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RECENSIONE Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio

20 Ott 16

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Si colloca nelle pieghe della storia la vicenda, poco nota, dei “matti per la libertà”, i partigiani che in relazione ad accuse riguardanti attività resistenziali successivamente derubricate a fatti privati od omicidi commessi nel periodo burrascoso dell’immediato dopoguerra furono condannati a scontare, dopo la pena, una misura di sicurezza in manicomio criminale. Essa si inserisce nel clima di diffidenza tra il partigianato comunista e i primi governi a guida democristiana, quando parte dell’apparato di potere fascista ritorna al proprio posto – affidabile presidio anticomunista all’inizio della guerra fredda – in particolare in settori delicati, quali i vertici dell’apparato della giustizia o di quello di polizia. La guerra è finita, ma le animosità persistono e nel 1955 si calcola che siano circa 2.000 i partigiani finiti sotto processo, la metà quelli condannati. Una minoranza di essi si avvale di una strategia difensiva volta a ottenere uno sconto di pena grazie al riconoscimento della semiinfermità di mente, e sconta pertanto una misura di sicurezza in manicomio criminale, condividendo con altri lo squallore di quei luoghi e il rischio di esservi dimenticati. La misura di sicurezza, peraltro, è ovviamente esclusa dai provvedimenti amnistiali.



Quanto ai reati, in alcuni casi si tratta di omicidi che risalgono a prima del 25 aprile, ma a posteriori non vengono considerati riconducibili ad azioni di guerra, e in questi casi la linea di demarcazione appare spesso labile. In altri casi si tratta di reati commessi nel clima che rimane di grande tensione del dopoguerra. Sono per lo più omicidi di quelli che De André chiamerebbe “senza pretese”, nei quali se certo destano compassione le vittime, analogo sentimento destano anche gli assassini, trascinati parrebbe all’atto dalla giovane età nella quale si sono trovati a dover impugnare le armi nella guerra civile e assumersi responsabilità politiche e umane soverchianti. Si tratta peraltro a volte di persone che si sono distinte per coraggio nel corso della lotta di liberazione. In non pochi casi, poi, la colpevolezza appare incerta, l’iter inquisitorio inquinato di pregiudizi e ostilità politica e talvolta vicende penitenziarie lunghe e dolorose si concludono dopo anni con l’assoluzione. Il Partito Comunista è da un lato preoccupato di contenere le spinte insurrezionaliste presenti nella base e di non cedere a strappi in avanti o alle provocazioni dell’avversario; ma dall’altro si adopera, pur in modo talvolta discontinuo, per non far mancare la solidarietà a questi sfortunati compagni. Si staglia in quest’attività per impegno politico e umanità davvero straordinari il segretario della Federazione di Aversa, Angelo Jacazzi, il protagonista di questa storia, che trova sponda a Roma in Umberto Terracini e in qualche caso in Giorgio Napolitano e Giancarlo Pajetta. Proprio Pajetta, reduce da una dozzina d’anni di carcere fascista, ebbe in un’occasione a scrivergli: «particolarmente noi, che abbiamo provato il carcere, dovremo fare qualcosa di più, dimostrare meno di aver dimenticato la nostra esperienza». Le orecchie a Roma, dapprima pregiudizialmente ostili, si fanno più sensibili quando il ministero della giustizia passa nelle mani di Aldo Moro e Oscar Luigi Scalfaro; e in non pochi casi gli sforzi di Jacazzi, patrocinatore di cause disperate, finiscono alla lunga premiati. Non esce complessivamente male, nella sua valutazione, il direttore del manicomio criminale di Aversa, Giovanni Amati, mentre il giudizio si fa pesante sull’ambiente complessivo dell’istituto. Degli internati colpiscono la mancanza, parrebbe, di ragioni psichiatriche propriamente dette per l’internamento; e in molti casi la grande dignità con la quale affrontano la dura prova. Una ”artrosi” gli impedisce di piegare la schiena, nonostante sia ciò che l’apparato repressivo vorrebbe da lui, scrive a Jacazzi ad esempio Gustavo Borghi. Attraverso la ricostruzione di queste disgraziate vicende il testo illumina, inoltre, la realtà carceraria e del manicomio criminale negli anni ’50, quest’ultima particolarmente interessante in questo periodo nel quale ha finalmente chiuso i battenti. Sono particolarmente toccanti la testimonianza dei Zelinda Resca, spedita in manicomio criminale da detenuta niente di meno che per trovare un clima più propizio alla cura di una tubercolosi contratta in carcere, sulla sezione femminile di Aversa (sarà peraltro, dopo essere passata per quel duplice inferno, assolta dal reato ascrittole); e quella di Guido Acerbi sul carcere di Portolongone.

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