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Esiste la normalità?: ricostruzione del significato di “malattia” attraverso la categoria concettuale della “normalità”
L’intraprendere, con prudenza e coraggio, la trattazione di una tematica delicata – che in questo capitolo, dopo un lungo ed articolato sviluppo, raggiunge il suo acme – richiede una “lieve deviazione”, dovuta ad uno dei protagonisti, ossia al “malato”, verso una scienza, e dunque verso dei concetti, non del tutto estranei al mondo del diritto, per meglio comprendere la sensibilità del tema illustrato.
Con l’espressione di “immagine dominante della normalità” non si intende né attaccare il concetto generale di norma, né il significato, che, al contrario, deve essere salvaguardato di “benessere fisico e psichico”, cioè della piena utilizzazione delle capacità umane1. Piuttosto si vuole attaccare la falsa normalità imposta dal nostro sistema sociale. Contrariamente a ciò che può sembrare logico2 a prima vista, il concetto di “malattia” o “disturbo”, nel caso di specie mentale, non si comprende per differenza ( o per contrapposizione)3 rispetto al concetto di normalità. Normalità non è, evidentemente, salute, nel senso che non è uno “stato di benessere completo, fisico, mentale e sociale”, ma qualcosa di molto più limitato: trova fondamento, ormai nella società odierna, il sospetto che il prezzo della normalità sia il “conformismo sociale”, e che essa significhi la sclerosi, l’ossificazione delle personali possibilità umane4. Il normale è forse quell’invalido che, non sapendo di essere tale, si ritiene sufficientemente fortunato, non dà fastidi a chi detiene il potere, produce e consuma; oppure è chi gode di tanti privilegi da non curarsi delle piccole difficoltà psicologiche e materiali che incontra nella vita quotidiana5. Infatti, è lecito sostenere che la normalità psicologica non è altro se non un aspetto della normalità sociale, cioè dello status quo, così come la anormalità psicologica è una forma particolare della devianza6. La normalità psicologica è effetto del continuo tentativo del potere di mantenere i propri privilegi mediante una “normalizzazione sociale”: cioè in pratica è la non-percezione individuale dei conflitti esistenti nella società, e dunque, anche la continua normalizzazione di se stessi, la costruzione di un ruolo, e di una immagine di sé, che non debbono uscire da certi limiti e devono essere funzionali ai valori sociali dominanti. Ciò implica fra l’altro una riduzione dei propri bisogni ai “modelli di bisogno” imposti, ma anche lo sforzo di adesione attiva a un dato “modello di normalità”7. L’immagine di normalità come “normalità ideale”, cioè come modello a cui conformarsi è qualcosa di più complesso di quanto non sia la normalità come semplice assenza di disturbo. Anche essa è un modello di normalità, che potrebbe essere definito come “primo modello di normalità”: ma è ancora un modello povero, perché definito “per negativo”, come ho prima accennato. In pratica, siamo tutti esortati ad essere “normali”, ubbidendo alle leggi, onorando il padre e la madre, vestendoci come richiede la nostra condizione sociale, seguendo gli svaghi e le abitudini del nostro ambiente, comportandoci in modo calmo e sensato, e così via8. La normalità viene prescritta come una serie variabile, a seconda delle classi, di “codici di comportamento”, ma essa viene proposta anche come modello universale, sotto l’egida generale del conformismo: è un invito personale alla ubbidienza ed alla mediocrità. Di fronte a tutto ciò, il gesto ed il pensiero “fuori dall’ordinario” e “folli” acquistano il valore di verità, se non altro perché negano il conformismo, l’ipocrisia, la stupidità ed il pregiudizio di chi chiama “malattia” qualcosa che non capisce9. Gli atti “folli” si contrappongono dunque idealmente alla ubbidienza, alla crudeltà ed alla morte che caratterizzano la “sana” ed efficiente tecnologia del mondo capitalista contemporaneo. Il folle dimostra, dunque, la possibilità di “essere diversi”, la presenza di fratture nella continuità dell’ordine sociale dominante, ma non fornisce un modello efficace e generalizzabile di diversità: di fatto, la sua sofferenza ed il suo “destino negativo”, assecondando la volontà del potere dominante, rappresentano l’esempio del “tentativo fallito” di rivolta contro la normalità10. È lecito supporre che disturbo e normalità siano due facce della stessa medaglia, due aspetti indissolubili ed “artificiosamente” separati di una stessa realtà sociale che ci viene presentata come l’unica possibile. Siamo, così, invitati ad attenerci a “questa”, una soltanto delle tante forme esistenti, normalità, se non vogliamo correre il rischio di cadere nei disturbi mentali, ma non ci viene detto che forse è proprio questa normalità a portare con sé, indissolubilmente, il disturbo, né ci viene detto che forse esistono altre realtà sociali possibili e anche altri modi di porsi di fronte alla realtà attuale, che non sono né la follia, né il modo di essere normali al quale siamo insistentemente invitati11. Un altro sinonimo di conformismo, di mediocrità, è rappresentato dal concetto di “integrazione”: lo scopo non è quello di “levare il sintomo”12, e neppure quello di creare un individuo, soltanto ubbidiente, ma piuttosto di costruire un individuo che sia felicemente integrato con sé stesso, ma anche entusiasta, efficiente, produttivo, dotato di iniziativa ed immaginazione, spontaneo, sereno e “liberato”. Questo individuo deve essere capace non soltanto di vivere “bene” con gli altri, ma deve saper portare un contributo nuovo, autorevole, e anche “creativo”, entro certi limiti, nel suo gruppo sociale13. Questa concezione di “normalità” contrasta in apparenza con l’idea “per negativo” o “limitata” di una normalità concepita sia come assenza di disturbo, sia come ubbidienza e sacrificio. Anzi, arricchisce e completa le immagini più rozze e limitate della normalità, basandosi sulla fiducia che l’individuo “liberato” sappia fare le scelte “giuste”, ma altro non è che una richiesta/imposizione di adesione attiva agli ideali della classe dominante14. La società in cui viviamo, frutto del capitalismo introdotto dalla storica classe della borghesia, vive attraverso, e fa vivere in ognuno di noi, la cosiddetta “falsa coscienza”, ossia, in primo luogo, una “non coscienza” della realtà, o come coscienza parcellare o deformata, che diventa falsa nel momento in cui si razionalizza secondo la visione del mondo che il potere dominante diffonde, “sistematizza”, a tutto il contesto sociale: la falsa coscienza è la normalità dominante che il capitalismo ha introdotto per determinare un “modo di vivere” nella struttura economica unificata, coincidente sostanzialmente con la “struttura della coscienza”15. Essa è data, innanzitutto, dal modo in cui ogni individuo acquista stabilità, ciò che Freud chiamava “l’apparato psichico”, ovvero l’equilibrio fra Io cosciente, spinte istintuali, esigenze morali personali. Ed anche dal “modo di vedere il mondo” e dalle “idee” su se stessi e sul mondo16. Il suo contenuto, continuo ed uniforme, è rappresentato dall’educazione e, quindi, dalla famiglia: disciplina, senso di responsabilità, risparmio, produttività, creatività guidata, immaginazione secondo i piani del capitalismo. “Falsa” nella misura in cui è tale da impedire una presa di coscienza della natura della società capitalista: ogni aspetto di questo sistema è “storicamente determinato”, cioè legate alle esigenze del capitale, e “falsamente” presentato come “naturalmente dato”, cioè come parte di un paesaggio meccanico immutabile17, come qualcosa che “è lì perché non potrebbe non esserci”, che non può essere messo in discussione. Allora feticcio diventa ogni relazione fra esseri umani. Ciascuno di noi è parte di questo sistema come un “dato isolato”, “separato” dall’insieme, per cui ci è impossibile la sua comprensione. Nella netta separazione tra “tempo libero” e “lavoro”, i due momenti che si alternano nella vita di ciascuno, si struttura la quotidianità universale ed accade che, nel lavoro, ci si aliena, non ci si riconosce, non ci si sente noi stessi, mentre, nel tempo libero, ci vendiamo ad un sistema di gratificazioni individuali in cui, “falsamente”, ci riconosciamo18. Queste “falsità” della vita si traducono in “falsi bisogni”, paradossalmente, del “normale”, e del “disturbato”, da non concepire, come ho