L’interessante operazione narrativa che racconta il pensiero di Cartesio è anche un viaggio straniante meta-narrativo: chi ha scritto questo falso inedito, se il ‘ritrovatore’ è Daniele Ramadan? Vengono in mente certe riflessioni sulla retorica del narratore onnisciente vs quello inaffidabile. Il viaggio di Cartesio è un viaggio intorno al Dubbio costante, al vuoto, e proprio questo è il motore di quel desiderio di conoscenza che è la filosofia. Un viaggio narrato o una narrazione filosofica, poco importa etichettare un libro che ci traduce nell’epoca in cui inizia a formarsi quel concetto di ‘Io’ inteso come punto di vista critico contro i dogmi della Scolastica.
Il mondo è favola, scrive Cartesio citando i suoi poeti preferiti, e il romanzo è anche una ricognizione antropologica nel regno delle macchine umane, degli automi: la realtà aveva ancora bisogno di una favola che facesse da modello per spiegarla, laddove i sensi non potevano. Operativa è la continua metafora, luogo in cui ogni narrazione del pensiero e della metafisica può scendere a coinvolgere le percezioni e i corpi terreni.
Il pensiero di Cartesio, in questo libro, si evidenzia come un’estensione del sogno nella natura, o meglio dell’immaginazione nella natura. Solo, il titolo, e la solitudine è anche la condizione del personaggio filosofico che anima questo romanzo, il luogo mentale che ospita la genealogia di un momento all’interno di una più vasta storia delle Idee, di cui Cartesio individua, di certo, un momento saliente.
Il pensiero si svolge e muta mutando la stessa forma narrativa: come Cartesio-personaggio distrugge quanto ha affermato poco prima, così il narratore mette in crisi le certezze del lettore.
Il mondo esterno per me divenne la mia narrazione: e lo stesso romanzo, suddiviso in tre sezioni, diventa la narrazione del pensiero nel suo svolgersi, nel suo accadere. Tre momenti, tre epifanie esistenziali che sono pure le cesure di una postura (involontaria impostura) mentale: la giovinezza moribonda durante gli anni dai gesuiti; il taglio-stacco per cui Cartesio si getta nel mondo come Spettatore, alla ricerca della tensione poetica della guerra e della morte, periodo di thanatos, periodico numero che non si avvicina mai a quell’uno della verità che il Nostro tenta di scoprire; la costruzione di una filosofia simultanea a quella di un eremo: software e hardware, forma e sostanza – quest’ultima corrispondenza cartesiana tra la futura res cogitans e res extensa, tra geometria dei luoghi interni e posizione degli ambienti esterni, è ravvisabile anche nella costruzione retorica e narrativa del romanzo: la narrazione alterna descrizioni paesaggistiche precise e puntuali a introspezioni che mettono a nudo l’ambivalenza dell’essere umano. Per tutto il tragitto espositivo, visto che di una vera e propria installazione di momenti e immagini si tratta, anche, per quanto le immagini siano anche semplici nomi in grado di donarci visioni elaborate dell’animo umano, per tutto il cammino di formazione del pensiero, l’autore riesce a farci dubitare che l’inedito sia un falso: a tratti pare di immergersi e scrutare la vita dal punto di vista geometrico del Filosofo.
Paiono, per tornare alle tre sezioni che costituiscono il romanzo, una scansione tra momenti logico-esistenziali: tesi, antitesi, sintesi: forte è la tentazione a leggere lo svolgimento del pensiero cartesiano alla luce delle successive filosofie dialettiche, e invece la bellezza del testo è il cortocircuito dell’impresa cartesiana votata alla circolarità viziosa: è indimostrabile che nella macchina-mondo ci siano altre menti oltre la mia, è indimostrabile la macchina-mondo fuori dalla mia mente: cruciale e crudele consapevolezza della solitudine sperimentabile pure oggi.
Sicché Cartesio non può che restare sulla soglia dell’altro e dell’Altro, nel limine del rispetto dell’altrui immaginazione. Solo, seul, evoca la soglia, seuil, e anche il solum, il suolo. Filosofia dello spazio, della soglia, della solitudine e del suolo: l’impossibilità di percepire la macchina dell’altro, nella consapevolezza del ritratto finale, nella percezione dell’orma dell’altro sconosciuto.
