Riassunto:
Riferendosi a documentazione processuale tratta dall'Archivio di Stato di Firenze, per il periodo della Repubblica fiorentina e del Principato mediceo, l'a. svolge alcune considerazioni su uno dei linguaggi e saperi sulla follia tra i meno noti, quello giuridico-processuale, nelle essenziali evoluzioni concettuali sue proprie.
1- L'ESPERIENZA GIURIDICA DELLA FOLLIA
Vorrei presentare alcune "storie", frammenti di vita sfortunata e oscura, nella Toscana della Repubblica e poi del Principato mediceo, tratti da un sapere antico sulla follia e sulla melanconia forse tra i meno conosciuti: quello giuridico, nella quotidiana attivita' delle aule di giustizia, e del potere di Governo. Queste brevi storie sono ricomprese in un lavoro che sto ultimando ed a cui ho dato, mutuandolo da un meno noto lavoro di Arlette Farge e Michel Foucault (1), un titolo provvisorio: "Storie di uomini folli. Una Antologia di esistenze nella Toscana tra Repubblica e Principato". Una delle storie e' gia' stata pubblicata, con finalità piu' complesse, in un libro di qualche anno fa scritto insieme a G. Magherini (2). Vi e' sempre il rischio che queste storie diventino alla fine solo notazioni erudite o apologhi divertenti ma inutili; potrei dire, per allontanare un po' questo rischio, qualcosa a commento, ma il piu' vorrei lasciarlo non detto, quasi sospeso, perche' e' importante non saturare impressioni, associazioni di pensiero in chi legge o sta ad ascoltare. Ma cos'e' la esperienza giuridica della follia e della melanconia? e quale contributo puo' dare una sua migliore conoscenza storica, non gia' a formare una impossibile completezza storiografica, ma ad una pur sommaria ricostruzione genealogica di quelle idee cardine intorno alle quali si sono sviluppate la teoria e la pratica clinica? Come si formano in ambito giuridico queste idee e questi concetti, e come diventano poi "predicato" di questo o quel soggetto? Vi sono atti criminosi che un soggetto puo' compiere o situazioni patrimoniuali importanti intorno ai quali si muove e indaga il giudice per pervemire ad una sua certezza di follia o di non follia o di gradualita' di follia. Dalla sua sentenza, dal suo giudizio possono derivare conseguenze gravissime, personali e patrimoniali. Vi sono meccanismi processuali di riconoscimento della follia in questo periodo molto piu' articolati dei paralleli quadri clinici dei testi di medicina e delle certezze del diritto, che fanno da sfondo e da autorita'. Vi sono idee indefinite e generali che si esplicano a livello di senso comune, in un processo spontaneo di mediazione che, per dirla con Marco Boari, ha un "minimo grado di precisione tecnica e scientifica e un massimo grado di pregnanza suggestiva e di comuni cazione" (3). Queste storie insomma, tratte da documentazione originale d'archivio, riportano concetti anche ambigui, elastici, polivalenti della follia, della melanconia, concetti dei quali possiamo seguire, in parte, le incertezze e le straordinarie trasformazioni nel tempo. C'e' una tipica figura del folle che il giudice deve costruire o riconoscere, e vi e' spesso nella ricerca di prove e di testimonianze una "coralita'" di impegno e di ricerca, specie nelle Comunita' piu' piccole e raccolte. Le testimonianze della gente sono a volte e a vario titolo intrecciate, e hanno un vago sentore di saperi piu' alti e specifici sulla follia, anche quello medico o quello teologico, ma in una rielaborazione popolare che quei saperi spesso incoerenti e non ordinati trasforma in qualcosa di diverso, tentando, insieme ai giudici, di cogliere il quotidiano di una esperienza, le varianti forti e le complessita' estreme di una vicenda, i tempi e le intensita', gli intervalli, i silenzi e le ripetizioni. Tutto quanto puo' insomma servire a formulare un giudizio finale. In uno straordinario processo di mediazione spontanea attraverso il "communis usus loquentium", e con la figura del giudice che, per un lunghissimo tratto delle esperienza giuridica, almeno fino alla meta' del '600, e' il solo vero "peritus peritorum". Se vi e' sempre un filo di collegamento con altri saperi, perche' il complesso sfondo storico culturale e' in gran parte comune e al giudice e al medico, e' al giudice e alla sua "ragione giuridica" che ogni altro sapere viene poi ricondotto, alla sua capacita' argomentativa, alla sua autonomia concettuale e di esperienza.