ricordato, come opposto al “sano”, ma come “altro”: la stessa follia è espressione di un bisogno, cioè di una contraddizione drammatica che va al di là del caso del singolo individuo, e che chiede di essere risolta19. Questa “presa di coscienza” dei bisogni è una via di uscita sia dalle illusioni della “normalità”, sia dalle sofferenze psicologiche che le accompagnano. Per bisogno si intende la fonte oggettiva della sofferenza per “mancanza” di un bene necessario agli scopi della vita. Se esso è accompagnato dall’insoddisfazione e vi è un bene che possa estinguerla allora il bisogno si esprime come desiderio, questo l’aspetto soggettivo del bisogno, in quanto emozione e tensione verso uno scopo20. Spesso il bisogno esiste oggettivamente, senza che vi sia piena e pertinente coscienza di esso: a volte esso può non essere avvertito solo perché nascosto da altri bisogni, non necessariamente vitali per l’organismo, come, per esempio, una persona, che essendo stanca, digiuna e nervosa, come può accadere nel mezzo di un viaggio disagiato ed avventuroso, cerca le sigarette per vincere vertigine e debolezza21. Ma i bisogni più complessi ed oggetto della discussione, quelli propri della “falsa coscienza”, sono quelli “reificati”, sociali22. La società che abitiamo gioca con la tendenza a confondere bisogno e desiderio, cioè a confondere il bisogno con la consapevolezza del medesimo, che sul piano psicologico causa l’illusione di sapere sempre “di cosa si ha bisogno”; sul piano sociale, questa tendenza corrisponde alla immagine confortante, ma falsa e reazionaria, di una generica disponibilità di beni atti ad appagare tutti i bisogni. Tutti noi siamo caratterizzati da bisogni “naturali” ed “oggettivi”, e questo non può essere negato23. Tuttavia vi è una soglia a partire dalla quale ha inizio il loro “modellamento sociale”, cioè vengono plasmati da abitudini e convenzioni. I bisogni “sociali” sono “radicali”, apparentemente non vincolati immediatamente ai bisogni del corpo; sono tali ad esempio il bisogno di libertà, uguaglianza, il bisogno di giustizia, di conoscenza, ecc. Essi pur essendo storici, cioè non esistenti a priori, hanno qualcosa di costante: non calano dall’alto, ma nascono dalla prassi, cioè si definiscono nel definirsi dell’uomo attraverso la storia di generazioni, ed il procedere della lotta di classe24. La loro stessa definizione è quindi storica, non assoluta. L’unica verifica e misura di questi bisogni, dettati da una ideologia pragmatista, a supporto dello status quo, si configura nel loro prevalere, e non nella loro universalità, cioè si rendono evidenti rispetto ad altri con forza, secondo la richiesta dominante nella collettività: dunque, essi sono elaborati, definiti e diffusi dalla classe dominante25. Allora, vale la pena asserire che, in questa “fictio/fictiones societatis”, paradossalmente, nella crescita di ogni singolo individuo si nota un incremento di bisogni: da quelli fisiologici elementare del bambino, che progressivamente vengono ignorati e trascurati, a quelli storicizzati, tipici dell’adulto, che sono diventati sempre più complessi per via dello sviluppo tecnologico, scientifico e della diffusione della cultura, ed ambiziosi e numerosi26. Ma qui si coglie l’ambiguità storica: l’uomo moderno “ricco di bisogni sviluppati ed evoluti”, al contrario, è espressione e prodotto di profondi carenze, inappagamenti e ritardo continuo nel rispondere ai bisogni elementari per appagare quelli “superiori”. Altro modo per chiamare questa falsa coscienza è quello di “soggettività alienata”27. Generalmente per soggettività si intende il modo, personale e collettivo, di sentire la situazione ed i problemi, che ha valore solo nella misura in cui prende forma in una consapevolezza della situazione storica, in una possibilità di lucida spiegazione, articolata e comunicabile di essa28. Allora rispetto alla prima questa si contrappone, dato che il “modo di sentire” dell’uomo moderno è informe, inconsapevole, proprio di chi soffre senza piena consapevolezza dei propri bisogni, o di chi sente un impulso vivo e pressante al rinnovamento ed alla ribellione, essendo tuttavia privo di una reale ed articolata coscienza della situazione, così