C’è tanta acqua in questo romanzo, molta madre in questo suolo assolato. E forse ci pare anche una psicoanalisi ante litteram quell’ascolto alla principessa Elisabetta: Insieme, rimanendo al sicuro ognuno nel proprio luogo, proseguivamo questa grande cura della mente leggendo Seneca, Platone, Machiavelli. Un ascolto del proprio desiderio che conduce Cartesio al mistero vorticoso della morte della madre. E la morte è stata così allucinata nella giovinezza, da diventare il motore della seconda epifania esistenziale del filosofo: egli nel teatro del mondo si trasveste da spettatore-soldato e aspetta di trovare la risposta, o la domanda, la domanda d’amore: chi sono? come posso riconoscere la verità mia e del mondo?
Il libro si lascia interrogare sia nell’enunciato del personaggio Cartesio – ambiguamente attratto dall’innominabile Das Ding, godimento della madre negato dalla prematura morte (della madre), causa probabile della lunga melanconia dell’adolescente Cartesio, incapace a elaborare il lutto primordiale e trasformatosi atto di accusa contro l’apparenza del mondo, Dubbio radicale, gorgo, vortice cui origina il sistema universale: l’intero cosmo non è più che il giro di un vortice – sia nell’enunciazione del ‘ritrovatore’ Daniele Ramadan che resta sempre discosta, e permane come resto, residuo di consapevolezza, oggetto parziale della conoscenza che attrae lo sguardo oltre la filosofia fino alla filologia di un ritrovamento, un trovamento, un oggetto trovato, in quanto inventato.
Termina con una finestra il resoconto scritto dal secondo valet di Cartesio: dunque il manoscritto è stato redatto dal valet?
Quel dubbio cartesiano s’insinua nella foggia del romanzo. Quella finestra è uno spazio di fuga alla solitudine con cui pare concludersi il viaggio del pensiero. Ogni cosa è calcolabile e quantificabile, ci pare di sentire un matematico dell’inconscio del ventesimo secolo (Ignacio Matte-Blanco), semmai si possa ancora credere a una scansione temporale di un prima e di un dopo, o di un’estasi cronologica. Ogni cosa può essere numerata: eppure questo romanzo, questo viaggio filosofico, ci lascia immaginare oltre e altro: mai come oggi, epoca di false news e narcisismo (immaginario) esasperante, torna utile chiedersi quanto sia reale e quanto sia favola quel quotidiano che diamo per scontato.
INTERVISTA CON L’AUTORE
Gianluca Garrapa: Mundus est fabula: quale visione ha un filosofo, oggi, del limite tra reale e virtuale?
Daniele Ramadan: Se prendiamo un qualsiasi dizionario filosofico di appena venti anni fa, il termine “virtuale” – incredibilmente – non compare, e se lo troviamo è sinonimo di potenzialità, di qualcosa che ha la capacità di realizzarsi ma non è compiuto (in diversi gradi, Aristotele dixit). Se lo mettiamo in relazione con la realtà, allora stiamo dicendo che è compiuto e attuale ciò che possiamo dire essere reale. Eppure, oggi, la dicotomia reale-virtuale è diventata eccepibile, persino incomprensibile. È necessario che la filosofia vada colmando questo iato nel rapporto tra soggetto e oggetto e tra mente e corpo stessi. Infatti, i piani cui appartengono i due termini si sono dilatati, compenetrati, e hanno creato un’unica dimensione ancora in divenire. Il contraltare del reale non è più lo stadio di potenza, ma è soltanto l’irreale nella sua massima, e nichilistica, accezione. Il “virtuale” allora va trovandosi in relazione di binomio con qualcosa che diremo “materiale”, nel suo senso più ampio, il quale a sua volta è sceverato del reale. Ciò che è virtuale viene considerato a tutti gli effetti una realtà, e presumibilmente lo sarà sempre in maniera maggiore. Il limite successivo si configura con quello imposto dalla materia degli oggetti e non più dalla realtà in quanto tale, poiché quest’ultima si è separata dalla sua struttura mondana proprio con Cartesio, ma non dalla dimensione sensibile del soggetto. Basti pensare alla virtual reality sempre in costante perfezionamento, la quale sembra destinata a investire totalmente la sfera dei sensi pur abbandonando la materialità, eccezion fatta, almeno inizialmente, per i supporti cibernetici. Ma anche quelli, che potremmo trattare come una sorta di residuo materiale, siamo autorizzati a pensare che vorranno essere superati in qualche maniera. La materia degli oggetti dunque, e non il reale, è oggi l’ultimo limite per il virtuale: il limite di realizzarsi come condizione autonoma dell’esperienza.
