LA PIEGA LEIBNIZIANA E LA COSCIENZA-MONDO
La nozione di soggetto multidimensionale, che caratterizza in maniera forte l'orizzonte novecentesco delle scienze dell'uomo, [1]non nasce dal nulla: cominciare a tracciarne la genealogia, significa anche analizzare i modi in cui la nostra modernità ha messo in scena i conflitti, le scissioni – o la pluralità di istanze – che attraversano i territori dell'Io.
La convinzione che il soggetto — in quanto attività costituente — possa rappresentare, nell'ambito del pensiero moderno, una realtà sovrana e sostanzialmente unitaria, ci appare sempre di più come una semplificazione storiografica abusiva, che renderebbe, tra l'altro, del tutto incomprensibili le tematizzazioni novecentesche di un'identità "plurale". In questa prospettiva, non sarà dunque inutile rivisitare certe idee-forza della cultura secentesca, particolarmente orientate a problematizzare ed a scomporre l'unità dell'io.
Senza preoccuparci della distanza temporale, cominceremo anche ad attivare dei cortocircuiti tra qualche importante problematica delGrand Siècle ed alcune sue attuali riattivazioni letterarie, testimoni della sorprendente attualità dell'antropologia barocca.
Si pensi, ad esempio, a Carlo Emilio Gadda: scrittore barocco per eccellenza, si pronunciò con graffiante determinazione contro il mito di "un io centrale e coordinatore", che si smarrisce nel suo "dileguare verso i fuochi misteriosi del sogno". [2] Per il gran lombardo, l' "io giudicante" — cioè "l'io rappresentatore e creatore" – non è che un "idolo tarmato", un "bambolotto della credulità tolemaica". [3]
Insofferente verso qualsiasi reductio ad unum, Gadda collega volentieri la sua identità di scrittore barocco alla varietà proliferante del "fenomenico mondo", e quindi alla sua "baroccaggine". Sentiamo.
"Il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna". Ed ancora, con irridente sarcasmo: "Talché il grido-parola d'ordine ‘barocco è il G.!' potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto ‘barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine' […] Il grottesco, in tale vasta occorrenza esterna, un tal grottesco non si annida nella pravità macchinante del fegato dell'autore della Cognizione, semmai nel fegato macchinatore dell'universa realtà". [4]
L'io che non rinuncia alla propria "vanagloria" [5] — che misconosce la complessità della "natura" e della "storia" ed il loro primato ontologico — non è altro che il più risibile e il più "fanfaronesco" dei "pronomi di persona": "il più lurido di tutti i pronomi". Ed ancora: "I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta, come tutti quelli che hanno i pidocchi…e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona…". [6]
Nei tormenti e nei sogni dell'anima barocca vi è come una sospensione dell' "inesorabile imperio del tempo". Sembra quasi "che la fantasia pura operi ciò che è altrimenti impossibile alla ragione: separi lo spazio dal tempo", smantellando così la funzione unificatrice di un "io centrale e coordinatore". [7]
Temporalità e storia si dissolvono, dunque, in questo "buio" dell'anima, in "questa perturbazione dolorosa, più forte di ogni istanza moderatrice del volere". E' "uno strazio senza confessione". E' "il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere di una vita, più greve ogni giorno, immedicato". E' un "male invisibile". [8] Una negazione torturante e inconoscibile. Nessuno, davvero, potrà mai conoscere questo "lento pallore della negazione". [9]
L'anima barocca – nelle sue euforie e nei suoi inabissamenti, nei suoi sogni e nelle sue vertigini — annulla il tempo proprio nella misura in cui si riconosce come figura del molteplice, tramata dall'attualità di un passato che non rivive e non si dispone, entro gli spazi della mente, secondo una prevedibile e rassicurante articolazione diacronica: figure, immagini e sedimentazioni della memoria popolano il presente psichico, fuori da qualsiasi disposizione gerarchica connessa alla loro successione temporale.
Lo stile e il mondo interiore di Gadda ci aiutano a comprendere meglio la struttura atemporale ed apparentemente caotica della citazione, così come si presenta in molti testi del diciassettesimo secolo. Basterebbe ricordare, tra i vari esempi possibili, la grandesumma barocca sulla malinconia scritta da Robert Burton nel 1621: The anatomy of melancholy. Omero, la Bibbia, filosofi greci, medici e moralisti del 500 e del primo 600, autori sconosciuti, voci ignote o dimenticate: l' Anatomy di Burton accosta, mescola elavora tutte queste "fonti", senza rispettare nessun criterio cronologico. Un fantasmagorico ammasso citatorio — croce e delizia dei filologi — vive nel testo come contenuto variegato e multiforme di un'attualità psichica, scandita dalla presenza dolorosa ed ironica della "melancholy". L'anima diviene così un grande teatro, popolato da voci e da presenze eterogenee, che rappresentano una sorta di condensamento extrastorico delle sue desolazioni, dei suoi malesseri, delle sue derive.