come di un concreto programma di azione29. La verità, allora, è che la soggettività, fatta principalmente di irrazionalità, di spontaneità, che si alimenta di spinte affettive, emotive, di sentimenti come l’indignazione, la speranza, l’odio, la dedizione, e non solo razionale e meccanica, è stata svuotata del suo significato originario, per divenire oggettiva30. Ci insegna il Freud degli anni Trenta, fondatore della psicoanalisi, che la “civiltà” è basata sulla parziale rinuncia al piacere: l’individuo apprende nell’infanzia, attraverso l’educazione, a reprimere il proprio desiderio di godere “tutto e subito”, e utilizza l’energia vitale così risparmiata per lavorare e produrre31. La spinta istintiva viene incanalata secondo fini socialmente utili; il rinvio della propria soddisfazione personale, e la subordinazione di quest’ultima alle necessità di convivenza sociale, costituiscono la base dell’accumulazione del sapere e della ricchezza. Presiede a ciò la coscienza e la ragione dell’individuo, che media fra esigenze di repressione poste dalla società, e le proprie spinte istintuali32. Dunque, sarebbe “estraneo” ed una minaccia per il “sistema” colui che si abbandona alla spinta di libertà ed all’insubordinazione, al piacere, alla ribellione ai fini del mutamento sociale, e con chiarezza, coraggio, tenacia ed odio si lotta efficacemente contro il sistema33. All’opposto, la convinzione dell’illegittimità del godimento fisico, la sensazione di non liceità delle spinte vive alla violenza e all’amore, e quindi il conformismo, la repressione disciplinata e fredda dell’agire, sono il meccanismo psicologico che castra in radice l’energia necessaria per rivoltarsi contro il sistema, ma, soprattutto, maschera la percezione dell’ingiustizia, soffocando l’originalità e la dissidenza del pensiero, inibisce l’assunzione di responsabilità impreviste, blocca il coraggio per la discontinuità e la rivolta34. Tuttavia la repressione è seducente, ha i suoi aspetti consolanti e gradevoli; dà sicurezza, fornisce motivazioni “civili” per la propria vita, permette di prevedere un futuro stabile per sé ed i figli; essa è durata, garanzia, routine, misura, buon senso35. “Normalità” è tutto ciò che può essere “inscatolato”, come l’Eros, istituzionalizzato all’interno della genitalità “privata”, monogamica, “normalmente” eterosessuale, e procreativa e, dall’altra parte, impoverito, ridotto ad una concezione consumistica, inteso come sfogo, vacanza, evasione, oblio, e reso oggetto di “alienazione”, come il proprio corpo, che è divenuto uno strumento di lavoro e di consumi36. L’impossibilità a riconoscersi nel proprio corpo determina la rimozione della visceralità e, dunque, dei sentimenti dell’odio, dell’amore, dell’entusiasmo, e della dedizione, castrati e negati: la vita quotidiana diventa meccanica, sterile, priva di fantasia37. Alla luce di questa analisi, presumo che sia stata posta in serio dubbio non solo la distinzione tradizionale tra il “normale”, se lo sia davvero, colui che è conforme al sistema ed il “folle”, l’extraneus al sistema, ma anche l’esistenza delle stesse categorie concettuali che presuppongono una componente soggettiva, psicologica, che sembra mancare38.
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Definizione sociologica e tecnico-scientifica di “disturbo mentale”
Questo concetto, che guiderà il prosieguo della trattazione, trova il suo fondamento nella sociologia. “Devianza” esiste sempre in relazione ad una “norma”39. Nel suo significato proprio, devianza non significa eccezionalità, né indica ciò che “è fuor di misura” o “poco frequente”; e neppure coincide con l’idea di “inadeguatezza”40. Il concetto di devianza comprende tutti questi concetti, ma soprattutto implica qualcos’altro, e cioè un “giudizio morale”. Devianza indica l’indesiderabilità sociale, indica l’opposizione di fatto al codice morale ed alle convenzioni dominanti41. Il concetto di devianza è quindi “normativo”: devianza è violazione di norme considerate “giuste”, “sane”, “morali” e di interdizioni. Si deve parlare in primo luogo di “comportamento” deviante42. Una persona deviante è quella alla quale vengono attribuiti comportamenti devianti più o meno stabili e