Achille Mbembe è un filosofo ed esperto di scienze politiche camerunense formatosi alla Sorbona ed è considerato uno dei principali teorici degli studi postcoloniali. Tra i suoi testi uno, Postcolonialismo, pubblicato in francese nel 2000, è stato tradotto da Meltemi nel 2005. Questo nuovo testo, Necropolitica, nasce dalla traduzione a cura di Roberto Beneduce per le edizioni Ombre corte di un saggio originariamente uscito nel 2003 sulla rivista “Public culture winter”. In esso Mbembe approfondisce le nozioni di biopolitica e biopotere introdotte da Michel Foucault per indicare l’applicazione della sovranità alla vita, cioè l’attività del potere volta a regolarla, coniando quella di necropolitica, che corrisponde all’espressione estrema della sovranità, il potere cioè di decidere chi può vivere e chi può essere lasciato (o addirittura può o deve essere fatto) morire[i]. Di questo concetto Mbembe esplora le importanti implicazioni filosofiche e il rapporto con quello di “stato di eccezione” introdotto da Carl Schmitt, una condizione che può essere rappresentata dai campi di concentramento e di sterminio, ma anche da un insieme più ampio di situazioni, nel quale si assiste a una spoliazione dai diritti fino alla riduzione a nuda vita, che vanno dalla guerra, con la distruttività, il carattere seriale e il maggiore coinvolgimento delle popolazioni che ha raggiunto; a situazioni di tensione politica, come il Terrore che caratterizzò fasi della Rivoluzione francese o della storia dell’Unione sovietica; al razzismo, nelle sue espressioni rappresentate dalla shoah, ma prima ancora dallo sterminio dei nativi nelle due Americhe, lo schiavismo delle piantagioni – dove “il potere sulla vita dell’altro assume la forma del commercio” ed “è possibile affermare che la vita dello schiavo è posseduta dal padrone” – e la violenza coloniale. Tipica dell’universo coloniale è l’applicazione differenziata del diritto e dell’umanità all’uomo “civile” e al selvaggio, relegato in una zona intermedia – scrive Mbembe – tra la condizione di “soggetto” e quella di “oggetto”.
Credo che, per noi “psi”, potrebbe essere interessante indagare come si potrebbero rintracciare – sulle orme di quanto è possibile leggere tra le righe di alcuni scritti psichiatrici di Frantz Fanon e si rende più esplicito poi in Franco Basaglia – i segni di un’analoga evoluzione nella storia della psichiatria, a partire dai meccanismi di ordinario funzionamento della macchina manicomiale fino al grado estremo di perdita di valore della vita indegna di essere vissuta nell’Aktion T4.
Mbembe invece prosegue sulla strada maestra chiedendosi come la necropolitica sia operante oggi, dopo che l’Europa si è vista costretta a ripudiare la logica dello schiavismo e della colonia perché il nazismo l’ha costretta a sperimentarne la brutalità col ribaltargliela addosso. Lo fa a partire dalla relazione tra l’organizzazione degli spazi urbani nel Sudafrica dell’apartheid e quella descritta da Fanon per il mondo coloniale; o dal particolare intreccio – fatto di “sovranità verticale” e geografie separate negli stessi luoghi – costituito dalla disciplina degli spazi nella colonizzazione israeliana dei territori palestinesi. O ancora studiando l’evoluzione della guerra nell’età tardo moderna e le conseguenze antropologiche e politiche dell’applicazione di alta tecnologia bellica ai conflitti in Serbia o in Iraq; o ancora la perdita del monopolio statuale della guerra determinato dal collasso degli Stati postcoloniali nell’Africa subsahariana e la moltiplicazione di milizie private fino a quelle che, seguendo Deleuze e Guattari, definisce “macchine da guerra” – destinate a riprodursi, dopo l’africanizzazione del Medioriente da parte delle guerre occidentali, nell’Isis – e sono gruppi armati di grandi dimensioni caratterizzati da capacità di sfruttamento delle risorse e da un governo brutale e disinvolto della movimentazione di masse umane lasciandosi alle spalle “semplici resti di un dolore insepolto, corporeità vuote senza alcun significato, strani depositi sprofondati in un crudele stupore”. E viene citato come emblematico il caso ruandese.