Il teatro dell'anima non è che lo specchio del teatro del mondo. "All the world's a stage", recita un verso di Shakespeare, in As you like it: tutto il mondo è teatro. Teatro, locanda, piazza, labirinto, labirinto incantato, casa di pazzi, osteria; questi tòpoi della cultura barocca rappresentano i modi di apparizione del mondo: scenario del disordine, dell'apparire e non dell'essere, della finzione e non della verità. Labirinto del mondo e paradiso dell'anima, titola un libro di Amos Comenius, che denuncia efficacemente i pericoli di una cultura dominata dalle "false apparenze" e dal "disordine". Ciò che una persona lascia apparire è comunque un mero gioco di movimenti superficiali. "La condizione di stato apparente" non è "mai sostanziale, per cui quello che si appare (…) non intacca l'intima essenza della persona, ma resta alla superficie, spesso in flagrante contraddizione con l'essere e il valore del singolo". [10]
Ma non si tratta soltanto di un disordine. Oppure, se si preferisce, è un disordine da cui nasce una nuova visione dell'ordine interiore e dell'identità. Non capire questo apparente paradosso significa avere una visione sterile e ingannevole della civiltà barocca. [11]
Unità e pluralità convivono, dunque. Una pregnante rappresentazione filosofica di questa convivenza può essere ritrovata nell'itinerario speculativo di Spinoza. In netto contrasto con una linea di pensiero che va da Cartesio a Heidegger, egli sviluppa infatti una concezione unitaria, sostanzialista e produttiva dell'essere, in aperta polemica con la scolastica controriformata e con il dualismo cartesiano tra pensiero ed estensione: dottrine che rompono, entrambe, l'unità dell'essere, ricostituendola, poi – sul versante spiritualista di una riaffermazione dell'ego come attività costituente – al prezzo di una radicale svalutazione della dimensione corporea. Pensiero ed estensione, in Spinoza, sono attributi di una sostanza: unica, ma anche, al tempo stesso, intrinsecamente plurale; il suo è insomma un realismo produttivo: una concezione materialista, produttiva e sostanzialista dell'essere e della libertà, che rompe con tutta una tradizione metafisica e teologica di matrice giudaico-cristiana. In questa prospettiva, il concetto di moltitudo, presente nel Trattato politico, mette efficacemente in scena quello che avevamo definito l'apparente paradosso dell'identità barocca: sullo sfondo di una concezione immanentista della sostanza, emerge questa nuova qualità del soggetto, contemporaneamente unitario e plurale. [12]
La struttura della citazione barocca è un po' il riflesso, sul terreno dello stile e della scrittura, di questa singolare ricchezza, fondata non sulla risoluzione e sulla sintesi, ma sulla prossimità e sulla compatibilità. Anche la monade leibniziana appartiene a questo movimentato scenario. Centro spirituale e mondo materiale — coscienza e mondo [13] — si nutrono incessantemente di questa paradossale coappartenenza. Nessuno, forse, meglio di Gilles Deleuze, è riuscito a rappresentare la complessità problematica e l'attualità della trasgressione barocca attraverso una rilettura critica di Leibniz: una rilettura che potrà orientare il nostro tentativo di ripensare alcuni luoghi cruciali dell'antropologia secentesca. Vediamo. [14]
Riportare i concetti alla logica del senso e all'etica dell'avvenimento: è questa la prospettiva dominante del pensiero nomade di Gilles Deleuze, sia nei saggi dedicati ad alcune importanti figure del pensiero filosofico (Hume, Kant, Nietzsche, Bergson, Foucault, ed anche, nell'ambito del barocco, Spinoza e Leibniz), sia nei suoi lavori più trasversali, consacrati a Proust, Kafka, Sacher-Masoch, oppure al cinema, alla pittura di Francis Bacon e al teatro di Carmelo Bene.
Come era già avvenuto in precedenza, soprattutto nei due importanti libri scritti assieme allo psicoanalista Félix Guattari (Anti-Edipo e Mille piani), anche nel saggio su Leibniz Deleuze cerca di cogliere la concretezza e la dimensione "pulsionale" del pensiero: lo vede come realtà che si rapporta, in svariate maniere, al mondo, agli eventi, alle passioni, ai desideri; lungo questa strada, egli restituisce al concetto le sue radici materiali, la sua potenza produttiva, le sue concatenazioni con altri campi del sapere e della creatività. Traccia così una sorta di linea diagonale, che collega il concetto con tutto ciò che vive fuori da esso, ma che al tempo stesso gli appartiene. [15]
La piega – concetto leibniziano e barocco – consente a Deleuze di scoprire analogie e connessioni tra il pensiero di Leibniz, le sculture del Bernini, i quadri del Greco, la musica secentesca. La diagonale, tuttavia, percorre non solo lo spazio, ma anche il tempo: si estende ad artisti come Mallarmé, Proust, Michaux, Hantaï, ed arriva fino alla musica di Boulez, alla pittura di Paul Klee, alla teoria matematica delle catastrofi, di Thom, oppure alla geometria degli oggetti "frattali", di Mandelbrot.