Senza andare nello specifico, penso alle teorie per una mente computazionale, a David Marr, ma anche al funzionalismo di Putnam, secondo i quali la mente è paragonabile al funzionamento di un computer e i processi mentali si riducono a calcolo formale di simbologie senza considerare la qualità delle esperienze – la qualità è riproducibile artificialmente? Se si riuscisse (leggi anche Silicon Valley) a trasferire a piacimento la coscienza eludendo il corpo originario, si potrebbe davvero separare la mente dal corpo umano, e diventerebbero rispettivamente software e hardware umani. Dove il corpo perderebbe la sua importanza preminente e si ridurrebbe via via, fino a diventare mero supporto per implementare un software. In questa risposta si possono dare solo degli spunti per una fabula, ma la posta in gioco è alta perché verrebbe valicato il muro della filosofia e con esso quello della vita – giacché filosofia è vita. Inoltre, quanto detto non vale soltanto per il soggetto ma anzi si sta già riversando sul mondo esterno. Qualora si riuscisse a oltrepassare il limite della struttura materiale e fisiologica degli oggetti, anche la mondanità verrebbe ricondotta a software e cesserebbe di dirsi oggetto. Se la separazione avvenisse, si renderebbe necessario delineare ex novo, e tuttavia ex ante, il nuovo confine di realtà, virtualità, materialità; ma anche di quelle dicotomie filosofiche come materia e forma, atto e potenza, fenomeno e noumeno (kantianamente e non); ancora, quandanche reggesse la coppia noema-noesi, il soggetto e l’oggetto su cui si fonda sarebbero comunque da ritrattare. Cosa sarebbe infatti, a questo punto, un fenomeno che si manifesta, che si dà a un soggetto? Rispondere alla domanda è imprescindibile per orientarsi nei nuovi e diversi gradi di presunta realtà – realtà è ora o lo era prima? La nuova situazione polemogena sarebbe così prospettata: i software disincarnati e dis-materializzati insieme agli hardware umani e mondani sarebbero liberi di muoversi a piacimento, virtuale e materiale si mescolerebbero a piacimento. La coscienza di un uomo implementata su un albero? Quella di una scimmia relazionata con un “io” umano e entrambe “girano” su un terzo supporto? La nostra coscienza conservata per sempre in un calcolatore? Per Sartre, il noema, vale a dire l’orizzonte oggettuale dei fenomeni, non si dà in sé per sé ma sempre per una noesi, cioè per un soggetto. Ma cosa accadrebbe a questo rapporto esperienziale se l’uomo diventasse mondo e il mondo, a sua volta, uomo? Come detto, si dovrebbero modificare i concetti. E poi il gran finale: superati i corpi originari si cercherebbe di abbandonare anche l’ultimo supporto materiale. Cosa accadrebbe se tutto il mondo e tutte le menti come oggi li conosciamo, forieri di speculazioni secolari, diventassero interamente virtuali, ovvero riproducibili tramite una rete di connessioni?
Concludo. Oggi il “limite” della realtà è già stato valicato, ma non quello della materia. Questo però non significa far pendere l’ago della bilancia verso quei materialismi invalsi, secondo i quali la mente si ridurrebbe al cervello biologico e gli stati cognitivi sarebbero interamente riconducibili a stati fisici del cervello stesso, ergo mente uguale illusione. Il vincolo del materiale impone piuttosto il ritorno a una moderazione tra i termini. Lo stesso dualismo cartesiano andava risolvendosi verso questa moderazione, pur senza sciogliere l’aporia di come una sostanza mentale immateriale potesse entrare in relazione con la materia del corpo. Con moderazione tra i termini mi riferisco a un “io” veramente incarnato, e vivo, poiché non sembriamo essere meri nocchieri su un vascello (uso Cartesio che usa Platone). Quando si parla di virtuale e materiale – se non si vuole considerare l’aspetto metafisico, le rivelazioni religiose, e si vuole rimanere sul piano dell’esperienza umana – il punto di riferimento può essere il leib, ossia un amalgama inestricabile di mente e corpo che per me è la cifra della dimensione vivente nel suo complesso, non solo umana. La fabula cartesiana, dunque? Rispondendo a questa domanda, spero di aver dato un’idea di come si potrebbe costruire una fabula della nostra era, oggi. Che si tratti di narrazioni avveniristiche o di un presente da affrontare poco importa qui. La favola consiste nel perdersi tra i termini in gioco e nel non riuscire a moderarli, proprio come il giovane e malato Descartes non riusciva a distinguere la veglia dal sonno nel suo letto di collegio dai Gesuiti. Esattamente in quel letto è nata la favola moderna. E la favola è, oggi, chiamata progresso.