Ma tutto questo ci si puo' chiedere, ha una attinenza, una relazione con le straordinarie "immagini" della follia e della melanconia che appartengono alla tradizione iconografica fin dalle sue piu' lontane origini, testimonianza di dolorosa consuetudinbe dell'uomo con la sragione e la di sperazione? Io credo di si. Perche' in molte di quelle immagini penso che siano rappresentati, nel loro specifico e piu' alto raffigurare, in un diverso linguaggio, conciso, immediato, sovradeterminato, altamente simbolico, la stessa natura e complessita' di passioni, di dubbi, lo stesso carico di sofferenza, lo stesso confronto con quanto di noto e di ignoto vi e' nella vita dell'uomo e che i documenti, anche quelli giuridici, nel loro specifico e con le loro regole rivelano, se si ha la possibilita' e la pazienza di interrogarli. Ho cercato di utilizzare del resto le mie storie, in un confronto anche con le tante altre della mia personale "Antologia", enfatizzando solo tratti e comportamenti piu' consueti, e dimensioni esistenziali piu' visibili, quanto e piu' marcatamente rimasto nella memoria dei testimoni e dei famigliari, a creare quasi dei provvisori e semplificati quadri di distinzione e caratteri piu' stabili che tentino di definire il melanconico in vari periodi e passaggi storici. Credo che il sapere giuridico sulla follia e sulla melanconia abbia un peculiare valore di testimonianza storica che gli deriva dallo strettissimo contatto quotidiano con vicende umane di cui si cerca di cogliere l'enigma e la sconfinata complessita'.
2- LA STORIA DI GIUNTINO DA SIGNA (1366)
Ma veniamo alle nostre storie. La prima e' del 1366 ed e' tratta dall'archivio del Podesta' di Firenze (4). Giuntino di Ghino da Signa e' accusato di omicidio. Il giudice e i parenti e i testimoni si impegnano per stabilire se era davvero pazzo nel momento del crimine. Il rischio che correva era la pena di morte. In questa storia non si usano mai termini come melanconia o umore melanconico. I termini sono diversi e relativi al linguaggio giuridico del momento. Ma non abbiamo avuto molti dubbi che i comportamenti di Giuntino fossero quelli di un "melanconico" secondo le definizioni e le idee anche mediche del tempo, certo diversificate, anche fortemente, rispetto alle idee del nostro presente. Egli, si dice nei testi a verbale (che abbiamo tradotto dal latino) non riusciva mai "a stare fermo da nessuna parte", aveva sempre bisogno di muoversi, andava da un paese all'altro e spesso si nascondeva nei boschi, per giorni e giorni, non curandosi neppure del freddo crudele dell'inverno. Andava sempre scalzo come "un frate minorita", discinto e senza cappuccio. Si spogliava all'improvviso in chiesa o per strada e si metteva a camminare con le "brache in mano". Si gettava spesso nel fango "come fanno i porci", ed era solito andare per Borgo San Lorenzo frustandosi come un flagellante e percuotendosi e gettando pietre in preda forse ad oscuri rimorsi,a bisogni di penitenza e di espiazione che doveva esprimere. A volte "lo avevano visto predicare per strada come fosse Gesu' Cristo". Aveva l'idea fissa che vi fossero malie e fatture contro di lui. Piu' di una volta si era gettato dalla finestra o dal tetto della sua casa, e i fratelli spesso avevano dovuto tenerlo legato. Temeva sempre di essere avvelenato, e un fratello aveva l'ingrato compito di masticare prima il cibo a lui destinato. Ma Giuntino non si rassicurava nemmeno cosi'. I fratelli pensando che fosse posseduto da qualche cattivo spirito lo avevano portato un giorno, a dorso d'asino, all'Abbazia di Vallombrosa perche' li' c'erano alcune reliquie di santi e si potevano trovare degli abati esorcisti. Arrivato all'Abbazia Giuntino era ri- masto a lungo genuflesso e composto davanti all'altare, "quieto e scuro in viso", ma poi un abate li aveva tutti rimandati a casa dicendo: " egli non ha cattivi spiriti ma e' furioso e insensato e smemorato".