Le monadi sono per Leibniz centri di forza, sostanze individuali, singolarità irriducibili, soggetti: unità che contengono, che "avviluppano" la molteplicità, la quale, a sua volta, "sviluppa l'Uno in guisa di una serie". Dall'inorganico all'organico, dall'organico all'animato: in ognuno di questi livelli la monade è costituita da pieghe. Le pieghe garantiscono, senza salti e discontinuità, il passaggio da un piano a quello superiore. Ai ripiegamenti della materia — che si prolungano all'infinito, secondo l'insegnamento del preformismo biologico e del nascente calcolo infinitesimale — corrispondono le pieghe dell'anima.
"Il labirinto del continuo nella materia" si collega direttamente al "labirinto della libertà nell'anima". Emerge così un grande "meccanismo": una struttura tipicamente barocca, che trova il suo equivalente architettonico, secondo Deleuze, nello Studiolo di Firenze, oppure, in pieno Novecento, nell'Abbazia di La Tourette, di Le Corbusier. Tale costruzione è dotata di un piano basso, illuminato, munito di finestre, e di un piano alto, buio o quasi buio, chiuso, privo di porte e di finestre. Il primo, che è poi il piano della materia organica ed inorganica, corrisponde all'esterno – alla facciata – dove ogni forma subisce un'inflessione, una curvatura, una piegatura, una metamorfosi. Il secondo, cioè il piano delle anime, è chiuso, come si è detto, ma "risonante": esso fa risuonare la musica del mondo, "come una sala di musica che fosse in grado di riprodurre in suoni i movimenti visibili dal basso". La chiusura è insomma "condizione dell'essere per il mondo". In questo senso si può dire che l'anima esprime il mondo: attraverso un movimento di inclusione, essa "rappresenta finitamente" l'infinità del reale.
L'illimitato nel finito, dunque; il mondo nella monade, o, se si preferisce, come recita l'antico detto latino: multum in parvo.
Un altro grande "barocco" della letteratura novecentesca — Jorge Luis Borges — si muove, con ardita e geometrica fantasia, all'interno di questo singolare orizzonte dell'inclusione. Si pensi alla Biblioteca di Babele, uno dei suoi racconti più celebri. [16]
Illimitata, disordinata e ordinata al tempo stesso, la Biblioteca è la metafora di un Sè plurale, indefinitamente sfaccettato. Colui che la percorre, alla disperata ricerca di un senso – e di un libro "che sia la chiave e il compendio di tutti gli altri" – è invece l'uomo-libro, metafora vivente di un Io unitario, capace di contenere e di racchiudere la molteplicità che lo abita.
Rimanendo sempre con Borges, scopriremo a più riprese il molteplice nell'uno, e quindi l'enigmatica materializzazione di un misterioso ossimoro: L'Aleph, cioè il finito-infinito. Esso è "il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli". Con maggior precisione: "il diametro dell'Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse". [17]
L'Aleph di Borges riprende alcune movenze fondamentali della monade leibniziana, così come è stata riletta da Deleuze: secondo il filosofo francese, "bisogna mettere il mondo nel soggetto affinché il soggetto sia per il mondo". La coscienza soggettiva è dunque, qui, una coscienza-mondo: un insieme di flussi, una pluralità di movimenti, un'infinita molteplicità di concatenazioni. La trasgressione barocca imprime al pensiero una sorta di accelerazione verticale, che lo sospinge fuori dalla concezione occidentale e moderna, di matrice cartesiana, di un io sovrano, fondatore, distinto e separato dal mondo che lo circonda.
DIPLOMAZIA DELL'ANIMA
Cogliere la fisionomia dell'innovazione barocca significa, anche, rendere più comprensibile quello che vorrei definire una sorta dipassaggio di consegne – relativo all'interpretazione e alla gestione della follia — dalle pratiche dell'esorcista e dal potere del magistrato al sapere del medico: del tutto evidente, ad esempio, nel dibattito sulla malinconia delle streghe. [18]
Questo passaggio di consegne trova le sue condizioni di possibilità in alcune movenze della filosofia morale secentesca, la cui rivalutazione, in ambito italiano, deve molto, come è noto, al grande libro di Benedetto Croce sulla Storia dell'età barocca in Italia.
La valorizzazione della cultura acquista una particolare rilevanza nel pensiero italiano del Seicento: si pensi, al proposito, a L'huomo di lettere difeso e emendato, di Daniello Bartoli (1645), oppure alTrattato dell'arte e dello stile del dialogo, dello Sforza Pallavicino (1662). Per questi autori, valorizzare la cultura significa soprattutto assegnare centralità alla forma, all'eleganza espressiva e al potere della parola. La raffinatezza espressiva non è tuttavia – come è stato già detto in non poca manualistica — solo il segno di una decadenza, di un vuoto interiore, di un'assenza di valori. Al linguaggio si chiede in realtà di rappresentare l'ambiguità, l'incertezza, il conflitto, la contraddittorietà, la doppiezza, la simulazione e la dissimulazione: caratteri costitutivi dell'antropologia barocca. Il compromesso della Controriforma — ilcompromesso post-tridentino, come lo ha definito Garin, sulla scia di Croce — ha bisogno, per esser messo in scena, di una eleganza formale, di un gusto per le sfumature, di un amore per il dettaglio, di una predilezione per il probabile contrapposto al certo(così il cardinale gesuita Pietro Sforza Pallavicino). Nei teorici della morale, della poetica e della politica — cioè in coloro che rappresentarono maggiormente, secondo Croce, l'atmosfera culturale del secolo — ritroviamo gli elementi di una sorta diletteratura del compromesso: capace di elaborare una vera e propria diplomazia dell'anima, o, se si preferisce, un'alchimia delle umane passioni, per dirla con Flavio Querengo (di cui si veda soprattutto il De sapientiae et eloquentiae divortio, 1639).