G. G.: Cosa conosciamo realmente in una società delle immagini che costruisce financo il processo del pensiero spacciandolo per nostro? Mi riferisco a quel tipo di oggetto-pensiero che è divenuto feticcio capitalista di consumo, infondo non mi sembra che ci siano più quelle grandi narrazioni filosofiche, cartesiane o, all’estremo opposto, deleuziane: dimmi che mi sbaglio!
D. R.: Questa domanda è collegata direttamente alla fabula precedente, ma è da “un milione di dollari” e io, socraticamente, non posseggo tale somma. Mi vengono in mente quei filosofi che parlavano di tecnica in rapporto alla dimensione umana e che vanno a costituirsi come incunaboli del problema. Tra tutti Heidegger: “il mondo si trasforma in un totale dominio della tecnica e l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento”. Può darsi che non lo sarà mai. Può darsi che la mente sia destinata a essere alterata a piacimento da input esterni calcolati, che il pensiero possa diventare una distopia non-pensante. Univoco, globale, in una parola: controllabile. Questo appare senz’altro possibile se si segue una concezione computazionale della mente, già delineata nella risposta precedente. Ci sono però altri filoni che considerano il rapporto mente-corpo-ambiente fondamentale per il processo cognitivo e quindi introducono altre variabili che rendono complessa l’induzione di pensiero – il mio corpo e il mio vissuto sono unici e questo rende in certa misura unica la mia mente e impervia la volontà da parte di terzi di dominarla. Fatta questa dovuta precisazione, mi sembra che la tecnica giochi un ruolo fondamentale nel meccanismo che stai riscontrando, senza chiedersi qui se essa valichi in effetti il confine dell’umano e in quali situazioni specifiche. Ai filosofi intellettuali stessi, oggi, viene spesso imposto di appiattirsi alla dimensione di tecnici, anche a causa della interdisciplinarità di molti concetti sublimata dalle cosiddette scienze cognitive. Ecco perché le grandi narrazioni filosofiche fanno fatica a emergere, soprattutto quando la filosofia dovrebbe essere un libero flusso di pensiero e invece diventa un saggio schematico che deve essere accettato all’interno di uno stretto paradigma, condiviso da una comunità che in ultima istanza è una comunità tecnica (ciò che Khun teorizzò per la scienza sembra valere anche qui). Tuttavia è bene emendarsi sempre da un pregiudizio generazionale quando si parla di nuove prospettive, di futuro insomma.
Ho tirato in ballo la tecnica perché ci si può chiedere: cosa ci sarà oltre/dopo la società delle immagini? Oltre la visione delle immagini ci sono le rappresentazioni, tutte, degli altri sensi – cioè le sensazioni che generano emozioni che generano vita. Se è vero che le nostre decisioni possono essere indotte in parte da immagini scelte, cosa accadrà quando la rappresentazione della manifestazione mondana fornita dalla tecnologia sarà totalmente sensibile? Si tratterà di vera esperienza, quella? Parleremo di vera conoscenza? Oppure il soggetto si ritroverà a ribellarsi contro se stesso?
