ESSERE QUASI NIENTE
Cita da ct su 4 Gennaio 2025, 7:05“Sono magro, molto magro, magrissimo, posso diventare ancora più magro, dimagrirò ancora, finchè dalla finestra volerò via. Ma il pensiero di questa metamorfosi spirituale in angelica farfalla mi dà nostalgie di crisalide, vorrei riavere un peso di terra.”
(G.Ceronetti)
Novecento (abbreviazione di Danny Boodmann TD Lemon Novecento), Bartleby lo scrivano, La vegetariana, Un digiunatore. Baricco, Melville, Han Kang, Kafka. Tutti hanno affrontato il tema complesso della difficoltà di vivere o del voler, ad un certo punto della vita, scomparire. Non uccidersi, che è diverso, ma semplicemente scomparire, non esistere più. Il suicidio in fondo è un atto attivo che richiede volontà e coraggio, un atto assertivo. Sparire invece, è un atto passivo e rimanda all’idea di lasciarsi andare, consumarsi, fuggire in qualche luogo senza però muoversi (che sarebbe di nuovo un’azione attiva). Scomparire significa dire di no, affermare una volontà negativa, eliminare sogni e desideri, Eliminare poco poco anche gli istinti vitali, fino a trasformarsi in un nulla. “Preferirei di no”, ripete Bartleby all’infinito; non voglio mangiare, non voglio curarmi, dicono le persone affette da grave anoressia nervosa, pensando da un lato di essere onnipotenti e di poter vivere anche senza cibo e nutrimento, dall’altro però volendo inconsciamente scomparire alla vista per il timore di non essere in grado di vivere. Ma qui si afferma un paradosso anche perché almeno inizialmente, il dimagrimento, il rifiuto, la rabbia servono ad affermare una volontà, una richiesta di essere visti, che poco a poco si trasforma in un automatismo, in silenzio, in un gelo sia affettivo che morale. Qui inizia l’atto di scomparire, del corpo, della mente e dell’anima. Come dice Massimo Recalcati, nelle vite affette da dipendenze manca il desiderio, la forza vitale del desiderio, sono vite spente. Pertanto, utilizzando una simbologia biblica, il Peccato è la paura di perdere il proprio talento e quindi sotterrarlo senza permettergli di dare frutto, senza moltiplicarlo. Questa è il concetto evangelico di colpa. Non riconoscere il proprio desiderio, assoggettarsi a quello altrui, non interrogarsi rispetto a chi si è e a cosa si vuole, vivendo una vita falsa e in questo senso malata. Una vita estranea a se stessi.
L’anoressia nervosa è spesso descritta come il tentativo di affrancarsi dal desiderio altrui, di ritagliarsi una misura propria della vita e di scoprire poco a poco la propria identità, anche se inizialmente l’identità è quella di una malattia. Tuttavia quella malattia è qualcosa di autentico, è qualcosa di proprio, che viene da sé e non dagli altri. Quindi è da ritenersi in qualche modo preziosa e non può essere sradicata come un male che non ha significato. E’ un germoglio di vita autentica che va innaffiato e aiutato a sbocciare in una vera vita, non più malata.
Novecento – il pianista sull’oceano- nasce su una nave e ivi muore senza essere mai sceso a terra per il timore di non saper scegliere nessuna delle vite che gli si sarebbero presentate. E quindi ha preferito vivere l’unica vita che conosceva e l’unico talento che conosceva, senza moltiplicarlo, senza metterlo a disposizione del mondo. Chiudendosi in modo narcisistico ed evitante e aspettando che fosse il mondo ad andare da lui.
Novecento era meravigliato e spaventato dall’infinità di scelte che presentava il mondo: “anche solo le strade, ce n’erano migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una/ a scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire…” Egli fa della rinuncia al desiderio la sua salvezza e rivendica la propria sanità mentale: “per salvarmi sono sceso dalla mia vita. Gradino dopo gradino. E ogni gradino era un desiderio. Per ogni passo, un desiderio a cui dicevo addio. Non siamo pazzi quando troviamo il sistema per salvarci. Siamo astuti come animali affamati. … I desideri stavano strappandomi l’anima. Potevo viverli, ma non ci sono riuscito. Allora li ho incantati. E uno a uno li ho lasciati dietro di me. Geometria. Un lavoro perfetto. … Ho sfilato via la mia vita dai miei desideri”.