Sospeso tra fede ed opere, tra grazia e libertà, tra calvinismo ed umanesimo, l'uomo barocco è un esperto nell'arte della mediazione e del compromesso: incline all'ipocrisia, alla simulazione e alla dissimulazione; paziente, prudente, flessibile, adattabile, sempre sorretto dal buon gusto e dalla capacità di nascondersi, in modo da "pigliare una certa ricreazione passeggiando quasi fuor di se stesso", come afferma Torquato Accetto (Della dissimulazione onesta, 1641). "Non è bene" infatti, secondo il diplomatico Virgilio Malvezzi, "il dire sempre tutto quello che si ha nel cuore". La conflittualità, l'antagonismo tra valori contrapposti, si risolvono spesso in "abile giuoco": un gioco di delicati equilibri e di "pazienza", la vera "madre di tutte le virtù".[19]
Torsioni interiori, conflitti spirituali, crisi della coscienza: la potenza della parola e le eleganze della forma sono i loro veicoli, il loro modo di essere visibili e rappresentabili. Il concettismo barocco — o conceptismo, come lo chiamano gli autori spagnoli – è strettamente funzionale a questa nuova curvatura della soggettività: privilegia il procedimento analogico, l'uso delle metafore e il ricorso alle antitesi. Le acutezze e le arguzie della retorica sono opera dell'ingegno, incline a valorizzare il concetto più per il suo dinamismo estensivo – per la sua capacità di stabilire nessi e collegamenti tra elementi differenti o antagonisti – che per la sua pregnanza semantica e per la forza dei suoi "tratti intensivi".[20]
Il gesuita spagnolo Baltasar Garciàn — importante saggista, erudito e filosofo morale — dedica a questo orizzonte dello stile e del pensiero un'opera decisiva (Agudeza y arte de ingenio, 1642 — 1648), tutt'altro che isolata. [21]
Qualche anno prima, infatti, il letterato e moralista italiano Matteo Peregrini, aveva pubblicato un saggio sull'acutezza (Delle acutezze, 1639). Poco dopo, il gesuita dissidente Emanuele Tesauro, in un testo famoso (Il cannocchiale aristotelico, o sia idea dell'arguta ed ingegnosa elocuzione, 1654), fisserà i canoni del movimento concettista a partire da un puntuale richiamo all'uso della metafora nella Retorica di Aristotele.
E' proprio vero, viene da chiedersi, che in questa "conquista d'interiorità", risvolto psicologico dell'acutezza e del lavoro sulla forma, "c'è anche — per usare le parole di Garin — "una terribile perdita d'interiorità"? [22] Vorremmo lasciare in sospeso il quesito, limitandoci per ora ad una sola osservazione: il tramonto dell'etica eroica rinascimentale e la successiva decadenza morale che attraversa in profondità la cultura dell'età barocca sono funzionali ad una più raffinata conoscenza ed esplorazione della soggettività.
Si può "conoscere", come dice Graciàn (El discreto, 1646), solo "conoscendosi". Ed occorre conoscersi per saper vivere: per apprendere l'arte del destreggiarsi nel mondo e del vivere insieme agli altri. Una morale pragmatica, improntata alla prudenza ed all'opportunismo, certo. Ma, al tempo stesso, una morale che affina le capacità introspettive, portando l'uomo a scoprire la centralità dell'affetto ed il primato della volontà, che si manifesta, per l'appunto, nel "señorìo del afecto" (Graciàn, Oràculo manual y arte de prudencia, 1647, massima 155, p. 193).
L'affetto e la volontà vengono sottratte al dominio dell'intelligenza: sfere psicologiche separate, autonome, di cui occorre diventare padroni, per evitare che l'intelligenza stessa si disgreghi, si impoverisca o diventi una risorsa inutile, insufficiente a farci vivere tra gli altri; insufficiente, dunque, a quello che Graciàn chiamal'uomo di qualità, che non può non essere, soprattutto, uomo delfattibile.
La dicotomia tra affetti e intelligenza, tutta interna all'orizzonte della prassi e della fattibilità, verrà duplicata, come diremo tra breve, da una dicotomia parimenti strategica tra l'essere e l'apparire, tra il nascosto ed il visibile. L'unità dell'io viene definitivamente infranta. All'interno dell'antropologia barocca, la sua duplicità costitutiva ci appare come una sorta di denominatore comune, presente anche in aree culturali nettamente antagoniste al compromesso post-tridentino e alla morale gesuitica.