Come si vede, il pensiero-feticcio odierno cui ti richiami è solo il primo passo. L’ordito filosofico dovrebbe dipanarsi in questa direzione per non rimanere connivente alla dimensione tecnica, oggi asservita alla logica economica in quanto essa è utilizzabile, ossia è strumento in vista di un fine (di nuovo Heidegger). Mi rendo conto di averti rigirato la domanda così com’era, e peggio, di averne poste delle nuove. Allora riprendo il procedimento scettico di Cartesio come antidoto: si comincia con il dubitare di tutte le conoscenze inveterate che si prendono quotidianamente per vere. In questo modo, o si verrà spazzati via dal dubbio, oppure si risorgerà (vedi anche Rosacroce) con un più grande ego, poiché divenuto un’evidenza. Infatti, quandanche dubitassimo di tutto, ci sarebbe comunque qualcosa indefettibile a sopravvivere, sopra la quale rifondare un nuovo mondo: colui che sta dubitando (alla voce Gesuiti, esercizi spirituali dei).
G. G.: Nella terza sezione del libro c’è l’incontro di Cartesio con la principessa Elisabetta che mi ha fatto pensare a una psicoanalisi ante-litteram. Aldilà della mia percezione, di parte, fra l’altro, cosa ne pensi, appunto, della cura dell’anima, della psicoanalisi? Mi spiego: partendo dal principio della solitudine cartesiana (la favola era questa: aver trovato la verità e non poterla dimostrare in maniera chiara e distinta fuori di me, anzi ne rimanevo prigioniero, c’è lo spazio per un solo io e la mia certezza non può essere tale anche per un’altra mente), non solo la psicoanalisi, ma proprio la condivisione tra me e gli altri non potrebbe sussistere. Che ne pensi?
D. R.: A coniare il termine solipsismo – solus ipse – fu Kant, non lo stesso Cartesio. L’accezione di solipsismo non era soltanto volta ad affermare l’esistenza assoluta e invalicabile della propria coscienza ma conteneva delle imputazioni di egoismo. Descartes viene dunque accusato con un passaggio dal livello teoretico al livello morale. Dopotutto, l’accordo della praxis con la teoria è materia kantiana.
Cartesio e Elisabetta di Boemia ebbero uno stretto legame, inusuale all’epoca. Entrambi condividevano una vita solitaria e, da un certo periodo in poi, anche una simile delusione solitaria. Si possono avere due chiavi di lettura della vicenda, entrambe legittime: il legame tra il filosofo e la sfortunata principessa fu un esempio di superamento del solipsismo per i suoi straordinari sviluppi; oppure, d’altro canto, si può pensare che, curando Elisabetta, Cartesio cercasse di alleviare una parte di sé.
Credo che per comprendere quanta portata abbia l’altro su di noi, si dovrebbe invece venire in contatto con un’alterità estrema, alla quale presenza non si può non avere una reazione. Ma l’effetto globalizzante odierno rende simili tutti i soggetti, i loro costumi e quindi anche i loro vissuti. Questo sembrerebbe un passaggio positivo per il superamento del solipsismo e tuttavia la presenza di molti individui simili e vicini a noi crea un appiattimento del rapporto con l’altro. Produce un distacco apatico e una sorta d’insuperabile “campo medio”, come avviene per alcuni sistemi in Fisica. Non c’è dubbio che considerando l’alterità come inaccessibile, o peggio come una nostra idea, la psicoanalisi perda di efficacia. Dal mio punto di vista, ciò cui abbiamo difficoltà di accesso non è tanto l’esistenza di un’altra mente (parte della fenomenologia è concorde) ma il contenuto di vissuto di quella mente e la sua struttura. Una buona psicoanalisi dovrebbe dunque cercare l’accesso a quel vissuto altro, ma con la consapevolezza di averlo appreso sotto forma di narrazione e di restituirlo come narrazione di narrazione.
G. G.: Cartesio viaggia tantissimo e in luoghi che lo ispirano e stimolano il suo eremitaggio: che rapporto c’è tra la mente e il territorio? La mente e il territorio sono dimensioni casualmente coestese oppure c’è una sorta di gerarchia che stabilisce una causalità?
D. R.: Non saprei rispondere in maniera univoca. Le caratteristiche endemiche di un luogo influenzano chi lo abita, ma facciamo rientrare di nuovo il problema dalla finestra: il rapporto tra il soggetto e l’oggetto, tra le mente e il corpo. Nel libro ho però indicato quegli spazi che esercitarono su Cartesio un ascendente così forte da estrapolarne quasi il pensiero. Un ambiente su tutti è il letto, familiare e per nulla esotico. Cartesio trascorreva molto tempo al giorno sdraiato sul letto a meditare, con la finestra socchiusa, fino a tarda mattina, abitudine che conserverà per tutta la vita. Possiamo affermare davvero che qui nasce la sua filosofia.