Bartleby a sua volta ad un certo punto della sua vita inizia a opporsi, a scegliere in negativo, ripetendo stranamente e ossessivamente sempre le stesse parole come un mantra ipnotico: preferirei di no. Quanti di noi avrebbero il desiderio di farlo e non trovano il coraggio? In questo modo egli affermava una volontà, anche se negativa, affermava se stesso andando però inesorabilmente verso una chiusura sempre maggiore e verso la morte.
La Vegetariana, racconto capolavoro della scrittrice premio Nobel Han Kang, narra di una donna ordinaria, rinchiusa nelle rigide regole di una famiglia patriarcale e di un matrimonio di cui lei è spettatrice passiva. La donna più ordinaria del mondo, non vista e non apprezzata, che si affranca da tale condizione scegliendo di diventare vegetariana. E lo fa in modo brusco e improvviso, dopo un sogno pieno di sangue e di sensi di colpa, sogno che si ripete notte dopo notte, sogno di morte, che simboleggia la sua stessa vita-non vita. Diventando vegetariana e diventando ogni giorno più magra, si fa appuntita, si fa coltello pronto a ferire i familiari e se stessa, affermando così finalmente la propria volontà e la propria voce contro il padre padrone, contro il marito padrone, contro la sorella e la madre troppo assente. Scendendo le scale di questo incubo che la porta gradatamente alla morte, passando per cure forzate in ospedali psichiatrici, venendo diagnosticata come affetta da psicosi e anoressia nervosa, rivela un volto inedito e persino interessante, rivela la straniera che nessuno riconosce e fa paura, che tutti vorrebbero forzare a riprendere a mangiare, tornando cioè quella di prima. Ma la sua scelta ferma e decisa è qualcosa che sa di ribellione e purificazione, contro le violenze subite, per l’affetto mai ricevuto; un ideale trasformazione in qualcosa di più bello e più alto… un albero, un fiore. L’anelito a far parte del mondo vegetale abbandonando il mondo umano, sa di desiderio di rinascita e di espiazione. Una sofferenza che scuote e risveglia la sorella, immersa in un mondo estraniante e in una vita altrettanto non sua.
Fame e cibo sono due espressioni che simbolicamente rimandano al desiderio e alla vita. La fame ci parla di rivalsa, vendetta, cibo, amore, vita, riconoscimento, attenzione. Il cibo a sua volta può essere visto come un riempitivo per il corpo e per l’anima, come nutrimento alla base della vita, come salvezza, come affermazione, come lusso, talvolta come moda e rappresentazione di un ceto sociale, come show (la cucina è ormai alla base di svariati format di show televisivi e di serie TV, ci tiene compagnia e riempie il nostro tempo vuoto).
Il rifiuto del cibo, inteso come mettere a tacere la fame, come avviene nell’anoressia nervosa, acquista pertanto tutta una serie di significati simbolici: vendetta, potere, sfida, desiderio di morte, domanda di affetto o attenzione, affermazione di sé, desiderio di libertà, ricerca di autenticità.
Massimo Recalcati in uno dei suoi testi, citando Lasegue, parla di “potenza dell’inerzia” che caratterizzerebbe il corpo anoressico. Consumandosi, il corpo anoressico smuove l’Altro, smuove nell’Altro una mancanza. L’anoressia viene definita come “la scelta del niente”. Esattamente come avviene nei racconti e nelle storie che ho citato in questo testo. Un niente che però è comunque una scelta, una affermazione di vita che porta verso la morte a meno che non sia fermata e compresa dall’Altro.
Quindi in questo senso possiamo leggere la malattia come una sorta di autocura, come un movimento rispetto ad un prima immobile, caratterizzato da dipendenza o falso sé o mancanza di desideri propri. In fondo scegliere la malattia e’ fare un movimento, e’ desiderare di essere qualcosa, di appartenere a qualcosa. Anche se poi paradossalmente si resta intrappolati nella malattia come in una gabbia dorata, e deperendo, si muore poco poco al desiderio e quindi alla vita.