Questa e' una storia che trovo straordinaria. E' uno dei pochissimi casi giudiziari tramandati nei quali un soggetto folle parla, e le sue parole sono in qualche modo registrate da qualcuno nei registri processuali. E, ci piace pensare, non tanto per evidenziarne la follia, ma perche' sono frasi di grande intensita' emotiva. Le parole di Giuntino a volte sembrano preghiere, invocazioni: "perche' mi tenete qui, lasciatemi andare via"; a volte sono balbettii come quelli di un piccolo bambino: "baba baba baba". Altre volte Giuntino sembra piu' in contatto con la sua follia, cerca di dare parole alla sua immaginazione, ai suoi pensieri piu' dolorosi. Dice al fratello Gregorio:" le uova e le cose che mi hai dato quest'anno a quanta amarezza sono pervenute !", oppure: "Gregorio io sono accusato dalla Inquisizione, io credo di essere apostata", e anche: "di quale morte devo morire, perche' mi provocate tanti stenti ?", oppure: "uccidetemi voi con un coltello! Io venni con loro, tagliatemi il capo e non fate strazio di me". Non vorrei commentare queste frasi e le lascio alla immaginazione e alla sensibilita' del lettore. Siamo nel 1366. Nelle aule dei tribunali non si parla di melanconia, questo termine non e' quasi mai usato. Nonostante che il pensiero medico dalle sue origini e per tutto il Medioevo avesse cercato di individuarla, descriverla e curarla. Questa e' una considerazione che ci pare interessante, e su cui riflettere. I termini usati sono altri, e finore e' sempre stato cosi' nel linguaggio giuridico quotidiano: furiosus, mentecaptus, demens, fatuus, insanus. Termini in sostanziale sinonimia, senza stabili e nette differenze di significato. La follia e' un concetto giuridico fortemente unitario. Vi e' una diagnosi di identita' almeno nel sistema giuridico. Il concetto giuridico di follia e' determinato dalle regole e dalle necessita' del pensiero giuridico, dalle sue compatibilita' nonostante fenomeni e follie diverse, differenziazioni concettuali e di comportamento palesi, parole diverse. La sola demarcazione chiara e' magari tra follia e "stupidita'", tra follia e forme molto attenuate che non preentano tra l'altro pericolo per la tranquillita' pubblica e l'ordine sociale. Ancora nel 1609 del resto il giurista Jacopo Menochio affermera': "Illud primum sciendum est, quod etsi furiosus insanus et stultus inter se differant non tamen quo ad rem nostram differunt"(5). Enunciato fondamentale e di partenza, fin dalle prime formulazioni del diritto romano, e' che il furioso non deve essere punito delle sue azioni e deve essere sottratto alla pena. Il furore esclude la volontarieta' degli atti commessi e quindi la colpa. Il folle non ha ne' "voluntas" ne' "propositum". Fin dal diritto romano e giustinianeo si parla di "mens" come luogo del difetto del folle, si parla di carenza di intelletto, di mancanza di "sensus", di "affectus", di "voluntas". Vi e' nel furioso assenza e deficienza di qualcosa, un vuoto di qualcosa, e occorre un lavoro grande del giudice perche' si giunga alla interiorita' del suo animo contro le insidie della apparenza e del buon senso. Il parere del medico e' una delle tante prove, dei tanti segni da considerare, ma al pari di ogni altro parere 'tecnico' e' rielaborato dal giudice. Non ha un valore piu' alto o probante.
