situazioni cliniche comuni sulle quali la psichiatria post-DSM III si esprime in termini euristicamente particolarmente confusivi.
Depressioni: è possibile, anzi, è sensato ridurre la fenomenica delle depressioni a due tipi, la depressione maggiore e la distimia distinte solo dalla gravità e dalla durata dei medesimi sintomi, e da un tipo NAS che include tutto il resto, dalle reazioni depressive, alle depressioni post-psicotiche, alla disforia pre-mestruale e tutte la altre "depressioni"incomplete o minori che oggi col nome di forme attenuate o sottosoglia consentono di allargare a ragione e a sragione il target dei trattamenti farmacologici? Che vantaggio ha questa classificazione rispetto alla tradizionale distinzione tra depressioni endogene, nevrotiche e reattive?
Secondo me nessuna, perché di fatto vi sono depressioni che giustamente rimandano ad un’oscillazioni pressoché meccanica della vitalità e dell’energia (piuttosto che dell’umore, che ne è forse solo un correlato fenomenico), che senza dubbio le apparenta alle fenomeniche bipolari, altre che sono inestricabilmente connesse con la storia interiore di vita, come diceva molti anni fa Ludwig Binswanger, sia essa storia di vita recente (depressione reattive), oppure biografia tout court (depressioni nevrotiche o intrecciate con le organizzazioni di personalità a lungo termine, ovvero con le particolari vicissitudini dei sistemi di attaccamento e della loro traumatizzazione esistenziale). Vi sono poi le depressioni psicotiche croniche, che rinviano piuttosto alla continuità schneideriana delle psicosi maggiori, e che sono concettualizzabili esclusivamente con una concezione unitaria secondo la quale rappresentano l’effetto del perdurare nel corso degli anni e dei decenni dello zoccolo dei deficit basici a lungo termine (Maggini, Dalle Luche, 2002).
La clinica delle depressioni del DSM è miope e monoculare, rispetto ad una variegata gamma sindromica che reclama una continua visione binoculare (biologica e psicologica, oggettiva e soggettiva, distanziante e ap-prossimante) ed una particolare ed estenuata sollecitudine terapeutica a lungo termine per far decantare quelli che sono gli elementi veramente essenziali del disturbo di cui soffre il paziente.
Borderline/bipolari: questa è forse la più eclatante delle dicotomie concettuali della psichiatria attuale che contrappone da un lato l’estensione della fenomenica bipolare ai disturbi di personalità e temperamentali in una continuità illimitata ed avulsa da ogni indagine sulla struttura di personalità, dall’altra la complessa e sofisticata psicopatologia psicodinamica che vede negli slanci e nei crolli affettivi di questi soggetti, nella continua oscillazione di idealizzazione e ambivalenza oggettuale meri epifenomeni dell’instaurazione e della distruzione di legami significativi sul piano dell’affettività e dell’attaccamento (vedi la trattazione più estesa in Dalle Luche e Bertacca, in stampa).
Siamo qui di fronte ad una riproposizione in psichiatria dell’irriducibilità dei modelli ondulatori e corpuscolari nella fisica della luce: modi di conoscere ed interpretare una medesima realtà sulla base di opzioni individuali e mutuamente irriducibili che non giovano né al sapere scientifico, né, soprattutto, al trattamento dei pazienti.
Psicosi: E’ un concetto che nei DSM non riceve una chiara definizione, anche se ne sono state contate almeno cinque differenti (Rudnick, 1997); con l’eccezione dei comportamenti "grossolanamente disorganizzati o catatonici", in sostanza si identifica con la presenza di deliri e allucinazioni, cioè con un errore nella rappresentazione della realtà, una concettualizzazione decisamente molto ristretta rispetto a quanto ha prodotto sull’argomento la psichiatria tradizionale, che ne fa il correlato clinico di quelle che sono vere malattie (true diseases) e veri disordini (true disorders) ed anche la psicopatologia più recente (che enfatizza come elemento nucleare della psicosi – quindi non come un fattore aggiuntivo- l’assenza di insight, l’impossibilità di averlo). Sembra quasi che questa psichiatria si stia per liberare anche del termine psicosi, dopo aver fatto piazza pulita di quello "psicoanalitico" di nevrosi, senza la consapevolezza di eliminare un fattore ordinativo non solo della classificazione ma, soprattutto, dei decorsi e degli esiti dei disturbi maggiori, cioè di uno degli indici prognostici più perturbanti dell’intera clinica psichiatrica se non dell’identità umana o, meglio, della possibilità stessa per un uomo di avere un identità (Dalle Luche, 2002).
Disturbi di personalità: rappresenta la nozione più problematica in assoluto dei DSM per la loro elevata comorbidità sia tra i diversi che, soprattutto, nei singoli cluster, sia con i disorders di asse I. La validità di questi disorders è stata ampiamente criticata perché non fa che riprodurre le sovrapposizioni tipologiche di ogni altra tipologia di alterazioni della personalità. Il risultato è la prospettiva di "gettare via il bambino insieme all’acqua sporca, cioè di espungere totalmente l’asse II dal DSM V.
Conclusioni
Sebbene negli ultimi anni si sia assistito ad una parziale correzione dell’atteggiamento farmaco-orientato della psichiatria nordamericana con una rivalutazione della prassi psicoterapeutica orientata sull’elaborazione dei fattori stressanti e delle dinamiche relazionali coscienti, molti aspetti della gestione del paziente sfuggono alle griglie concettuali orientate sui DSM costringendo gli operatori ad altri tipi di formazione personale (psicopatologiche e psicoterapeutiche) ancora largamente influenzate da paradigmi non quantificabili, di epoca pre-DSM, configurando la necessità di una reintegrazione tra epistemologie empiriche (analitiche) e epistemologie umanistiche (continentali).