tipici, tali da caratterizzarla di fronte al suo ambiente sociale, in quanto questo si fa espressione di norme che il deviante si trova a violare e quindi destina a lui delle sanzioni: la società prende formalmente o informalmente una serie di provvedimenti, generalmente di tipo punitivo, che mirano a riportare il deviante all’interno del comportamento normale, o a neutralizzare le azioni, o a emarginarlo più o meno radicalmente dal consorzio degli individui “normali”43. La definizione di ciò che è deviante varia a seconda delle culture, dei periodi storici, delle categorie sociali. Così come le norme sociali sono convenzionali, anche un comportamento è deviante non in funzione di principi universali, ma sulla base della volontà e del potere della classe egemone in un dato assetto societario. La classe dominante tende ad imporre all’intera società i modelli di comportamento che sono accettabili e quelli che sono interdetti, cioè da sottoporre a sanzione44. Comportamenti caratterizzati, a seconda delle società, da aggressività o mitezza, da rispetto della vita di gruppo o da isolamento, sono suscettibili di venire considerati a seconda delle culture come normali o come devianti, ed in quest’ultimo caso di venir interdetti con maggiore o minor forza45. In un dato assetto societario, il codice della norma e della devianza è sempre strutturato in modo tale da favorire la stabilità dell’ordine sociale costituito. Anche l’identificazione fra soggetto deviante e comportamento deviante è variabile46. Un individuo che abbia presentato un comportamento deviante, o al quale quest’ultimo venga attribuito come abituale, può essere più o meno facilmente etichettato e “marchiato”; in tal caso la attribuzione della devianza non riguarda più il singolo episodio comportamentale, ma si riferisce all’individuo in sé stesso47. Si compie in tal caso un’inversione causale che ha particolare importanza in psicologia sociale. Invece di identificare il soggetto come deviante in conseguenza del suo comportamento, si considera il soggetto come se fosse deviante in tutto ed in primo luogo48. La “devianza” gli viene attribuita come sua “essenza” naturale individuale: quindi tutti i suoi atti vengono considerati come inevitabilmente impregnati di devianza49. Questa dinamica del pregiudizio, che ha importanti affinità con la psicologia del razzismo, spiega buona parte degli atteggiamenti che ovunque prevalgono nei confronti delle persone considerate delinquenti, malate di mente, “drogate”, “sessualmente anormali”50. In tutte le culture esiste una ideologia della devianza: cioè esistono delle idee, delle teorie, che tendono a giustificare la gestione repressiva della devianza. Il codice della devianza viene più facilmente imposto se il soggetto deviante viene punito come violatore di un ordinamento assoluto51. Dunque, il deviante viene identificato come un malato o come un essere biologicamente anormale. Il codice della devianza si riferisce in questo caso ad una ideologia naturalistica52. L’influenza del positivismo medico sulla psichiatria e sulla criminologia europea alla fine del secolo scorso ha contribuito ad accentuare questa tendenza, tanto da far sopravvivere ancor oggi concetti come quello del “delinquente per tendenza” o dello “psicopatico degenerato”53. Gli studi e le ricerche sociologiche moderne si sono occupati sia della devianza in genere, sia di alcune figure relative al fenomeno, come il pazzo, l’alcolista, il ricoverato in istituti psichiatrici. Le teorie prevalenti accentuano ad oggi l’importanza dei fattori sociali nella determinazione dei comportamenti etichettati come devianti: questo significa che fattori sociali e circostanze di vita sono responsabili di questi comportamenti54. La società industriale dell’Occidente è caratterizzata, a questo riguardo, da un insieme complesso e soprattutto contraddittorio di norme, per cui è difficile che esista anche un solo cittadino che non abbia violato nella sua vita i codici scritti e non scritti della moralità e dell’etica civile corrente55. Dall’altro lato, la stragrande maggioranza degli individui non vengono mai puniti per i loro più o meno sporadici, ma spesso gravi, comportamenti antisociali; ben