La malattia in quanto sintomo è un desiderio di essere visti, di essere ascoltati, e attraverso lo sguardo altrui di poter essere definiti in modo nuovo, di poter esistere in modo nuovo. Ricercare un’identità attraverso lo sguardo dell’altro, che -anche se temuto- e’ sempre sguardo di vita.
Kafka infine nel suo racconto Un digiunatore ci narra dell’orgoglio che proviene dal digiunare, visto come una performance, dal controllare la fame, dell’ammirazione che desta negli altri, del senso di forza che il Digiunatore ne ricava. Nel senso di onnipotenza che ne deriva, e come non si vorrebbe più interrompere il digiuno fino all’inedia fatale se non si fosse costretti da chi dirige lo spettacolo. Come sappiamo dagli studi neurobiologici il digiuno crea dipendenza, esattamente come una droga e proprio questo ci mostra Kafka, precursore di tali studi. Interrompere un digiuno di 40 giorni è sempre qualcosa di forzato, a cui il Digiunatore si sottomette suo malgrado, mentre preferirebbe proseguire fino alla fine. Cosa che avviene quando finirà la sua carriera all’interno di un circo che poco poco lo dimentica e lo abbandona alla consunzione del suo digiuno fino all’esito finale; le sue ultime parole saranno la risposta alla domanda “perché eri costretto a digiunare?” Risposta: “perché non riuscivo a trovare il cibo che mi piacesse”.
Di nuovo il problema della scelta, della soppressione del desiderio davanti a tante possibilità. Di nuovo la rinuncia fino alla morte piuttosto che la scelta. Scegliere la vita – con la sua complessità e ambiguità- a volte è più difficile che non scegliere di lasciarsi andare. Scegliere di riununciare a volte è più semplice.
Bibliografia:
Baricco A., Novecento, Feltrinelli ed
Kafka F., Un digiunatore, Adelphi, ed illustrata
Kang Han, La Vegetariana, Adelphi ed.
Melville H., Bartleby lo scrivano, Feltrinelli ed
Recalcati M. Clinica del vuoto, Franco Angeli ed.
“Sono magro, molto magro, magrissimo, posso diventare ancora più magro, dimagrirò ancora, finchè dalla finestra volerò via. Ma il pensiero di questa metamorfosi spirituale in angelica farfalla mi dà nostalgie di crisalide, vorrei riavere un peso di terra.”
(G.Ceronetti)
Novecento (abbreviazione di Danny Boodmann TD Lemon Novecento), Bartleby lo scrivano, La vegetariana, Un digiunatore. Baricco, Melville, Han Kang, Kafka. Tutti hanno affrontato il tema complesso della difficoltà di vivere o del voler, ad un certo punto della vita, scomparire. Non uccidersi, che è diverso, ma semplicemente scomparire, non esistere più. Il suicidio in fondo è un atto attivo che richiede volontà e coraggio, un atto assertivo. Sparire invece, è un atto passivo e rimanda all’idea di lasciarsi andare, consumarsi, fuggire in qualche luogo senza però muoversi (che sarebbe di nuovo un’azione attiva). Scomparire significa dire di no, affermare una volontà negativa, eliminare sogni e desideri, Eliminare poco poco anche gli istinti vitali, fino a trasformarsi in un nulla. “Preferirei di no”, ripete Bartleby all’infinito; non voglio mangiare, non voglio curarmi, dicono le persone affette da grave anoressia nervosa, pensando da un lato di essere onnipotenti e di poter vivere anche senza cibo e nutrimento, dall’altro però volendo inconsciamente scomparire alla vista per il timore di non essere in grado di vivere. Ma qui si afferma un paradosso anche perché almeno inizialmente, il dimagrimento, il rifiuto, la rabbia servono ad affermare una volontà, una richiesta di essere visti, che poco a poco si trasforma in un automatismo, in silenzio, in un gelo sia affettivo che morale. Qui inizia l’atto di scomparire, del corpo, della mente e dell’anima. Come dice Massimo Recalcati, nelle vite affette da dipendenze manca il desiderio, la forza vitale del desiderio, sono vite spente. Pertanto, utilizzando una simbologia biblica, il Peccato è la paura di perdere il proprio talento e quindi sotterrarlo senza permettergli di dare frutto, senza moltiplicarlo. Questa è il concetto evangelico di colpa. Non riconoscere il proprio desiderio, assoggettarsi a quello altrui, non interrogarsi rispetto a chi si è e a cosa si vuole, vivendo una vita falsa e in questo senso malata. Una vita estranea a se stessi.
