Il sottotitolo è programmatico: Psichiatria tra storia e memoria di un ottuagenario (con piacevole richiamo ad altro ottuagenario: Ippolito Nievo). In effetti, quel che distingue quest’opera da tante altre che ci parlano della riforma psichiatrica e dei suoi presupposti è proprio la dimensione autobiografica, che la rende più vera. Le vicende professionali – e alcune anche private – dell’Autore vengono raccontate sullo sfondo di quella rivoluzione tecnica e sociale che è stata la riforma; anche coraggiosamente, nel rievocare alcuni momenti di personale debolezza di lui, che ne è stato fra i protagonisti. Un salutare bagno di concretezza è fornito anche dalle numerose storie di pazienti, narrate in ottica più umana che clinica che ci mostra il complesso rapporto, positivo ma faticoso, di queste vicende individuali con i nuovi contesti tecnici e organizzativi.
L’approccio dell’opera è comunque multidimensionale, poiché a questa componente umana affianca puntuali precisazioni sui movimenti legislativi e amministrativi anche a livello burocratico – formale, con precise indicazioni di provvedimenti e relative datazioni.
L’Autore si muove in un’ottica pragmatica, non è ideologicamente schierato, anche se non omette i riferimenti culturali a quel movimento di idee che aveva trovato il suo esponente più popolare – anche se forse non il più importante – in Marcuse, e che ha fornito parte importante del background della riforma. Nel suo pragmatismo, prende le distanze da certi eccessi unilaterali, ricordando la complessità del disturbo psichico nella sue componenti che certo sono anche, ma non soltanto, sociali. Credo però si debba riconoscere che una certa unilateralità e perfino militarizzazione è necessaria quando si tratta di distruggere realtà non emendabili come era il manicomio, mentre il momento della moderazione e della integrazione dei diversi aspetti di una realtà viene dopo, quando si tratta di ricostruire qualcosa di efficace: ciò è accaduto tipicamente nella azione politica di Bruno Orsini – uno dei coautori del libro – decisiva nella messa a punto della legge 180.
Andrea Arata ci conduce nella successione storica di una serie di realtà.
Innanzi tutto le tristi descrizioni del manicomio classico su cui non è più il caso di indugiare, delle terapie somatiche a volte confinanti con la tortura, anche per lo spirito consapevolmente o inconsapevolmente punitivo che poteva motivarne l’applicazione; dall’elettrochoc a una serie di altre ben più brutali come il ripetuto coma insulinico, la piretoterapia, lo choc acetilcolinico, quello cardiazolico…
E poi i primi segnali che qualcosa tendeva a muoversi: la cosiddetta socioterapia, embrione di intervento risocializzante e umanizzante accusata tuttavia di costituire una sorta di alibi e giustificazione di una realtà manicomiale sostanzialmente immutabile; le discussioni sul “settore”, ispirate dall’esempio parigino che superava la nociva distinzione fra l’intervento ospedaliero e quello ambulatoriale, rappresentato in Italia dalla organizzazione della Igiene mentale, rete di ambulatori psichiatrici; la legge Mariotti, primo intervento legislativo atto a modificare la realtà manicomiale, con la definizione (rimasta sulla carta) delle massime dimensioni ammesse per le istituzioni, con l’introduzione di una modalità di ricovero realmente volontaria, con la definizione di standard di personale più accettabili, anche questa tuttavia largamente disapplicata. Sono poi seguiti segnali di risveglio all’interno delle Istituzioni, con la nascita dei C.O.S. (Consigli Operatori Sanitari, forse vagamente memori degli storici Soviet) che hanno avuto un notevole ruolo nel movimentare una realtà stagnante; e con un reale tentativo di riforma interna, ispirata al concetto di “settore”, con suddivisione dei pazienti non più su base comportamentale ma su quella della provenienza territoriale.
Infine, la realtà post-riforma, viva di sfide e problemi, che l’Autore ha vissuto personalmente dirigendo un SPDC, punto critico in cui la dimensione medica e quella psicosociale si incrociavano, non senza contraddizioni; egli però non dimentica certo la fondamentale componente territoriale, posta di fronte a imponenti sfide nella gestione del disturbo mentale e anche delle dipendenze, nel tempo alternamente collegate organizzativamente al primo oppure considerate a sé; alternanza che basta a indicare la complessità del discorso.
Qualche pagina è dedicata ai tentativi abortiti di controriforma.
