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Ma quale flessibilità! Gli invalicabili psicologici e sociali nell’epoca del disagio per la civiltà

21 Lug 23

A cura di Luigi D'Elia

(Paragrafo estratto da materiale più ampio di prossima pubblicazione)

Sono passati 25 anni dalla pubblicazione di L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale (1998), di Richard Sennett e già si preannunciava profeticamente, ancor prima della fase attuale del capitalismo digitale, l’impatto dirompente che quel “nuovo capitalismo” già operava sulla vita delle persone. Sarebbe interessante ripercorrere i cambiamenti del panorama psicopolitico negli ultimissimi decenni.

Facendo un ulteriore passo indietro, a distanza quasi di un secolo, siamo invece costretti a rinominare il noto saggio di Freud Il disagio nella civiltà (titolo originario, 1930) in Il disagio per la civiltà. Se un secolo fa Freud, già completamente immerso nella cultura capitalista della propria epoca, intravedeva il rapporto di forze tra civiltà (pressioni evolutive storiche) e individuo come una sorta di danno necessario utile a imbrigliare e governare una pulsionalità irredenta e primitiva in cambio di stabilità e ordine, oggi siamo costretti a ripensare all’intero scenario dovendo concludere che tale scambio non ha più alcuna presunta utilità evolutiva e che l’attuale forma di civiltà capitalistica sta chiedendo alla mente umana il sacrificio totale di sé.

Occorre dire che all’epoca di Freud poco e nulla si conosceva di paleoantropologia, di psicologia evoluzionistica, dei processi di ominazione, di neuroplasticità, e di mille altre acquisizioni scientifiche che oggi sono invece disponibili per (tentare di) completare il mosaico relativo alle caratteristiche invarianti della nostra specie. Le ipotesi di Freud sulla natura aggressiva, brutale, pulsionale dei nostri predecessori ignora di fatto 190.000 anni di storia culturale della nostra specie, e le sue letture appaiono particolarmente legate alla sua epoca storica e ben poco alla realtà preistorica dei sapiens, di cui nulla ci fa pensare debba essere stata così animalesca.

Oggi il punto non è più quello di cercare e trovare mediazioni vantaggiose tra pulsioni irredenti e ordine sociale, bensì di riconoscere che le richieste dell’attuale civiltà capitalistica sono diventate di fatto irricevibili da qualunque organismo sano dal momento che ciò che viene richiesto è molto al di là delle possibilità di una mente e di un fisico umano di sostenere tali richieste nel tempo senza autodistruggersi o senza autodanneggiarsi sensibilmente.

Nella storia evolutiva dei sapiens, che dura da circa 200.000 anni, è solo nell’ultimo ventesimo di essa che assistiamo ad un cambiamento di condizione che potremmo definire piuttosto impattante: in tutto il mondo quelli che erano prevalentemente cacciatori e poi anche raccoglitori e lo erano stati per ben 190.000 anni (19/20 dell’intera storia di specie), molto lentamente scoprono e diffondono la domesticazione di piante e di animali (da 10-12.000 anni a questa parte) e gradualmente cominciano a sedentarizzarsi e a riunirsi dapprima in piccoli agglomerati e poi in realtà collettive sempre più numerose nelle primissime città nei pressi di zone fertili e naturalmente irrigate, fino a costruire città con diverse decine di migliaia di persone (Çatalhöyük, Uruk, Gerico, Ur, Aleppo, etc). Passano ancora alcuni anni e si inventerà la scrittura.

Non v’è dubbio che il salto di condizione che rappresentò quel passaggio in termini di adattamento alla vita stanziale di grandi gruppi, cambiamento di abitudini quotidiane sedentarie, impatto con nuove forme di socialità, impatto con la stratificazione gerarchica in caste, dovette essere presumibilmente tanto shockante quanto interessante per le comunità umane le quali, per la prima volta si confrontavano contemporaneamente con vantaggi e svantaggi delle nuove pressioni ambientali questa volta di natura esclusivamente culturale. 

Come già detto (…), specialmente da questo momento in poi, condizione umana e evoluzione umana si divaricano e prendono strade differenti soprattutto in quanto a velocità di mutazione. La condizione umana comincia a correre inseguendo i cambiamenti storici, l’evoluzione rimane al palo seguendo le proprie, lentissime, leggi di natura. 