Se vogliamo dire qualcosa di più, tra i luoghi influenti mi viene in mente anche la cosiddetta poêle alla tedesca, ma non usciamo comunque dalla figura del letto. Si tratta di una camera riscalda per mezzo di una stufa, tipica della cultura germanica e non del resto d’Europa, totalmente isolata e sigillata, che garantì al filosofo una profonda meditazione quando rimase bloccato da una bufera di neve in un villaggio periferico nel cuore della Germania. Al contrario di una casa con il camino, la stufa tedesca non emette fumi fastidiosi e rilascia un calore perfettamente omogeneo. Ricoperta con vetro e maioliche, viene riattizzata in un’altra stanza, lontana e discreta. Grazie a questa condizione di solitudine, Cartesio poté per la prima volta scorgere la “scienza mirabile” che cercava. Presumibilmente si trattava della verità riguardo al mondo esterno (leggasi geometria analitica). Sappiamo che nel soggiorno all’interno della stufa ebbe persino tre sogni premonitori di carattere – secondo lo stesso Descartes – divini. È chiaro allora come un edificio riscaldato in mezzo a un deserto di ghiaccio possa diventare il più sacro dei sancta sanctorum, per il soggetto abitante.
G. G.: Da un punto di vista narrativo Solo è un romanzo piacevolissimo: come hai lavorato organizzando l’estesa bio-bibliografia dedicata a Cartesio?
D. R.: Tengo a sottolineare che ciò che ho raccontato è sempre fondato – e fondante per il pensiero del filosofo. La fantasia ha avuto davvero un ruolo limitato. Non ho potuto inserire i riferimenti puntuali alle fonti perché ho dovuto coniugare le esigenze della filosofia a quelle della narrativa. Tuttavia ciò non inficia il grande lavoro bibliografico che c’è alla base del testo-romanzo e una parte è riportato nella bibliografia finale. Ho trascorso l’ultimo anno insieme a Cartesio. L’ho fatto con grande interesse e passione perché è stata la miccia dei miei studi, accesa dalla professoressa di Filosofia Teoretica Roberta Lanfredini, al di là del libro.
Quando ho terminato la stesura di Solo ho provato una sorta di vuoto. Credo sia normale quando si trascorre quasi un anno, giorno per giorno, a analizzare le lettere di un uomo, i suoi scritti, a leggere saggi e documenti che parlano dell’epoca in cui ha vissuto ecc. È come se fosse venuta meno una presenza.
Per prima cosa ho tentato di navigare lo sterminato mare di letteratura in varie lingue che esiste a riguardo. Mi sono accorto via via che sussistevano delle dinamiche cui nessuno studioso aveva dato lo spazio che meritano. Quando si parla di Cartesio, infatti, troppo spesso si è soliti etichettarlo come un razionalista e un dualista tout court. Nessuno si è chiesto davvero: 1) Che cosa significa per un bambino gravemente malato passare la maggior parte della giornata in un letto? 2) Lo stato di sonno, di dormiveglia, cosa arriva a essere per lui? 3) In che modo sono legati l’amore per la poesia antica e il desiderio di seguire la guerra? 4) Come hanno influenzato il suo modo di pensare gli esercizi spirituali adusi presso i gesuiti o la cultura della proto-massoneria rosacrociana? 5) Un uomo del 1600 come può avere reagito alla vista di automi che muovono un arto, o un po’ la testa, per mezzo dell’acqua? Forse allo stesso modo di come reagiremmo noi oggi davanti a un robot perfettamente complesso. Potrei continuare.
In seguito ho intrapreso una strada tematica che ho reputato essere l’ottimo fil rouge della sua vita-pensiero. Ho notato presto che la solitudine era il vero minimo comune denominatore sia della vita che della filosofia. Incredibilmente, solitudine e filosofia erano legati in maniera tanto intima da risultare un’unica costruzione e un’unica conclusione: l’eremo olandese. Spero di aver reso l’idea, tra le pagine del libro. Mi fa molto piacere, inoltre, che dalla lettura siano scaturite queste domande poiché sono tutti temi che seppur attuali esistono già in nuce nella vita di Descartes, 400 anni fa. Già scaturivano da quella sorta di “prolusione” che furono le esperienze personali di un solo uomo agli albori della modernità.
