Abbiamo intervistato Marco Bellocchio, in occasione dell'uscita del suo nuovo film "La balia". La conversazione con l'Autore, che ha toccato varie fasi della preparazione del film: dalla commissione, alla sceneggiatura, dalla caratterizzazione dei personaggi, alle riflessioni "a posteriori" sulla riuscita della sua rappresentazione, è qui proposta suddivisa in paragrafi.
"La Balia" e Pirandello
D. Il suo nuovo film, "La balia", è – come tutti sanno – tratto da una novella di Pirandello. L'infedeltà al testo pirandelliano risulta evidente su più piani. Già nella sceneggiatura sono state introdotte alcune modifiche. Vuole dirci perché? In particolare, perché il protagonista della novella, avvocato con aspirazioni politiche, è stato sostituito con il prof. Mori, neuropsichiatra?
R. La risposta richiede riflessioni "a posteriori", ricostruzioni di percorsi del pensiero. Lì i livelli sono più d'uno. C'è stata la necessità di riportare il testo a immagini, a passioni che noi conosciamo – dico noi perché Daniela Ceselli è, con me, sceneggiatrice del film, della nostra esperienza, della nostra ricerca. Ovviamente, mi riferisco a tutta la mia storia, che parte – come conoscenza psichiatrica – dalla mia esperienza familiare e passa attraverso la conoscenza di Basaglia, per approdare alla ricerca di Fagioli e all'Analisi Collettiva.
Questo ci induceva a cambiare casacca a questo deputato socialista, che non ci corrispondeva, perché era un personaggio ridicolo, debole e ipocrita. Qui c'era invece il discorso di qualcuno che aveva un certo tipo d'impotenza a curare ed a guarire, che però sentiva fortemente questa sua incapacità e che veniva poi messo in scacco, insomma, veniva movimentato, agitato, scosso, dalla presenza della balia, e, prima ancora che da lei, dall'agitazione e dall'angoscia che gli procurava l'incomprensibile comportamento della moglie.
L'altro livello è quello di Pirandello stesso e del rapporto tra me – che conosco ed ho già lavorato su Pirandello – e la biografia di Pirandello, che sta sotto la vicenda de "La balia". Nella novella, è chiaro – per una specie di autolesionismo, per questo gusto di ridicolizzarsi che spesso è degli artisti, di deprezzarsi a livello della vita – che è lui il deputato socialista: qualcuno che non riesce a risolvere il suo dramma personale, che è appunto quello di vivere con una donna – con cui ha avuto figli etc – e al tempo stesso impedire che questa donna impazzisca, come poi e' avvenuto nella realtà. Quindi, evidentemente, una situazione separata, si potrebbe dire dissociata: tra l'essere artista da una parte e, dall'altra, trascurare una dimensione umana ricca, forte, che in qualche modo coinvolgesse anche la moglie impedendole di finire in un manicomio.
D. "La balia" si presenta con una struttura filmica e narrativa classica. Eppure, a vederlo – a mio parere, soprattutto nella prima parte – si coglie come un'altra storia, in grado di colpire la sensibilità di uno spettatore moderno. Vuole dirci qualcosa di più su questo racconto sotterraneo, che lei sembra proporre usando l'impianto realistico come una maschera?