L’addomesticamento di piante e animali accresce enormemente l’antropizzazione dei paesaggi con disboscamenti e irrigazioni forzate, cambia radicalmente l’aspetto della terra ed aumenta il senso di potenza dei sapiens che sentono di poter piegare almeno in parte l’imprevedibilità della natura ai propri scopi, e la successiva nascita degli agglomerati per moltitudini circoscrive sempre più il contesto umano come definito, autonomo e distinto dalla condizione di natura. 

L’uomo, giunto nelle città e nei villaggi, impara a modificare la propria condizione in cambio di innumerevoli e indubbi vantaggi evolutivi: possibilità di stoccaggio di risorse e più semplice accesso ad esse, accesso a maggiori possibilità tecniche, maggiore delega della difesa del territorio, maggiore delega della cura e protezione dei piccoli, minore attrito delle spinte incestuose e maggiore variabilità genetica, maggiore specializzazione linguistica e comunicativa, un nuovo sentimento di appartenenza ad una gruppalità molto vasta, etc. 

Ma ad ogni vantaggio evolutivo si chiederà alla condizione umana un prezzo da pagare. Il costo della civilizzazione comincia a diventare sempre più alto e ogni vantaggio evolutivo comincia a corrispondere ad un sacrificio della condizione precedente che non sempre gli uomini si mostrano disposti a pagare. Molto probabilmente è in questa fase che nasce il patriarcato e la condizione della donna peggiora in funzione di una pretesa stabilità sociale. Ugualmente la società, facendo il salto dal dominio di decine di unità a migliaia, richiederà processi decisionali basati sulla delega totalmente differenti da quelli tribali e la suddivisione della società in caste. Nascono le caste dei guerrieri, dei sacerdoti, le aristocrazie, le varie consorterie artigiane, diventano ordinarie le diseguaglianze e le violenze per il rispetto di ordinamenti giuridici ancora arcaici. Le prime civiltà agricole e pastorali portano vantaggi evolutivi il cui costo è la paradossale accettazione di una quota, molto variabile da luogo e periodo, di intrinseca inciviltà. E così, di seguito, ogni fase storica dei 5-6000 anni successivi vedrà ogni civiltà misurarsi con il proprio specifico “contratto” evolutivo e con le proprie specifiche pressioni ambientali rispetto alle dotazioni originarie dei sapiens.

Ma come dimostrano Graeber & Wengrow nel loro importante L’alba di tutto (2021), nulla è pre-scritto, lineare e destinale nella storia dell’uomo rispetto alle sue principali forme organizzative sociali, caratteriali, politiche, etc. La storia umana è stata, ed è ancora, un gigantesco laboratorio di sperimentazioni dove tanto è stato esplorato come alternative ai modelli prevalenti e nulla è scritto nell’acciaio e tutto è possibile modificare. Ciò che appare priva di mobilità e creatività è l’azione politica che appare bloccata su un’unica traiettoria. Occorre recuperare fantasia e sperimentazione. 

Venendo alla nostra stretta attualità, e facendo un balzo di 6-9000 anni (dall’epoca delle prime città), ci ritroviamo nella inedita situazione di una civiltà, la nostra oggi, il cui equilibrio, funzionamento e stabilità richiedono alla specie sapiens una mutazione di condizione che ha di gran lunga oltrepassato la possibilità di sopportazione. L’accelerazione della storia non si accontenta più di chiedere all’uomo di potersi adattare all’interno di un qualsiasi scambio vantaggioso per entrambi, ma, ben lontano da ogni opportunità evolutiva, gli chiede di forzare oltre misura la propria dotazione di partenza conducendola verso numerosi punti di rottura: biologici, psicologici, sociali. 

Oggi è diventato piuttosto usuale e non fa alcuno scandalo: 

Senza tema di smentita, nessuna civiltà precedente alla nostra ha mai chiesto tutto questo ai sapiens in cambio di stabilità, un vero e proprio sacrificio totale di sé e delle proprie dotazioni originarie, a ben vedere le stesse che hanno caratterizzato il nostro processo di ominazione. 