3- LA STORIA DI LORENZO DA FIRENZE (1572)
La seconda storia che vi racconto e' del 1572. E' la storia di Lorenzo di Firenze e proviene dall' archivio del Carcere fiorentino delle Stinche(6). Lorenzo e' uno di quei rari soggetti che ha parte attiva nel cercare di uscire dalla sua disperazione e dalla sua disgrazia. Egli supplica il Granduca di essere liberato dal carcere dopo quattro anni di detenzione. In una istruttoria che viene fatta dai Ministri del carcere si racconta la sua vicenda. Era stato carcerato perche' era "sopraffatto da humori melenconici causati per amor di una donna". Era entrato "in humore" perche' si era convinto che nella moglie di certo Giuseppe vi fosse la disponibilita' ad andare con lui ed a cedere alle sue voglie. Del resto Lorenzo andava dicendo a tutti che questa cosa gli era stata promessa nientemeno che da un cardinale. Si senti va in questo rassicurato, e allora non abbandonava giorno e notte la casa della donna e stava sui muriccioli d'intorno cosi' che il marito alla fine era ricorso al Magistrato degli Otto di Guardia che lo aveva trovato "gagliardamente nell'humore" e lo aveva rinchiuso in carcere "cosi' come si costuma dei pazzi et mentecapti". Troppi evidentemente erano, aldila' dei comportamenti di Lorenzo, i motivi di scandalo e di pettegolezzo, ed andavano rapidamente rimossi. In carcere, dopo non molto tempo, si era "purgato degli humori" e si era messo anche a rammaricarsi delle sue disgrazie e, tra l'altro, essendo povero, aveva imparato a fare qualche piccolo lavoro, ed aveva anche guadagnato qualcosa. I Ministri delle Stinche, dopo quattro lunghi anni di prigionia, lo esaminano trovandolo "giovane molto modesto e di poche parole et buone", e in grado di raccontare i fatti suoi con precisione e dovizia di particolari. In carcere, si testimonia da parte di tutti, non aveva mai alzato un dito per offendere alcuno ne' aveva mai fatto risse o tumulti con gli altri carcerati. Oggi il marito di quella donna dice di non volere che Lorenzo rimanga in carcere, anche per "non dar da dire al popolo", e del resto sa che i fatti erano accaduti per "relevazioni di humori che nel tempo sembrano purgati". Il parere di questo buon uomo del marito e' sufficiente, insieme alle varie testimonianze favorevoli a Lorenzo, per convincere il Granduca a farlo liberare. Questo e' un malinconico simpatico (e ve ne sono molti nella mia personale "Antologia"). Nasce il forte sospetto che la sua follia, scontata con anni di duro carcere, si fosse accesa e accentuata per il suo animo giovanile, e che qualche chiacchera di troppo, di chi aveva voluto intromettersi, avesse fatto il resto. Se la curiosita' della gente e il potere delle guardie degli Otto non fossero intervenuti forse se ne sarebbe andato per il mondo senza persecuzioni e sofferenze di quel tipo cercando di guadagnarsi onestamente da vivere. Era stato poi talmente bravo da non impazzire del tutto nel lungo squallore delle Stinche.
4- LA STORIA DI ANTONIO DA FIRENZE (1602-15)
L'ultima storia e' di pochi anni successiva. E' la storia di Antonio di Salvatore di Firenze (7). Siamo negli anni tra 1602 e 1615, e tanto sembra durare, dai nostri documenti, la sua vicenda giudiziaria e carceraria. Egli si trova da quasi tre anni rinchiuso alle Stinche per ordine del giudice criminale, a causa di "certi suoi humori melanconici" che gli avevano dato noia e lo avevano spinto a liti continue e violenze. Ora sta bene e fa una supplica al Granduca per essere liberato e per lamentarsi anche del fatto che una precedente decisione sovrana di liberarlo non era mai stata eseguita. Forse, lui pensa, per "impedimento di qualche suo avversario". Occorre una indagine del giudice ed occorrono testimonianze certe e precise di uomini degni di fede: il cappellano, il cancelliere, lo spedalingo del carcere. Loro fanno fede che e' "tornato in cervello", si confessa e si comunica con regolarita' e tratta quietamente con tutti. L'indagine e' insomma a lui favorevole e qualcuno ha la malizia di suggerire che gli era stato, nel lungo tempo di prigionia,
"usurpato tutto il suo dai parenti e da altri". Il Granduca comunque prende tempo, sembra non essere convinto sul da farsi, e decide di aspettare ancora un mese per vedere come la cosa si evolve e se Antonio e' davvero sano di cervello. Il dubbio che vi sia qualcuno in giro che vuole che lui rimanga in carcere si rafforza ancora di piu'. Poi infine Lorenzo viene liberato. Ma negli anni successivi subisce ancora tre o quattro incarcerazioni per la stessa ragione. In breve volgere di tempo egli sembrava alternare il medesimo furore del passato a periodi di perfetta sanita' e calma. Si perdono le sue tracce documentarie nel 1615 anno in cui viene ancora una volta scarcerato, ma, si dice, a condizione che non si avvicinasse alla casa di alcune persone con cui aveva avuto scontri e risse violente in passato (forse quelli che Antonio sospettava lo avessero rovinato?).