R. L'operazione de "La balia", come prodotto, nasce da una commissione. Qualcuno mi ha detto: – vuoi fare un film tratto da un testo letterario italiano classico? – , è chiaro che chi fa questa proposta, implicitamente, chiede una specie di garanzia: il testo garantisce un risultato e limita, obbiettivamente, l'autore. Allora succede – e nel cinema succede molto spesso – che, nonostante i limiti di una struttura classica, si cerchi di andare più in profondita'. Come? Con lo stile, con quelli che sono i significati. Non e' che questi si producano ragionando, ma con tutta una serie di doppi fondi – che probabilmente una sensibilità più attenta può cogliere – che stanno nel montaggio, nella costruzione delle scene, più che nella sceneggiatura. Faccio un piccolo esempio: quando appare per la seconda volta il manicomio, ci sono le ricoverate che saltano dagli alberi. Ora, la costruzione della breve scena è nel senso di vedere questi due signori che discutono – anche di cose molto personali -, mentre è come se le rappresentanti di un disagio mentale fossero appollaiate sugli alberi e fossero fuori dall'inquadratura, distanti, escluse, ed improvvisamente, sia pure discretamente, apparissero e fossero anche per lo spettatore – attento a quello che dicono questi due medici – un elemento di sorpresa, e anche di non relazione tra gli uni e le altre. Questo è un esempio di come continuamente, per lo meno al livello delle intenzioni, si sia cercato di andare oltre, di sfondare il muro del racconto razionale. I risultati poi li giudica lo spettatore. Di esempi ce ne sono molti altri: l'arrivo della balia, la notte in cui la madre è incapace di rapportarsi con il bambino. Direi che, almeno a livello delle intenzioni, non c'è una sola inquadratura girata solo per spiegare qualcosa.
Psichiatria e Follia nel film
D. La psichiatria è molto presente nel film. In particolare, in alcuni dialoghi tra il più anziano prof. Mori e il medico più giovane, quest'ultimo esprime il proprio sconforto riguardo alla professione, mentre il primo cerca di riportarlo alle ragioni della "cura". Ma… quella era una psichiatria ottocentesca, che non poteva curare. A quale psichiatria si riferisce allora la dialettica tra i due personaggi? Che riferimento si può trovare ai problemi odierni della psichiatria?
R. Lì, direi, è proprio l'esempio di un dialogo rapportato all'oggi.
– Il dialogo in realtà era più lungo, noi abbiamo preferito sintetizzarlo, perché continuo a credere che il cinema sia più immagini che non parole -. Mori, in quel momento del racconto, è chiaro, contrappone all'altro una sua crisi personale e tiene conto dell'infelicità della sua vita privata.
Il giovane medico ha un atteggiamento generoso e fanatico, egli, sostanzialmente, è come quei medici del tempo maoista, che andavano per le campagne, o come i medici di quel periodo – che erano quasi tutti socialisti – che andavano, per esempio, nell'agro pontino a curare la malaria, e che identificavano l'intervento soprattutto nel soccorrere, nell'impedire, o nel ridurre, nel lenire, le spaventose condizioni economiche della povera gente di allora.
Mori, il professore, gli oppone la propria esperienza, che non è più soltanto esperienza di manicomio, ma è esperienza della sua vita. Lui dice: "come se la malattia mentale non esistesse" invece, la malattia esiste; implicitamente dice "ho cominciato a capire che esiste, non solo qui, ma anche a casa mia, e forse esiste anche in me stesso".
D. La situazione personale di Mori, la sua famiglia viene investita dalla follia/malattia della moglie, di fronte ai quali emerge l'impotenza/malattia del loro rapporto. Una follia ben diversa da quella manicomiale – lei sembra dunque dirci – ben peggiore. Di che follia ha voluto parlarci? Questa crisi ha una soluzione nel film?
R. Noi sappiamo che la famiglia: sia essa alto borghese, medio borghese, piccolo borghese, che l'istituzione familiare, in definitiva, produce follia.
Non è che io volessi fare un affresco storico. E' chiaro che lì, in quel contesto, la follia si vede anche nelle tende, nelle pareti della casa, ma è soprattutto nel rapporto tra marito e moglie.
L'uomo, cosa del resto abituale, avendo tutta una serie di risorse esterne: il lavoro, l'identità professionale molto alta, tende a coprire la propria freddezza. La follia , in questo caso, nasce dal loro rapporto. Certamente lui è ben responsabile . E' proprio la sua ..freddezza, potremmo dire in parole poverissime, che costringe questa donna a essere sola in se' stessa, e la solitudine – lo sappiamo -, il non aver rapporti con gli altri, è il peggior nemico. Quindi, lui favorisce la follia della moglie.