Le ultime pagine di questo denso saggio sulla sovranità, la libertà, la morte e il loro complicato intreccio nella storia del mondo negli ultimi due secoli sono per il fare del proprio corpo bomba da parte dell’attentatore suicida e le implicazioni filosofiche, antropologiche, politiche del fenomeno.
I tanti temi del saggio di Mbembe sono ripresi nell’ampia postfazione di Roberto Beneduce, “Rovine postcoloniali e poteri di morte”, che completa il volume. In essa si parte dalle persone qualsiasi massacrate nelle guerre e negli attentati dei tempi più recenti, i muri destinati a creare nuovi respinti, le deportazioni, l’evidenza delle disuguaglianze e i rigurgiti razzisti, il farsi sempre più securitaria della nostra convivenza, la guerra moderna, che se da un lato sembra ambire a farsi guerra incorporea alle infrastrutture del nemico, dall’altro non disdegna di investire come ai tempi remoti il corpo e il sangue in proporzioni spesso catastrofiche. Così riassunto, il modo che viviamo disorienta ma Beneduce invita a non distogliere lo sguardo dal passato – come per la guerra di liberazione dell’Algeria e del Kenia – e dal “mormorio dei dannati” che ha ancora bisogno di essere raccontato e ascoltato, le sventure, gli esili e le servitù degli antenati protagonisti per Foucault di una contro-storia. Ma neppure dal presente con i casi emblematici del massacro ruandese, della piaga aperta dell’occupazione in Palestina e il suo ricalcare sotto tanti aspetti il colonialismo europeo (complessivamente, ho trovato le pagine dedicate alla situazione israelo-palestinese tanto da parte di Mbembe che di Beneduce tra le più interessanti), la a volte cieca e sempre freddamente spietata minaccia dei droni, il proliferare di atti più o meno individuali di terrorismo che, come ho avuto già modo di osservare su questa rivista[ii], io sarei più prudente nel qualificare “folli”, ma nei quali apprezzo senz’altro che la persistenza tenace di un “momento infrapolitico” (di più, sono d’accordo, non c’è) sia qui sottolineata.
La civiltà europea – prosegue Beneduce – cioè quella macchina capitalistica la cui metafora Dostoëvskij coglieva agli albori nel Palazzo di Cristallo dell’Esposizione universale durante il soggiorno londinese del 1862, si sente sotto la minaccia dell’urto di masse di corpi che premono e sembrano presentare un conto secolare di spoliazione e violenza. Ma l’ultimo pensiero di Beneduce è, ancora con Fanon, nonostante tutto di speranza: che laddove furono il negro e il bianco nasca l’uomo e le necropolitiche siano, chiude Beneduce, sconfitte. E’ difficile? Molto, oggi parrebbe. Ma sembra anche la sola ragionevole via d’uscita.
Credo che, per noi “psi”, potrebbe essere interessante indagare come si potrebbero rintracciare – sulle orme di quanto è possibile leggere tra le righe di alcuni scritti psichiatrici di Frantz Fanon e si rende più esplicito poi in Franco Basaglia – i segni di un’analoga evoluzione nella storia della psichiatria, a partire dai meccanismi di ordinario funzionamento della macchina manicomiale fino al grado estremo di perdita di valore della vita indegna di essere vissuta nell’Aktion T4.