Siamo negli ultimi decenni del '500 e nei primi anni del '600 e il quadro storico e istituzionale e' cosi' profondamente mutato rispetto alla prima storia che ho raccontato, quella di Giuntino. Posso solo fare accenni sommari sulle cose che mi sono apparse piu' chiaramente trasformate. Permane certo ancora, in alcuni passaggi del linguaggio giuridico, una certa sinonimia tra le varie parole usate per indicare una condizione di follia. Ma piu' spesso vi e' una piu' marcata tendenza a distinguere e differenziare le parole e i concetti per cogliere lo specifico e il particolare delle diverse situazioni concrete. Vi sono gradi diversi di follia che si colgono e si registrano, vi sono molti soggetti non del tutto dotati di ragione ma nemmeno del tutto privi, con una gradazione possibile di responsabilita', di colpevolezza in tipi diversi di follia e in comportamenti diversi. La follia puo' essere spesso una "esimente" ma, a volte, e' solo una "attenuante". E' lo "arbitrium iudicis" a decidere. Il giudice mantiene il suo alto potere anche se (ed e' cosa a mio parere di grande rilievo), le testimonianze dei medici sembrano acquistare nel tempo un valore probatorio ed un prestigio maggiori (8). I medici non sono piu' solo testimoni come gli altri. Anche se non sono ancora veri e propri "periti". La finalita' e' quella di comprendere il livello di volontarieta' di una azione, di consapevolezza, di intenzionalita' dell'atto. Si usano i termini del sapere anche psicologico del tempo: "propositum", "animus", "intellectus", "voluntas", per ricondurre a qualcosa di piu' certo queste strane follie. Quasi si volesse pervenire a una "misurazione" del furore, ad una migliore valutazione dei suoi gradi e della sua intensita'. Parole come melanconia, umore melanconico e simili sono ora molto piu' frequenti che in passato. A volte si riceve quasi l'impressione che questi termini abbiano soppiantato i termini classici "furioso" e "mentecatto" per indicare ancora una volta una condizione generica e onnicomprensiva di follia. Piu' spesso pero' vi e' una attenta distinzione. E le conoscemze mediche allora vanno ad arricchire il vocabolario giuridico della follia, lo rinnovano, lo rendono piu' adeguato alle conoscenze dei tempi. Ecco allora tentativi di comprensione della melanconia piu' complessi, ovviamente nell'ambito della teoria umorale allora imperante, e descrizioni piu' ricche di sintomi e comportamenti e forme anche deliranti. L'umore melanconico, i suoi "vapori", si dice, possono generare impressioni visive, sensitive, uditive colorate dallo spirito offuscato, e appaiono "annerite" rispetto al buon senso. Le fantasie del melanconico sono tenaci e dure da vincere, si dice, perche' "il cervello e' secco e duro", e la bile nera e' un umore denso, adesivo e difficile da espellere. Il melanconico ha molto spesso idee fisse, preoccupazioni assurde sulla propria persona, immagina ad esempio di essere di vetro o di essere un vaso o un pezzo di ghiaccio e di poter andare in frantumi ad ogni contatto. O di essere un animale, un uccello o un lupo, o e' convinto di essere un imperatore o il papa o un cardinale, o di avere rane serpenti nello stomaco, di vedere spiriti o diavoli, o di essere morto. O desidera morire. Vi e' anche una melanconia religiosa ( descritta con dovizia di particolari, tra gli altri, da Robert Burton (9)) che si sostanzia di visioni estatiche, timori per la salvezza dell'anima, di irreale consapevolezza e paura dei propri peccati. Sembra a volte che il diavolo sia intervenuto con maligna determinazione, si sia impossessato