Pessimismo e caratterizzazione del protagonista maschile: il prof.Mori
D. Nel suo film, come lei stesso ha avuto modo di dire, tutti i personaggi, in particolare Mori, pur investiti da eventi drammatici, si limitano a "micromovimenti", impercettibili spostamenti, che alludono a possibilità che non portano a conclusione. Si rimane incerti se questi movimenti alludono a una speranza, molto simbolica, molto flebile, o siano da far rientrare nella rappresentazione, terribile, di qualcosa che in definitiva non può sostanzialmente trasformarsi. Come poi più' esplicitamente si vede nel personaggio interpretato da Michele Placido.
In che modo questa proposizione, in un certo senso pessimistica, rientra oggi nella sua ricerca di autore?
R. Qui però lo scavo è molto profondo. Potrei fare delle ipotesi, ma non so quanto contino. Nel senso che questo pessimismo può anche corrispondere, magari in uno stato di salute eccellente, a una situazione depressiva che uno attraversa malgrado i riconoscimenti alla propria identità. E' quasi che la tua identità di artista, di autore, di cineasta tendesse a crescere in questi ultimi anni, ma ci fosse in questo un elemento di crisi, che si rivela proprio nel film.
Le cose non si sanno lucidamente; si può pensare: – ma perché e cosa?- e magari si scopre dopo.
Da parte mia, come ho già avuto modo di dire, ho cercato sempre di contenere il personaggio di Mori, perché trovo assolutamente peggio creare un eroe inesistente, un eroe positivo che non è reale. E' meglio stare nella realtà.
"A posteriori" mi sono detto – poiché io non credo a una trasformazione all'americana degli attori – che se ho scelto quell'ottimo attore che è Bentivoglio, che però ha quelle caratteristiche: quel movimento, quella voce, quel passo, evidentemente ci sarà un motivo.
In tutto il film, prima un pochino nella sceneggiatura, poi nel film, ho cercato di animare il personaggio quanto sono riuscito a fare. Lì certamente c'è il personaggio della balia, che arriva con un suo coraggio, con una sua sicurezza interna ed è l'elemento che si contrappone all'immobilità e alla rigidità di Mori. Lui fa quel tentativo – alla fine – che è sincero, vero, reale di scrivere una lettera; più per sé stesso che per lei, che ormai è partita. Quasi a dire che la sua agitazione, la sua crisi continua. Non è uno che ritorna dentro la famiglia come se niente fosse. Ma poi di lui, di quale sarà il suo futuro, importa poco.
Infine, è chiaro: il sentimento di pessimismo, o di non pessimismo, è ancora una volta lo spettatore a sentirlo e a comunicare un suo stato d'animo.
Il personaggio della balia
D. E arriviamo al personaggio della balia. Nella opposizione tra morte e vita che alcune critiche hanno rilevato come centrale nel film, la balia rappresenta la vita, (cfr. la recensione su "Il sole 24 ore" di domenica 30 maggio di R.Escobar). Può dirci della sovversione, del disordine rappresentato da questo personaggio? Lei sembra accennare a un fatto di intelligenza.
R. In questo c'é proprio una differenza radicale da Pirandello. Lì si è voluto eliminare qualsiasi elemento veristico. Poiché io sono senz'altro sicuro – anche se lei parla poco – che le balie, allora, venendo dalla campagna, non si esprimessero in modo così preciso, così semplice. Quindi, la sua intelligenza si era potenziata in un rapporto misterioso che lei aveva avuto con un maestro, in carcere per attività politica – noi sappiamo che allora si andava in carcere per nulla, non è che si dovesse sparare, uccidere – . Questa è la retrostoria.
Lì , in casa Mori, è come se lei fosse una piccola barchetta che entra in un corso d'acqua molto movimentato, e però fosse capace di tenere una navigazione, e anzi, progressivamente, e sempre con estrema discrezione, si opponesse: prima di tutto alla madre e poi al padre. Quest'ultimo, per buona parte del film, ha un atteggiamento di mediazione, di conciliazione, poi c'è un momento in cui rifiuta di mandare via la balia, rimane solo con lei e sviluppa con lei un rapporto, in cui lo scrivere – di questo sono convinto – ha un'importanza accessoria: non è tanto importante che lui insegni a lei lo scrivere, ma è importante che lei si renda disponibile al rapporto, e lui abbia la possibilità di fare quelle piccole cose: che sono di prenderle la mano e di sentirla fisicamente, o di raddrizzarle le spalle, o di parlarle, o di guardarla negli occhi senza abbassare lo sguardo. Sono, appunto, quei micromovimenti che sono il carattere del personaggio, che certamente possono lasciare un'alone di pessimismo.