L’anoressia nervosa è spesso descritta come il tentativo di affrancarsi dal desiderio altrui, di ritagliarsi una misura propria della vita e di scoprire poco a poco la propria identità, anche se inizialmente l’identità è quella di una malattia. Tuttavia quella malattia è qualcosa di autentico, è qualcosa di proprio, che viene da sé e non dagli altri. Quindi è da ritenersi in qualche modo preziosa e non può essere sradicata come un male che non ha significato. E’ un germoglio di vita autentica che va innaffiato e aiutato a sbocciare in una vera vita, non più malata.
Novecento – il pianista sull’oceano- nasce su una nave e ivi muore senza essere mai sceso a terra per il timore di non saper scegliere nessuna delle vite che gli si sarebbero presentate. E quindi ha preferito vivere l’unica vita che conosceva e l’unico talento che conosceva, senza moltiplicarlo, senza metterlo a disposizione del mondo. Chiudendosi in modo narcisistico ed evitante e aspettando che fosse il mondo ad andare da lui.
Novecento era meravigliato e spaventato dall’infinità di scelte che presentava il mondo: “anche solo le strade, ce n’erano migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una/ a scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire…” Egli fa della rinuncia al desiderio la sua salvezza e rivendica la propria sanità mentale: “per salvarmi sono sceso dalla mia vita. Gradino dopo gradino. E ogni gradino era un desiderio. Per ogni passo, un desiderio a cui dicevo addio. Non siamo pazzi quando troviamo il sistema per salvarci. Siamo astuti come animali affamati. … I desideri stavano strappandomi l’anima. Potevo viverli, ma non ci sono riuscito. Allora li ho incantati. E uno a uno li ho lasciati dietro di me. Geometria. Un lavoro perfetto. … Ho sfilato via la mia vita dai miei desideri”.
Bartleby a sua volta ad un certo punto della sua vita inizia a opporsi, a scegliere in negativo, ripetendo stranamente e ossessivamente sempre le stesse parole come un mantra ipnotico: preferirei di no. Quanti di noi avrebbero il desiderio di farlo e non trovano il coraggio? In questo modo egli affermava una volontà, anche se negativa, affermava se stesso andando però inesorabilmente verso una chiusura sempre maggiore e verso la morte.
La Vegetariana, racconto capolavoro della scrittrice premio Nobel Han Kang, narra di una donna ordinaria, rinchiusa nelle rigide regole di una famiglia patriarcale e di un matrimonio di cui lei è spettatrice passiva. La donna più ordinaria del mondo, non vista e non apprezzata, che si affranca da tale condizione scegliendo di diventare vegetariana. E lo fa in modo brusco e improvviso, dopo un sogno pieno di sangue e di sensi di colpa, sogno che si ripete notte dopo notte, sogno di morte, che simboleggia la sua stessa vita-non vita. Diventando vegetariana e diventando ogni giorno più magra, si fa appuntita, si fa coltello pronto a ferire i familiari e se stessa, affermando così finalmente la propria volontà e la propria voce contro il padre padrone, contro il marito padrone, contro la sorella e la madre troppo assente. Scendendo le scale di questo incubo che la porta gradatamente alla morte, passando per cure forzate in ospedali psichiatrici, venendo diagnosticata come affetta da psicosi e anoressia nervosa, rivela un volto inedito e persino interessante, rivela la straniera che nessuno riconosce e fa paura, che tutti vorrebbero forzare a riprendere a mangiare, tornando cioè quella di prima. Ma la sua scelta ferma e decisa è qualcosa che sa di ribellione e purificazione, contro le violenze subite, per l’affetto mai ricevuto; un ideale trasformazione in qualcosa di più bello e più alto… un albero, un fiore. L’anelito a far parte del mondo vegetale abbandonando il mondo umano, sa di desiderio di rinascita e di espiazione. Una sofferenza che scuote e risveglia la sorella, immersa in un mondo estraniante e in una vita altrettanto non sua.