In ambito giansenista, ad esempio, un Pascal potrà affermare:
"Cette duplicité de l'homme est si visible qu'il y en a qui ont pensé que nous avions deux âmes" (Pensées, Série XXIV, Fragment 536). Ed ancora, molto più esplicitamente: "Guerre intestine de l'homme entre la raison et les passions. S'il n'avait que la raison sans passions…S'il n'avait que les passions sans raison…Mais ayant l'un et l'autre il ne peut être sans guerre, ne pouvant avoir paix avec l'un qu'ayant guerre avec l'autre; aussi il est toujours divisé et contraire à lui-même" (Pensées, Série XXIV, Fragment 528).
Se in Pascal l'antagonismo tra "passions" e "raison" diviene cifra di una tragicità della condizione umana, nell'etica del compromesso si punterà ad un'integrazione armonica tra queste diverse parti dell'io. L'uomo di qualità — cioè il soggetto prudente ed adattabile — impiegherà tutte le risorse del suo ingegno e del suo "stile" a conciliare gli affetti e la ragione. Mutano i significati e l'orizzonte dei valori, ma rimane inalterata — quasi un cammino senza ritorno — la prospettiva di una ineludibile e problematica scissione dell'io. Tale scissione, da qualsiasi parte la si guardi, esprime uno stato di crisi dell'identità soggettiva: Maravall l'ha definita una coscienza di crisi, ricordandoci tuttavia che crisi, all'epoca, era un lemma del lessico medico, non ancora entrato nel vocabolario della morale e della politica. Le terapie mediche, in ogni caso, rappresentarono un punto di riferimento essenziale della trattatistica morale e politica del Seicento. L'etica del mondo, come la chiamava Malvezzi, ha bisogno di una medicina mentis: di una medicina dell'anima che aiuti l'uomo a non smarrirsi in quello che Comenio definiva, in chiave negativa, il labirinto del mondo.
La precettistica morale e la terapia medica hanno un bersaglio comune: la vis imaginationis e le passioni; spinte all'eccesso e non governate, esse turbano l'equilibrio psichico ed alterano il funzionamento delle facoltà intellettive. I soccorsi della medicina intervengono laddove non sia sufficiente la virtù della prudenza, che scandisce il profilo di una vera e propria arte del vivere, perseguita dall'uomo di qualità. Uno dei banchi di prova dellamedicina mentis è proprio, non a caso, la malinconia: patologia mentale ricondotta alle sue matrici fisiche e psicologiche, strettamente correlate tra di loro: lo squilibrio degli umori ed al tempo stesso, per dirla con Thomas Wright, la veemenza di una passione, la sovrabbondanza di una passione eccessiva. [23]
Le passioni eccedenti, dunque, e non governate; tra di esse, in primis, l'amore passionale: "il principio e l'origine di tutte le nostre affezioni", "l'epitome di tutte le perturbazioni dell'anima". [24] Le passioni, generatrici di calore, bruciano gli umori del corpo, rendendoli "adusti". L'adustione produce esalazioni nocive, che compromettono la salute del corpo ed intaccano l'integrità del cervello, provocando uno stato di follia, o di "demenza", tale da giustificare, in sede processuale, la modificazione del grado di imputabilità di un'azione criminale. [25] L'eccesso passionale – una delle cause della malinconia patologica – è anche uno dei suoi sintomi maggiormente visibili. Questo corto circuito tra cause e sintomi scandisce la centralità della passione entro l'universo della follia: lo ritroveremo, dopo circa due secoli, all'alba della clinica psichiatrica del primo ottocento, soprattutto nei testi di Esquirol.[26]
L'eccesso diventa dunque oggetto di una duplice iscrizione: trattato dalla morale e dalla religione come vizio, come malvagità, come peccato — come indicatore di uno scacco dell' honnêteté e dell'arte del vivere – viene annoverato dalla medicina tra le cause ed i sintomi della follia. La prima iscrizione può mettere capo sia ad una semplice condanna morale sia, come accadde alle streghe, ad una condanna teologico-giudiziaria, cioè ad una eliminazione fisica — la messa al rogo — legittimata dall'autorità del sapere demonologico. La seconda iscrizione, invece, fa emergere un'alternativa all'orizzonte della pena e del rogo: la segregazione, giustificata da necessità terapeutiche e legittimata dall'autorità del sapere medico. Tant'è che Malebranche, nella sua Recherche de la vérité (1674), potrà dire, a proposito dei "sorciers" bruciati sul rogo: "Que l'on cesse de les punir et qu'on les traite comme des fous". [27]
La manifestazione degli eccessi passionali diventa così un territorio di frontiera, dove si affrontano o si intrecciano diversi dispositivi, e quindi differenti strategie di amministrazione e di controllo delle condotte: morale, teologia, diritto, medicina. Diversi i dispositivi, differenti le strategie; unico, in ogni caso — come si è già detto — il bersaglio: la passione non governata, dissociata dalla ragione, estranea alla virtù della prudenza ed al controllo della volontà, sottomessa alla logica del "désir" e della "cupidité"; i "desideri, nel cuore dell'uomo – come afferma il moralista Pierre Charron — sono un abisso: infinito, diverso, incostante, confuso e irresoluto, spesso orribile e detestabile, ma ordinariamente vano e ridicolo". [28]
Accanto a questo registro austero, di netta intonazione stoica, proliferano le voci favorevoli ad un impianto etico moderato e compromissorio, particolarmente diffuso nella Compagnia di Gesù, definita perciò da Pascal, assieme all'Inquisizione, uno dei due "flagelli della verità" (Pensées, Pensées retranchées, Fragment 714): un impianto moderato, si diceva, che rinvia ad una possibile conciliazione degli antagonismi, ad una ricerca del bene concepito come itinerario compatibile con la ricerca dell'utile e del piacevole, in netta polemica con lo stoicismo e con il rigorismo tragico dei giansenisti. Su questa linea, Sforza Pallavicino, ad esempio, cercherà di dimostrare la compatibilità tra l'onesto ed il giocondo(Del bene, 1644).