G. G.: Gli automi che Cartesio incontra in Germania nel giardino di Heidelberg, mi hanno fatto pensare a Turing e al suo famoso test per stabilire se una macchina può pensare: la mia mente è volata a Blade Runner e al grande scrittore di fantascienza P. K. Dick: siamo già una società distopica? E chi ti dà la certezza che questa recensione l’abbia scritta io?
D. R.: Il “Blade Runner” di Ridley Scott non ha niente da invidiare al “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” di P.K. Dick. Né il cacciatore di taglie Deckard è così dissimile dall’originale Descartes – ogni assonanza è puramente causale – anch’egli cacciatore di verità nella personale discesa in un inferno dantesco rappresentato dalle guerre di religione europee, dalle figure esoteriche e solitarie che incontra, dalle pestilenze, dal perpetuo inverno della piccola glaciazione. Persino Harrison Ford sembra ricreare perfettamente con la celebre smorfia del volto quell’enigmatico sguardo cui siamo abituati quando pensiamo al dipinto di Cartesio!
Il principio di verità cartesiano risiede nella difficoltà pratica di distinguere la veglia dal sonno, il quale discrimine diventa la sintesi del processo conoscitivo. Veglia, sonno e dormiveglia sono le dimensioni inaugurali della nostra esistenza, del vero e del verosimile – che non è “falso”, ma ciò che sembra reale e invece non lo è, e per questo è inganno massimo. Per capirci, gioco sulla falsariga del tema del discernimento anche con l’intera struttura narrativa, l’inedito ritrovato ma con ogni probabilità non originale. La verità per Cartesio è dunque ciò che ci permette di dirimere la questione. Eppure, il mezzo più naturale di cui disponiamo, cioè i sensi, sono fallaci perché ci possono ingannare, anche fosse solo per una volta nella vita. Allo stesso modo, per arrivare a un mondo reale non si può ricorrere alle conoscenze che la nostra educazione ci ha insegnato, nonostante facciano ormai parte di noi stessi, perché sono caduche alla maniera dei sensi.
Il principio di verità è trovato nell’io-cosa-pensante il quale è l’unico residuo a rimanere dopo aver distrutto tutto il dubitabile. La verità per Cartesio è infatti un principio di evidenza chiaro e distinto, sia nella sua definizione che nel suo criterio. Mentre sono nell’atto di dubitare è evidente che io stia pensando, e sono cioè io a essere evidente nella mia caratteristica più vera, alludendo al cogitare. E esisto! – poiché per Cartesio verità significa evidenza, e evidenza a sua volta è realtà. È ovvio però che per affermare questo bisogna presupporre che gli atti della mente siano immediatamente conoscibili dal soggetto e per via privilegiata si abbia la sicurezza di conoscere il proprio vissuto (con il senno di poi, Blade Runner 2049). Ad ogni modo, ritrovate queste fondamenta di verità-evidenza-realtà nel proprio “io”, si va a ricostruire il mondo che prima era stato distrutto. Il problema a questo punto trasla all’esterno: dimostrare con la stessa certezza l’esistenza di altre menti fuori dal proprio eremo solido. Chi mi garantisce che tu, caro Gianluca, sei una res cogitans – cioè una cosa pensante, e dunque vera, evidente, chiara e distinta, reale che esiste – e non solamente un automa di res extensa che replica il vero – quindi un inganno verosimile?
In Cartesio il passaggio dall’evidenza di se stessi agli altri è affidato a Dio, espressione di bontà e dunque sicuro non-ingannatore. Ma questo non sembra bastare perché ci si accorge presto che il circolo vizioso (spoiler) domina ogni conclusione del filosofo volta a uscire dalla propria coscienza, fuori dal suo pensare. Anche Blade Runner non può che concludersi con una malinconica solitudine esperienziale: quando l’automa Roy Batty pronuncia il famoso monologo “io ne ho viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi” allude appunto a questo, alla non condivisibilità dell’evidenza del proprio vissuto. Il circolo vizioso di Cartesio giunge dunque al solipsismo senza ritorno da cui a mio avviso sarà affetta la modernità, e ne diventiamo preda anche noi ogni qualvolta perseguiamo la stessa fabula.
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