Fame e cibo sono due espressioni che simbolicamente rimandano al desiderio e alla vita. La fame ci parla di rivalsa, vendetta, cibo, amore, vita, riconoscimento, attenzione. Il cibo a sua volta può essere visto come un riempitivo per il corpo e per l’anima, come nutrimento alla base della vita, come salvezza, come affermazione, come lusso, talvolta come moda e rappresentazione di un ceto sociale, come show (la cucina è ormai alla base di svariati format di show televisivi e di serie TV, ci tiene compagnia e riempie il nostro tempo vuoto).
Il rifiuto del cibo, inteso come mettere a tacere la fame, come avviene nell’anoressia nervosa, acquista pertanto tutta una serie di significati simbolici: vendetta, potere, sfida, desiderio di morte, domanda di affetto o attenzione, affermazione di sé, desiderio di libertà, ricerca di autenticità.
Massimo Recalcati in uno dei suoi testi, citando Lasegue, parla di “potenza dell’inerzia” che caratterizzerebbe il corpo anoressico. Consumandosi, il corpo anoressico smuove l’Altro, smuove nell’Altro una mancanza. L’anoressia viene definita come “la scelta del niente”. Esattamente come avviene nei racconti e nelle storie che ho citato in questo testo. Un niente che però è comunque una scelta, una affermazione di vita che porta verso la morte a meno che non sia fermata e compresa dall’Altro.
Quindi in questo senso possiamo leggere la malattia come una sorta di autocura, come un movimento rispetto ad un prima immobile, caratterizzato da dipendenza o falso sé o mancanza di desideri propri. In fondo scegliere la malattia e’ fare un movimento, e’ desiderare di essere qualcosa, di appartenere a qualcosa. Anche se poi paradossalmente si resta intrappolati nella malattia come in una gabbia dorata, e deperendo, si muore poco poco al desiderio e quindi alla vita.
La malattia in quanto sintomo è un desiderio di essere visti, di essere ascoltati, e attraverso lo sguardo altrui di poter essere definiti in modo nuovo, di poter esistere in modo nuovo. Ricercare un’identità attraverso lo sguardo dell’altro, che -anche se temuto- e’ sempre sguardo di vita.
Kafka infine nel suo racconto Un digiunatore ci narra dell’orgoglio che proviene dal digiunare, visto come una performance, dal controllare la fame, dell’ammirazione che desta negli altri, del senso di forza che il Digiunatore ne ricava. Nel senso di onnipotenza che ne deriva, e come non si vorrebbe più interrompere il digiuno fino all’inedia fatale se non si fosse costretti da chi dirige lo spettacolo. Come sappiamo dagli studi neurobiologici il digiuno crea dipendenza, esattamente come una droga e proprio questo ci mostra Kafka, precursore di tali studi. Interrompere un digiuno di 40 giorni è sempre qualcosa di forzato, a cui il Digiunatore si sottomette suo malgrado, mentre preferirebbe proseguire fino alla fine. Cosa che avviene quando finirà la sua carriera all’interno di un circo che poco poco lo dimentica e lo abbandona alla consunzione del suo digiuno fino all’esito finale; le sue ultime parole saranno la risposta alla domanda “perché eri costretto a digiunare?” Risposta: “perché non riuscivo a trovare il cibo che mi piacesse”.
Di nuovo il problema della scelta, della soppressione del desiderio davanti a tante possibilità. Di nuovo la rinuncia fino alla morte piuttosto che la scelta. Scegliere la vita – con la sua complessità e ambiguità- a volte è più difficile che non scegliere di lasciarsi andare. Scegliere di riununciare a volte è più semplice.
Bibliografia:
Baricco A., Novecento, Feltrinelli ed
Kafka F., Un digiunatore, Adelphi, ed illustrata
Kang Han, La Vegetariana, Adelphi ed.
Melville H., Bartleby lo scrivano, Feltrinelli ed
Recalcati M. Clinica del vuoto, Franco Angeli ed.