D. Durante le lezioni, c'è quel passaggio in cui lei , la balia, chiede: -Immagino. Che azione è? –
R. Si, tanti ne sono rimasti colpiti… Lo scrivere per lei è assolutamente strumentale: lei è innamorata di quest'uomo sconosciuto, lui – anche nella lettera che le scrive – è come se la incitasse alla libertà, e noi sappiamo che la libertà è fatta anche di cultura, di conoscenza, di sapere.
Il discorso su: – Immagino, che azione è? -, poi, è chiaramente un'allusione al mondo dell'interiorità, ai movimenti interni. Mori dà una risposta abbastanza corretta, ma il problema non è la correttezza della risposta, quanto il fatto che in quella situazione avvengono delle piccole reazioni, in lui e in lei, che nell'economia dell'intero racconto non avvengono mai. Questa è la realtà della storia.
Lei , nel tempo del film, è come l'albero maestro della dialettica che si svolge con Mori, però , tranne quell'accenno, nel finale – dove ha un pianto improvviso per la perdita del rapporto con il figlio che non è suo -, rimane sempre sempre sè stessa, la sua "immagine", potremmo dire, rimane quella, pur vivendo in modo completamente diverso dal solito.
D. Si, la scena finale, diciamo, dello svezzamento, quando viene rifiutata dal bambino. A proposito c'è un significato preciso nella presenza di due bambini nel film?
R. Veramente è una domanda che non mi sono posto. Non saprei, da una parte c'è la realtà storica: nella realtà sociale di allora, il bambino restava nel paesello, tranne in qualche caso, forse, di famiglie più progressiste che permettevano alla balia di tenere anche il suo bambino. Nel film, il fatto di non capire il comportamento della balia fa parte di un'incomprensione, di una incapacità di sentire, o di un soffermarsi agli aspetti esteriori della cosa, a un ordine che viene modificato: questa che esce, che rientra, non dice dove va. E' chiaro che per il personaggio della balia il fatto di voler allattare con affetto sia il figlio non suo che il figlio suo è quasi una scoperta, un colpo di scena sul finale, che dissipa un'incertezza, che potrebbe essere dello spettatore: se lei ha un'amante, se sta seguendo moti politici, o che cosa. Questo finale risponde al fatto che lei – pur comportandosi in modo generoso e corretto nei confronti del bambino non suo – ha – durante tutto il film – una sua realtà, che la moglie, ma anche il marito, non riescono a capire, e per la quale si agitano e reagiscono male. C'è un momento in cui Mori, vedendola con un ragazzo, ha come un delirio: verso la fine, quando vede i carabinieri che strappano i manifesti, poi lei, a colloquio con un giovane, e poi ci sono delle immagini rallentate, con una musica…come se non fosse tanto una reazione di gelosia, ma di perdita di rapporto con la realtà; è un turbamento abbastanza particolare, in lui, in un uomo così freddo. Quindi , il secondo bambino è come se fosse la rappresentazione e la conferma di una naturale, semplice capacità della balia di nutrire, di avere rapporto sia con l'uno che con l'altro. Può significare tante cose…
Bellocchio risponde a una critica al film, espressa in tv dallo psichiatra M. Fagioli
D. Massimo Fagioli, psicoanalista dell'Analisi Collettiva – ricerca a cui lei partecipa da decenni – nonchè suo collaboratore, in passato, in ambito cinematografico, le rimprovera – molto affettuosamente – , a proposito de "La balia", di aver perso qualcosa della rivolta rappresentata dai "Pugni in tasca". A quanto pare (il riferimento e' alla trasmissione "Clochard", andata in onda l'11 giugno scorso, per l'emittente romana "Telesimpaty"), non è tanto un invito a tornare alla rivolta ideologica della giovinezza, ma la critica riguarda proprio la natura, la forza delle immagini di quel film, che ha ormai più di trent'anni. Cosa risponde?