Mettendo tra parentesi ogni valutazione morale del compromesso post-tridentino, potremmo ipotizzare, quasi paradossalmente, che questo orientamento possibilista — nato come strategia di un servile adattamento degli intellettuali alle regole del potere – abbia messo in evidenza un momento di crisi o di ridimensionamento di quelli che Charles Taylor chiama gli iperbeni.
In altre parole, l'avvento di un'etica del fattibile implicherebbe il declino della nietzscheana "transvalutazione dei valori" (Ecce Homo): una delle malattie mortali dell'uomo moderno, foriera di intolleranza, di sopraffazioni e di tirannia. [29]
DISSIMULARE, DECIFRARE
Ogni "exceso de pasiòn", lo si è già visto, ci allontana dall'orizzonte delle condotte prudenti e razionali (Graciàn, Oràculo manual, p.193), ed è poca cosa la conquista dell'intendimento senza un pieno possesso delle proprie capacità volitive. "Poco es conquistar el entendimiento si no se gana la voluntad" (El héroe, 1637, Primor XII, p. 23). Gli impeti dell'affetto — "los impetus del afecto" —, violentati dall'uomo "valeroso", vengono dissimulati dall'uomo "astuto" (El héroe, Primor II, p. 8). Appassionarsi, in questa prospettiva, è dunque una vera e propria arte. "Arte en el apasionarse", non a caso, è il titolo della massima 155 dell'Oràculo (p. 193), dove si sostiene che il primo passo di una passione governata e controllata consiste proprio nella consapevolezza di essere appassionati: "El primo paso del apasionarse es advertir que se apasiona, que es entrar con señorìo del afecto". Recenti indagini nell'ambito della psicologia americana tendono a valorizzare proprio questa particolare forma dell'intelligenza messa a fuoco da Baltasar Graciàn: l'emotional intelligence, che consiste principalmente nella consapevolezza e nel controllo delle proprie emozioni, nel riconoscimento delle emozioni altrui e nel conseguente successo di ogni "arte delle relazioni" interpersonali. [30]
Consapevolezza ed emozioni, ragione e passione: Graciàn propone dunque un modello di comportamento capace di realizzare un'armonia tra due polarità tradizionalmente antagoniste. Entro questo orizzonte etico di una riconciliazione degli opposti, si riesce persino a cogliere la possibile coesistenza del "giudizio" con la pazzia, prefigurando così le innovazioni concettuali che verranno introdotte nel primo ottocento dalla psichiatria nascente (mania senza delirio, follia ragionante, follia lucida, follia parziale, eccetera). Afferma infatti Graciàn: "Gran prueba de juicio conservarse cuerdo en los trances de locura" (Oràculo, ibidem).
L'uomo di qualità non sopprime le sue passioni, ma le amministra con sagacia; è la sophrosyne dei greci, o la temperantia dei latini, cui si aggiunge, tuttavia, qualcosa che la saggezza antica non aveva messo in evidenza: la capacità di dissimularle, soprattutto nel caso in cui esse siano eccedenti, oppure moralmente inaccettabili, e quindi in contrasto con le regole dell'honnêtetécomunemente approvate e condivise. Riesce a controllare la passione eccedente — o riprovevole – solo colui che la dissimula. Non conta, in effetti, ciò che uno realmente sente, ma ciò che riesce a far apparire. Nell'Oràculo la stessa frase, che riassume questo concetto, viene ripetuta per ben due volte, come incipitdella massima 99 e della massima 130 (p. 178 e p. 186): "Las cosas no pasan por lo que son, sino por lo que parecen".