(occorre specificare al lettore che questo paragrafo fa riferimento ad un largo capitolo dedicato all’approfondimento delle invarianti bio-psico-sociale dell’ominazione dei sapiens moderni in rapporto ai codici del neoliberismo. Rimando il lettore alla futura lettura di questo scritto ancora non pubblicato)

Abitudini di vita, perciò, totalmente disumane che portano a malattie e morte (Case & Deaton, Morti per disperazione e il futuro del capitalismo 2021) se consideriamo le dotazioni di partenza dei sapiens, ma del tutto ordinarie e funzionali dal punto di vista delle esigenze dell’attuale fase del capitalismo. Se ci pensate, ognuna di queste abitudini impazzite produce PIL e dunque aumenta, secondo i codici perversi capitalisti, il benessere e la stabilità del sistema. Il PIL vampirizza l’essere umano lasciandolo esangue. 

In nome di una pretesa e totalmente indimostrata flessibilità o adattabilità bio-psichica il tardo capitalismo-vampiro spezza di continuo la corda già precedentemente tirata all’inverosimile pur di non retrocedere e rinunciare a chiedere ai sapiens infinita resilienza, ma una resilienza ormai fittizia e inesistente sarcasticamente ripetuta e richiesta come prestazione di valore. Ogni tentativo di contrappeso nella direzione opposta: reddito universale, salario minimo, riduzione orari e giorni lavorativi, ripristino di tutele sociali, politiche di pari opportunità, etc, anche se sperimentati con successo, sono vissuti dalla gran parte delle classi politiche e degli stessi cittadini come minacce gravi alla stabilità del sistema. 

Si è giunti al paradosso per il quale l’attuale sistema, figlio ormai illegittimo del percorso di civilizzazione, mira alla propria sopravvivenza anche a costo della mancata sopravvivenza dell’uomo. Se il rapporto uomo-civiltà nelle epoche precedenti (fino all’era moderna) istituiva un conflitto strutturale fonte di alienazione e disorientamento dell’uomo, oggi questo conflitto tende a scomparire a causa della progressiva identificazione-omologazione dell’individuo nei gangli più profondi dei meccanismi economici globali. Nel nostro mondo economia globale ed economia psichica vorrebbero totalmente coincidere, con l’esito finale che vede la civiltà stessa ad essere alienata dai propri iniziali obiettivi protettivi e negoziali e, viceversa, totalmente finalizzata alla propria sopravvivenza ad ogni costo, o meglio al prezzo del completo assoggettamento dell’uomo.

Ma può una civiltà, o supposta tale, immaginare di sopravvivere senza l’uomo che l’ha creata? Certo, basta decretare la fine dell’uomo di cui né l’ecosistema ospitante, né l’attuale sistema culturale sembrano avere più bisogno. In tal senso la nascita di entità artificiali non vincolate da dotazioni bio-psichiche di partenza, apre a scenari nei quali pochissimi eletti umani potranno comodamente annidarsi con le loro dotazioni paleolitiche, in un mondo totalmente artificiale, senza la concorrenza di 8-10 miliardi di zavorre.

E’ questo il futuro che vogliamo e che ci aspetta? No di certo.

Dobbiamo aspettarci in un futuro nemmeno troppo prossimo, poco prima che questo scenario post-umano appena descritto diventi probabile, che il creatore, il sapiens delle origini, si riprenda il potere verso la propria creatura, la civiltà divenuta nel frattempo dis-umana, e ne determini un radicale rimaneggiamento.

Insomma, ci troviamo evidentemente ad un bivio decisivo per le sorti della nostra specie: lasciare che questa civiltà alienata e fuori misura ci dichiari inutili e sorpassati con i nostri bisogni scritti nell’evoluzione o, a partire proprio da questi bisogni, dalle dotazioni di origine, l’uomo si riprenda il posto del creatore di civiltà e ne inventi finalmente una a propria misura e a misura dell’ecosistema che lo ospita.

Occorre però mettere sul tappeto, ben in evidenza, la fine della flessibilità, la fine dell’adattabilità e la fine della resilienza della specie sapiens, consapevolezza dirimente e allo stesso tempo progettuale per comprendere fin dove è possibile spingerci e indirizzare il progresso e come le nostre più comuni abitudini di vita riusciranno ad auto-ripararsi in contesti sociali meno folli dell’attuale. 

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