R. Va bè, sono domande, provocazioni, complesse. E' chiaro che Fagioli si riferisce a "I pugni in tasca" per un certo tipo di brutalità potente. "I pugni in tasca" è proprio il film della rivolta e della sparizione della madre, in cui il protagonista perderà la sua stessa vita: insomma, è una rivolta che finisce male.
Però, evidentemente, lì ci sono immagini forti. Questo dice anche un'altra cosa: che la rivolta, non è necessariamente legata ai finali positivi. Ci può essere un film con un finale tragico, che però ha in sé immagini potenti, che risulta più di rivolta che non un film correttissimo e positivo, che è talmente modesto nel rappresentare e nel fare immagini che non ha nessun valore.
L'altra cosa, facendo una riflessione più di interpretazione, di analisi, potrebbe corrispondere a quanto si diceva prima: fatti storici, complessi, mi hanno portato a un momento di invisibile crisi; Fagioli mi pare che la individuasse anche nel fatto di aver fatto lui un film: il che, ha portato a un confronto – veramente aperto e radicale -, diverso dai rapporti che avevamo avuto nei tre film ai quali abbiamo collaborato: "Diavolo in corpo", "La condanna", "Il sogno della farfalla". Lì (nella nostra collaborazione, ndr), c'era, non dico una mediazione, però – giustamente, in misura diversa – era un lavorare insieme che portava a non distinguere perfettamente quale fosse dell'uno quale fosse dell'altro – intendo, l'apporto, le immagini, i movimenti -. Qui, Fagioli ha fatto un film e in qualche modo il confronto è netto: anche lui fa il cineasta, anche lui fa immagini cinematografiche. Di fronte a questa sfida, a questa provocazione, le reazioni possono essere due – potrebbero essere anche duecento, però…- Una , di chiudersi, di difendersi, e quindi inevitabilmente di ritornare all'antico, che forse, in parte, ma solo in parte, potrebbe essere il caso de "La balia", nel senso della ricostruzione del passato – anche se poi la ricostruzione del passato ha un'importanza relativa -, ma più che altro nel senso del pessimismo. – Ci tengo a non parlare di ricostruzione del passato, perché "La balia" non é un film storico/illustrativo, anzi, se mai, é un film intimistico che parla del presente -. Però (ne "La balia", ndr), ci può essere il sentimento di una crisi, che è vissuta più nella chiusura che nel confronto.
Perchè invece si può vivere la crisi in tutt'altro modo: in un tipo di battaglia aperta: il che, non significa raccontare di rivolta o di rivoltosi – come lo si faceva in passato -, che tirano le pietre oppure si ribellano – sia nei comportamenti personali che in politica -, ma fa capo a un sentimento della rivolta che sicuramente è presente nel film di Fagioli.
Ne "Il cielo della luna", al di là dell'originalità delle immagini, che sono immagini inconsce, la rivolta è proprio nel modo di Fagioli di fare cinema – che non è solo un discorso tecnico, nel senso che film così ne sono stati fatti tantissimi -, in come lui fa le immagini e nelle vicende dei personaggi che inventa e descrive. E' chiaro che lì, senza colpo ferire, senza che nessuno dia un pugno o uno schiaffo o strappi qualche cosa, c'è un'"essere contro" un'istituzione, una vita istituzionale.
La cosa più difficile è che – come ho già detto – sarebbe assolutamente patetico tentare di ritrovare la rabbia de "I pugni in tasca". Il discorso della rivolta è diverso dal discorso della rabbia: la rabbia e' un affetto ben rispettabile – tanti non hanno neanche quello -, però, se io andassi a pescare lì sarebbe un fallimento. Il problema è che la rivolta – quello è il difficile – va rappresentata e scoperta con delle immagini che superino il '68.
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