Nel testo del 1646 — El discreto — Graciàn tesse un elogio del "dono di apparire", che Dio ha elargito a tutte le cose. Nell'apologo del pavone, intitolato Hombre de ostentaciòn. Apòlogo (pp. 108 — 113), viene difeso il diritto del pavone a sfoggiare la sua ruota, nonostante gli attacchi invidiosi della cornacchia e del corvo. Il sapere più grande è proprio l'arte di apparire, che dà quasi "un secondo essere" a tutte le cose. L'ostentazione non è né vanità né affettazione: è un vero e proprio talento, una virtù naturale. Come scrive Jean Rousset, attento lettore dell'apologo: "La vanità è lo scenario sul vuoto, è la facciata sul nulla; l'ostentazione, invece, che deve essere sostenuta dalla realtà, si sforza di sfuggire all'affettazione; troppo sfoggio provoca disgusto; lo splendore affatica; l'eccellenza deve essere una rarità, occorre a volte nasconderla; una prudente dissimulazione può essere il modo migliore per manifestare i meriti. In questo modo l'ostentazione si collega alla dissimulazione, altra virtù fondamentale in Graciàn: rendersi impenetrabili, nascondere il proprio cuore, imbrogliare, è uno dei temi centrali della sua honnêteté". [31]
Dal Deus absconditus dei teologi all'uomo nascosto dell'etica barocca: la ricerca di ciò che rimane nascosto passa attraverso la decodificazione della cifratura visibile. Su questa tematica fondamentale Graciàn scrive la sua opera più importante, El Criticòn (1651 — 1657): libro di viaggi, narrazione didattica, satirica e metafisica, romanzo di formazione ed al tempo stesso poema in prosa, ricco di tensioni stilistiche, dove l'allegoria ed il racconto si mescolano – secondo gli stilemi del concettismo — con uno stile denso, espressivo, che Voltaire trovava "arlecchinesco", e con una tonalità amara e satirica, particolarmente apprezzata da Schopenhauer. [32]
In questo romanzo allegorico acquista grande rilievo la metafora della decifrazione, rappresentata dalla figura del Descifradòr: colui che decodifica la cifra; colui che legge l'invisibile nel visibile; colui che svela, con pazienza, la verità nascosta degli uomini e delle cose. La Parte III del romanzo (Crisi IV, pp. 877-892), titola, significativamente: El mundo descifrado. Compito del filosofo morale è proprio quello di decifrare il mondo, elaborando un'arte — e quindi, in ultima analisi, un sapere – che l'autore definisce unacontrocifra (una "contracifra"). Un'arte capace di smascherare gli inganni, le simulazioni, le dissimulazioni, le cifrature: cioè tutti gli artifici elaborati dall'uomo per rendere illeggibili ed incomprensibili le sue perfidie, le sue malvagità, le sue passioni segrete, i suoi desideri nascosti.
Dobbiamo molto a questi autori: considerati, secondo i canoni della critica tradizionale, dei minori; nell'ambito della nostra modernità sono stati forse i primi a porre con chiarezza il problema della verità: inteso come problema della dicotomia — e del suo eventuale superamento – tra l'interno e l'esterno, tra ciò che non si vede e ciò che appare, tra il noumeno e il fenomeno, tra il segreto nascosto ed i suoi derivati visibili. [33]
Dalla procedura penale alla pratica della confessione, dalla criminologia alla pedagogia, dalla psichiatria alla psicoanalisi, definita dal suo fondatore una scienza delle tracce (Spurenwissenschaft): è sempre in gioco, in tutti questi itinerari, la possibilità di decifrare il segreto attraverso l'interpretazione delle sue produzioni visibili ed accessibili: rivelazioni, discorsi, parole, narrazioni, segni, sintomi, sogni. Il Descifradòr — raffinato ed ambiguo prodotto della cultura barocca post-tridentina — ci appare oggi come una sorta di progenitore dimenticato, che mette in scena l'inevitabile e spesso occultata correlazione tra due momenti costitutivi di ogni scienza dell'uomo: conoscenza e dominio. [34]
NOTE
[1] Cfr. M. GALZIGNA, La sfida dell'altro. Per una critica dell'io unitario, in: La sfida dell'altro. Le scienze psichiche in una società multiculturale, a cura di M. Galzigna, Marsilio, Venezia 1999. Per una storia filosofica dell'io — decisamente orientata a valorizzare la scoperta novecentesca del soggetto multidimensionale come esito di un percorso plurisecolare, che ha inizio con Platone — si veda l'importante libro di CH. TAYLOR, Radici dell'io, Feltrinelli, Milano 1993.
[2] C. E. GADDA, I viaggi la morte, Garzanti, Milano 1977, p.150.
[3] Ivi, pp. 11-12.
[4] C. E. GADDA, La cognizione del dolore, Einaudi, Torino 1963, pp. 32-33.
[5] C. E. GADDA, I viaggi la morte, cit., p. 12.
[6] C. E. GADDA, La cognizione del dolore, cit., p. 123.
[7] C. E. GADDA, I viaggi la morte, cit., pp. 149-150.
[8] C. E. GADDA, La cognizione del dolore, cit., p. 187.
[9] Ivi, p. 203.
[10] J. A. MARAVALL, La cultura del barocco, Il Mulino, Bologna 1985, p.256. Per la citazione di Comenius — che abbiamo tratto da questo libro — cfr. p. 255.