con violenza dell'anima del melanconico, per perderla e corromperla, perche', si sa, il diavolo e' bravissimo nell'insinuarsi nell'umore di chi e' debole e non sa combatterlo con armi appropriate. Gli umori melanconici, alterati rispetto agli altri umori, hanno un potere grande nella vita e nella liberta' dell'uomo. Si presentano con forza e a volte improvvisamente, in una sorta di tirannico predominio, di sopraffazione, di gagliarda violenza, di "vessazione". Come se la mente e il corpo fossero scossi, violentemente agitati, tormentati, e il soggetto fosse trascinato via senza rimedio fuori dai confini abituali della sua esistenza. Il soggetto puo' essere sempre malinconico o puo' esserlo, con regolarita', tre o quattro volte l'anno, ed i casi piu' difficili o disperati sembrano quelli in cui vi e' abitudine e persistenza della melanconia. La melanconia presenta infatti frequenti ricadute ed e' sempre a rischio di rapida evoluzione in peggio. I giudici si vanno nel tempo convincendo della peculiare natura dei melanconici, e della necessita' di analisi piu' attente e stringenti. L'insigne giurista Benedetto Carpzov pensa che i melanconici non debbano considerarsi immuni dalle pene ordinarie e dai rigori della legge perche' molto spesso non sono del tutto privi di intelletto, e perche' in molti procedimenti non si e' potuta escludere la volontarieta' e la malizia delle loro azioni. Di qui a riconoscere che una loro colpa sia all'origine della loro stessa condizione di melanconia, della loro "tristitia", il passo e' arduo e vertiginoso, ma in fondo anche rapido e breve. In pieno '600 del resto ogni genere di follia si accompagna ad una sensazione, un'aura almeno, di colpevolezza. Lo stesso Carpzov scrivera': "la sola tristezza che per lo piu' nasce dalla colpa non puo' proteggere questi soggetti dalla severita' e dal rigore del diritto" (10).
Il mio intento era quello di dare un contributo per un approccio piu' ricco e complesso possibile e piu' problematico alla melanconia, come malattia e come temperamento, nel contatto con una fonte di informazioni particolare, quella giuridica e processuale, nella sua evoluzione storica. E al tempo stesso di rimarcare la straordinaria importanza delle fonti originali d'archivio (nel nostro caso quelle processuali, ma poi moltissime altre sono le fonti utilizzabili) per la ricostruzione il piu' possibile aderente ai fatti e alle cose degli itinerari storici della follia. Perche' la storia sia davvero insegnamento della relativita' del presente.
NOTE
1) A. FARGE- M. FOUCAULT, Le désordre des familles. Lettres de cachet des Archives de la Bastille, Paris, Gallimard, 1982
2) G. MAGHERINI- V. BIOTTI, L'Isola delle Stinche e i percorsi della follia a Firenze nei secoli XIV-XVIII, Firenze, Ponte Alle Grazie, 1992
3) M. BOARI, Qui venit contra iura. Il furiosus nella criminalistica dei secoli XV e XVI, Milano, Giuffre', 1983, p. 5
4) Archivio di Stato di Firenze, fondo Podesta', 1685
5) J. MENOCHIO, Consiliorum sive responsorum, Venezia, 1609, I, 82, n. 190, cit. in M. BOARI, p. 34
6) Archivio di Stato di Firenze, fondo Stinche, 302
7) ibidem, fondo Otto di Guardia, 1972
8) mi permetto rinviare du un mio lavoro, in corso pubbl., "Magistrati e medici di fronte al problema della follia nella Firenze di meta' Seicento"
9) R. BURTON, Malinconia d'amore, Milano, Rizzoli, 1981 (trad. it. di The anatomy of melancholy, 1621)
10) B. CARPZOV, Practicae novae imperialis saxonicae rerum criminalium, Lipsiae, 1739, q. 60, cit. in M. BOARI, p. 148
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