Mbembe invece prosegue sulla strada maestra chiedendosi come la necropolitica sia operante oggi, dopo che l’Europa si è vista costretta a ripudiare la logica dello schiavismo e della colonia perché il nazismo l’ha costretta a sperimentarne la brutalità col ribaltargliela addosso. Lo fa a partire dalla relazione tra l’organizzazione degli spazi urbani nel Sudafrica dell’apartheid e quella descritta da Fanon per il mondo coloniale; o dal particolare intreccio – fatto di “sovranità verticale” e geografie separate negli stessi luoghi – costituito dalla disciplina degli spazi nella colonizzazione israeliana dei territori palestinesi. O ancora studiando l’evoluzione della guerra nell’età tardo moderna e le conseguenze antropologiche e politiche dell’applicazione di alta tecnologia bellica ai conflitti in Serbia o in Iraq; o ancora la perdita del monopolio statuale della guerra determinato dal collasso degli Stati postcoloniali nell’Africa subsahariana e la moltiplicazione di milizie private fino a quelle che, seguendo Deleuze e Guattari, definisce “macchine da guerra” – destinate a riprodursi, dopo l’africanizzazione del Medioriente da parte delle guerre occidentali, nell’Isis – e sono gruppi armati di grandi dimensioni caratterizzati da capacità di sfruttamento delle risorse e da un governo brutale e disinvolto della movimentazione di masse umane lasciandosi alle spalle “semplici resti di un dolore insepolto, corporeità vuote senza alcun significato, strani depositi sprofondati in un crudele stupore”. E viene citato come emblematico il caso ruandese.
Le ultime pagine di questo denso saggio sulla sovranità, la libertà, la morte e il loro complicato intreccio nella storia del mondo negli ultimi due secoli sono per il fare del proprio corpo bomba da parte dell’attentatore suicida e le implicazioni filosofiche, antropologiche, politiche del fenomeno.
I tanti temi del saggio di Mbembe sono ripresi nell’ampia postfazione di Roberto Beneduce, “Rovine postcoloniali e poteri di morte”, che completa il volume. In essa si parte dalle persone qualsiasi massacrate nelle guerre e negli attentati dei tempi più recenti, i muri destinati a creare nuovi respinti, le deportazioni, l’evidenza delle disuguaglianze e i rigurgiti razzisti, il farsi sempre più securitaria della nostra convivenza, la guerra moderna, che se da un lato sembra ambire a farsi guerra incorporea alle infrastrutture del nemico, dall’altro non disdegna di investire come ai tempi remoti il corpo e il sangue in proporzioni spesso catastrofiche. Così riassunto, il modo che viviamo disorienta ma Beneduce invita a non distogliere lo sguardo dal passato – come per la guerra di liberazione dell’Algeria e del Kenia – e dal “mormorio dei dannati” che ha ancora bisogno di essere raccontato e ascoltato, le sventure, gli esili e le servitù degli antenati protagonisti per Foucault di una contro-storia. Ma neppure dal presente con i casi emblematici del massacro ruandese, della piaga aperta dell’occupazione in Palestina e il suo ricalcare sotto tanti aspetti il colonialismo europeo (complessivamente, ho trovato le pagine dedicate alla situazione israelo-palestinese tanto da parte di Mbembe che di Beneduce tra le più interessanti), la a volte cieca e sempre freddamente spietata minaccia dei droni, il proliferare di atti più o meno individuali di terrorismo che, come ho avuto già modo di osservare su questa rivista[ii], io sarei più prudente nel qualificare “folli”, ma nei quali apprezzo senz’altro che la persistenza tenace di un “momento infrapolitico” (di più, sono d’accordo, non c’è) sia qui sottolineata.
La civiltà europea – prosegue Beneduce – cioè quella macchina capitalistica la cui metafora Dostoëvskij coglieva agli albori nel Palazzo di Cristallo dell’Esposizione universale durante il soggiorno londinese del 1862, si sente sotto la minaccia dell’urto di masse di corpi che premono e sembrano presentare un conto secolare di spoliazione e violenza. Ma l’ultimo pensiero di Beneduce è, ancora con Fanon, nonostante tutto di speranza: che laddove furono il negro e il bianco nasca l’uomo e le necropolitiche siano, chiude Beneduce, sconfitte. E’ difficile? Molto, oggi parrebbe. Ma sembra anche la sola ragionevole via d’uscita.
[i] Si veda: P.F. Peloso, Il valore del sangue. Un pensiero alle stragi terroriste del 12 e 13 novembre, POL. it, 15 novembre 2015 (clicca per il link).
[ii] Si veda: P.F. Peloso, Terrorismo: questa follia non è follia, POL. it., 28 luglio 2016 (clicca per il link).
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