Il lavoro è arricchito particolarmente dal contributo di Peloso, da quello di Ferrannini – Vaggi, da quello di Conforto. il primo è volto a una puntuale rievocazione storica della genesi della legge del 1904: il secondo, quasi a contrapposizione, alle attuali prospettive e criticità del lavoro psichiatrico e del suo contesto organizzativo; il terzo ci fa ricordare il ruolo centrale, anche se spesso implicito, che una ottica psicanalitica “senza lettino” ha nel cambiare la nostra percezione del disturbo mentale. Pisseri ci parla di una realtà particolare da lui vissuta, quella savonese; Bollorino e Maura, criticamente, di una “occasione perduta” dalla Clinica Universitaria di Genova.
L’approccio dell’opera è comunque multidimensionale, poiché a questa componente umana affianca puntuali precisazioni sui movimenti legislativi e amministrativi anche a livello burocratico – formale, con precise indicazioni di provvedimenti e relative datazioni.
L’Autore si muove in un’ottica pragmatica, non è ideologicamente schierato, anche se non omette i riferimenti culturali a quel movimento di idee che aveva trovato il suo esponente più popolare – anche se forse non il più importante – in Marcuse, e che ha fornito parte importante del background della riforma. Nel suo pragmatismo, prende le distanze da certi eccessi unilaterali, ricordando la complessità del disturbo psichico nella sue componenti che certo sono anche, ma non soltanto, sociali. Credo però si debba riconoscere che una certa unilateralità e perfino militarizzazione è necessaria quando si tratta di distruggere realtà non emendabili come era il manicomio, mentre il momento della moderazione e della integrazione dei diversi aspetti di una realtà viene dopo, quando si tratta di ricostruire qualcosa di efficace: ciò è accaduto tipicamente nella azione politica di Bruno Orsini – uno dei coautori del libro – decisiva nella messa a punto della legge 180.
Andrea Arata ci conduce nella successione storica di una serie di realtà.
Innanzi tutto le tristi descrizioni del manicomio classico su cui non è più il caso di indugiare, delle terapie somatiche a volte confinanti con la tortura, anche per lo spirito consapevolmente o inconsapevolmente punitivo che poteva motivarne l’applicazione; dall’elettrochoc a una serie di altre ben più brutali come il ripetuto coma insulinico, la piretoterapia, lo choc acetilcolinico, quello cardiazolico…
E poi i primi segnali che qualcosa tendeva a muoversi: la cosiddetta socioterapia, embrione di intervento risocializzante e umanizzante accusata tuttavia di costituire una sorta di alibi e giustificazione di una realtà manicomiale sostanzialmente immutabile; le discussioni sul “settore”, ispirate dall’esempio parigino che superava la nociva distinzione fra l’intervento ospedaliero e quello ambulatoriale, rappresentato in Italia dalla organizzazione della Igiene mentale, rete di ambulatori psichiatrici; la legge Mariotti, primo intervento legislativo atto a modificare la realtà manicomiale, con la definizione (rimasta sulla carta) delle massime dimensioni ammesse per le istituzioni, con l’introduzione di una modalità di ricovero realmente volontaria, con la definizione di standard di personale più accettabili, anche questa tuttavia largamente disapplicata. Sono poi seguiti segnali di risveglio all’interno delle Istituzioni, con la nascita dei C.O.S. (Consigli Operatori Sanitari, forse vagamente memori degli storici Soviet) che hanno avuto un notevole ruolo nel movimentare una realtà stagnante; e con un reale tentativo di riforma interna, ispirata al concetto di “settore”, con suddivisione dei pazienti non più su base comportamentale ma su quella della provenienza territoriale.
Infine, la realtà post-riforma, viva di sfide e problemi, che l’Autore ha vissuto personalmente dirigendo un SPDC, punto critico in cui la dimensione medica e quella psicosociale si incrociavano, non senza contraddizioni; egli però non dimentica certo la fondamentale componente territoriale, posta di fronte a imponenti sfide nella gestione del disturbo mentale e anche delle dipendenze, nel tempo alternamente collegate organizzativamente al primo oppure considerate a sé; alternanza che basta a indicare la complessità del discorso.
Qualche pagina è dedicata ai tentativi abortiti di controriforma.
Il lavoro è arricchito particolarmente dal contributo di Peloso, da quello di Ferrannini – Vaggi, da quello di Conforto. il primo è volto a una puntuale rievocazione storica della genesi della legge del 1904: il secondo, quasi a contrapposizione, alle attuali prospettive e criticità del lavoro psichiatrico e del suo contesto organizzativo; il terzo ci fa ricordare il ruolo centrale, anche se spesso implicito, che una ottica psicanalitica “senza lettino” ha nel cambiare la nostra percezione del disturbo mentale. Pisseri ci parla di una realtà particolare da lui vissuta, quella savonese; Bollorino e Maura, criticamente, di una “occasione perduta” dalla Clinica Universitaria di Genova.
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