D’altra parte, anche le pretese empirico-scientifiche dei DSM hanno mostrato molti dei loro limiti che, accolti dai comitati di revisione dell’APA si sta risolvendo nel rinvio a tempo indeterminato della nuova edizione del manuale, nell’attesa di nuovi e più probanti dati neuroscientifici a sostegno delle validità delle diagnosi e delle loro correlazioni. Al momento, si sa, tutti i dati empirico-scientifici, in psichiatria, vanno ancora, per così dire, "maneggiati con cura", e soprattutto con un atteggiamento non semplificativo e fideistico. Ad esempio la decantata base genetica comune dei disturbi dello spettro bipolare è del tutto sconosciuta e i dati "suggeriscono un modello di fenotipi parzialmente sovrapposti ed una mescolanza di geni alcuni dei quali sono specifici ed altri non specifici" (Kelsoe, cit da Alda), senza contare che vi sono lavori che dimostrano un importante linkage genetico tra disturbi bipolari psicotici e psicosi schizofreniche (Berrettini cit da Alda) a favore della tradizionale idea schneideriana dell’esistenza di un continuum fenomenico tra le psicosi idiomatiche (Schneider, 2004).
Si configura pertanto una situazione di impasse teorico/pratica che non consente alcun reale avanzamento "consensuale" della operatività psichiatrica, sempre più consegnata alle opzioni arbitrarie delle politiche sanitarie e delle scelte paradigmatiche individuali.
Dall’altra parte ci sono però i pazienti, che non soffrono di qualsivoglia cosa si voglia loro attribuire, bensì di una cosa ben precisa, che va individuata con esattezza per poter essere in qualche modo utili a loro.
Soprattutto nella pratica ambulatoriale e territoriale, con le sue esigenze di gestione a lungo termine e di riabilitazione/riqualificazione socio-relazionale di molti pazienti, la psichiatria ispirata ai DSM appare del tutto ininfluente, tanto che, come del resto molti altri strumenti di formazione, anche questo viene di fatto del tutto accantonato rispetto alle competenze psicopatologico-cliniche e psicoterapeutiche non standardizzabili che crescono creativamente dal rapporto a lungo termine con i singoli pazienti.
I modelli, le teorie, i riferimenti normativi servono, non se ne può fare a meno, pur nella loro precarietà. Ma forse la maturità di ogni psichiatra si identifica con la sua capacità di conoscerne ed utilizzarne il maggior numero, senza proiettarli sui pazienti, senza agire dei transfert sulle teorie, senza sovrapporre la loro consistenza alla realtà della clinica, di cui solo i pazienti sono i detentori, i soggetti.
Si dice, a ragione, che ogni psichiatra esperto ha imparato soprattutto dai propri pazienti; non è esattamente così: ogni psichiatra ha imparato dai pazienti nella misura in cui ha instaurato con loro una relazione, diversamente declinata nello spazio e nel tempo, fondata su una circolarità ermeneutica, che non ha solo a che fare con le interpretazioni e le interazioni relazionali, ma anche con la continua verifica sul campo degli effetti e dei risultati delle terapie farmacologiche e degli altri interventi; la pratica psichiatrica consapevole è un processo mentale continuo e complesso rivolto a ridurre le distanze tra le teorie ed i modelli da un lato, la realtà soggettiva dei pazienti dall’altro, in un percorso di continuo avvicinamento, privo di ogni dogmatismo, fondato sua capacità basica di accogliere (di holding) i loro vissuti mediante un sapiente melange di neutralità ed empatia.
Neutralità non vuol dire non fare niente, ma solo non fare niente di non pertinente alla cura, un errore che ancora pervade grandemente tutte le prassi psicoterapeutiche e riabilitative;
empatia non vuol dire immedesimazione e fusione affettiva reciproca, bensì riconoscimento della soggettività dell’altro, nella sua particolarità, nella sua diversità formale, nella sua irriducibilità intersoggettiva. Noi entriamo in relazione e in risonanza non col paziente in quanto altro tout court, ma col paziente in quanto persona colpita più o meno gravemente da una minorazione nel suo essere uomo.
Fare clinica significa avvicinarsi all’altro nella sua naturalità, così come ci si avvicina ad ogni altro fenomeno della natura, un fiore, una paesaggio, un uragano; significa interrogarsi sulle sue cause naturali, sul suo funzionamento, ma anche saperne cogliere lo splendore e sopportarne la devastazione, valorizzarne l’originalità ed i caratteri fisionomici, ma anche proteggersi e proteggerlo dalla sua distruttività. E’ un’operazione complessa che sovente trascende la formulazione diagnostica, spesso inutile o comunque ininfluente sulla programmazione del trattamento e della cura.
La psichiatria si occupa del Male, del male più o meno devastante che alberga in alcuni di noi più che in altri, per vari motivi e per varie cause. Questo male può talora divenire insopportabile, costringendo gli operatori a difese che solo teorie forti, ma non "valide", cioè, per dirla tutta, non vere, possono garantire. Da qui il pericolo di un uso ideologico dei DSM, non dissimile dall’uso ideologico di ogni altra teoria, psicodinamica o sociologica che sia. E’ quanto già avevamo scritto 13 anni fa (Maggini e Dalle Luche, 1991): non solo la psichiatria scientifica, ma neppure noi siamo nel frattempo molto cambiati.
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