[11] Cfr. J. ROUSSET, La letteratura dell'età barocca, Il Mulino, Bologna 1985.
[12] In questa ottica si veda: G. DELEUZE, Spinoza. Filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1991; G. DELEUZE, Spinoza et le problème de l'expression, Minuit, Paris 1968; A. NEGRI, L'anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano 1981.
[13] Mi sia consentito un rinvio a M. GALZIGNA, Una coscienza piena di mondo, in Il vivente e l'anima, "BioLogica", 4, 1990, pp. 105 — 122.
[14] G. DELEUZE, La piega. Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino 1990. Le citazioni che seguono, nel testo, sono tratte da questo libro.
[15] Su questo si veda G. DELEUZE — F. GUATTARI, Che cos'è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996.
[16] J. L. BORGES, La biblioteca di Babele, in Finzioni, Einaudi, Torino 1978, pp. 69 — 78.
[17] J. L. BORGES, L'Aleph, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 150 — 170.
[18] Su questo, mi sia consentito il rinvio a M. GALZIGNA, L'enigma della malinconia, in "aut aut", 195-196, maggio-agosto 1983 (numero monografico su Il governo di sé e degli altri. Materiali di ricerca genealogica, a cura di M. Galzigna).
[19] Su tutto questo rinvio — oltre che agli studi classici di Croce e di Garin ed ai lavori di Maravall e di Rousset – anche ad A. FONTANA, Il vizio occulto. Cinque saggi sulle origini della modernità, Transeuropa, Ancona-Bologna 1989. Cfr. anche la ricca Introduction di A. FONTANA all'edizione francese di un trattatello di Camillo Baldi (1622): C. BALDI, La lettre déchiffrée, Les Belles Lettres, Paris 1993 (pp. 9 — 73). Abbiamo utilizzato l'acuto sguardo panoramico sulla trattatistica morale italiana della Controriforma, vista come letteratura del "compromesso", presente in E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Einaudi, Torino 1966, Volume secondo, pp. 765 — 795.
[20] G. DELEUZE — F. GUATTARI, op. cit., p. 30. La matrice barocca della teoria deleuziana del concetto ci sembra del tutto evidente.
[21] Per i riferimenti a questo autore, ho utilizzato la seguente edizione: B. GRACIAN, Obras completas, Estudio preliminar, Edicion, Bibliografia y Notas de Arturo del Hoyo, Aguilar, Madrid 1960. Indicherò, nel testo, le pagine relative a questa edizione.
[22] E. GARIN, op. cit., Volume secondo, p. 781.
[23] TH. WRIGHT, The Passions of the Mind in General, London 1601, passim.
[24] J. FERRAND, Traité de l'essence et guérison de l'amour, 1610 (seconda edizione 1623). Cito, qui, la versione italiana della seconda edizione : Malinconia erotica. Trattato sul mal d'amore, a cura di Massimo Ciavolella, Marsilio, Venezia 1991, p. 6.
[25] Così secondo Paolo Zacchia, riconosciuto come il padre fondatore della medicina legale moderna. Cfr. P. ZACCHIA, Quaestionum Medico-Legalium, Lione 1661, vol. I, p. 121. Le 23 questioni del Titolo I del Libro II sono dedicate ai casi di demenza. La malinconia occupa un ruolo di primo piano in tale contesto: ad essa è interamente dedicata la questione 9.
[26] Si veda E. D. ESQUIROL, Delle passioni (1805), a cura di Mario Galzigna, Marsilio, Venezia 1982.
[27] Rinvio ancora a M. GALZIGNA, op. cit., ed anche al mio La fabbrica del corpo, in "aut aut", settembre-dicembre 1978, pp. 153 — 174.
[28] P. CHARRON, De la sagesse, Paris 1618, Libro I, pp. 132 — 133. Il passo è tratto dal cap. XXIII, che ha per titolo Désirs, Cupidités ( la prima edizione dell'opera esce a Bordeaux nel 1601). La traduzione del passo è mia.
[29] Cfr. M. GALZIGNA, La sfida dell'altro, cit., pp. 11-26. Sul tramonto della funzione politica dell'intellettuale nell'età della Controriforma, e sulla natura dei suoi servilismi, si veda G. BENZONI, Gli affanni della cultura, Feltrinelli, Milano 1978.
[30] Il primo modello e la prima definizione articolata della cosiddetta "emotional intelligence" risalgono al 1990, grazie alle ricerche di Peter Salovey e di John Mayer. Cfr.
P. SALOVEY — J. D. MAYER, Emotional intelligence, in "Imagination, Cognition and Personality", 9, 1990, pp. 185 — 211.
[31] J. ROUSSET, op. cit., p. 270.
[32] Così, molto bene, H. BLUMENBERG, La leggibilità del mondo, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 105 — 116 (si tratta del capitolo nono del libro, dedicato ad un'acuta analisi di El Criticòn).
[33] Cfr. A. FONTANA, op. cit., pp. 15 — 48.
[34] Mi sia consentito il rinvio a M. GALZIGNA, Conoscenza e dominio, Bertani, Verona 1984.
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