pochi poi vengono stigmatizzati in modo definitivo come “soggetti devianti” di fronte ai loro simili56. Esiste la tendenza a identificare in modo chiaro e permanente solo taluni pochi soggetti, e non altri, come devianti, e quindi stigmatizzarli e a respingerli dal consorzio dei cittadini normali57. Questi costituiscono “modelli di devianza”: sono stereotipi i ladri, le prostitute, i malati di mente, i vagabondi, gli alcolisti, che sono stati creati dall’ordine societario capitalista che si definisce “normale”, presentandoci questi come immagini negative, destini da evitare. Quindi, l’ordinamento sociale crea e mantiene i comportamenti devianti in una minoranza di soggetti e se ne serve per una serie di scopi: questi servono come capri espiatori; sono esempi e modelli educativi “per negativo”, utilizzati dalla classe dominante58. Il fatto che alcuni in individui stigmatizzati come devianti siano portatori di anormalità cromosomiche, o di gravi inferiorità fisiche, o di lesioni cerebrali, di psicosi o di postumi di psicosi non autorizza a considerare il concetto di devianza come analogo o sovrapponibile al concetto di malattia59. Anche se fattori di competenza medica o più genericamente biologica possono avere talora molta importanza nel formare i comportamenti giudicati devianti, ma è altresì vero che nella maggioranza dei casi questi comportamenti compaiono al di fuori di qualsiasi causa medica e biologica accertabile. Inoltre, non esistono fattori medico-biologici che possano venir considerati come causa necessaria e sufficiente nella determinazione del “destino personale” o carriera di vita del deviante60. “La carriera di vita” del deviante, che secondo l’opinione comune costituisce la prova della devianza, è essenzialmente determinata dal “trattamento” che la società riserva alla persona che essa etichetta come deviante61. Dunque, egli è per lo più, fin dall’inizio, la vittima di una situazione di ingiustizia sociale. Nel momento in cui egli viene marchiato, o etichettato, come deviante, questa etichetta nasconde e nega il fatto che egli sia vittima, e assolve da ogni responsabilità il sistema sociale62. Il deviante quindi viene biasimato per il fatto di essere tale, e discriminato, e anche utilizzato nei modi più vari: egli fa parte di un insieme eterogeneo, di singoli individui, dotati di scarsissimo potere sociale, ed inseriti in un ambito ben preciso all’interno della struttura generale della società63. I comportamenti devianti vengono identificati, convenzionalmente, con i termini quali follia, “ psicosi”, “malattia mentale”, e “alienazione mentale”, oggetto di un’interpretazione di tipo medica, che merita, in questa sede, la trattazione. In materia esistono incertezza e disaccordo nella definizione e classificazione delle “malattie” e dei “disturbi mentali”64. Psichiatri e psicologi si sono succeduti nel tempo teorizzando e costruendo ipotesi sulla natura e sulla genesi dei disturbi mentali, proponendo e riproponendo teorie di volta in volta biologiche, psicologiche, sociologiche, che ad oggi non hanno dato ancora risposte esaurienti al mistero della malattia mentale in senso ampio65. Nelle diverse classificazioni si è tenuto conto di criteri diversi, o tra loro separati o variamente combinati, quali: etiologici; anatomo-patologici; statistici; sintomatologico-descrittivi; clinici; psicodinamici; evolutivi o di decorso; socio-ambientali; antropofenomenologici66. Gli stessi manuali di psichiatria67 non danno una definizione standard concordata ed univoca di malattia mentale, la cui dizione è stata sostituita con quella di “disturbo” e questo a sua volta sostituito da quello di “sindrome”, per via dell’introduzione da parte dell’OMS di una diversa classificazione di tutte le malattie, comprese quelle mentali e nota come ICD, “International Classification of Mental and Behavioural Disorders: diagnostic criteria for research”. A questo punto, ai fini di una completa ricostruzione del concetto, si rende necessaria l’esposizione dei diversi approcci esistenti68. L’ “approccio psicopatologico descrittivo” individua e descrive i disturbi psicopatologici aventi negativa incidenza sul normale funzionamento dell’Io, allo scopo di costruire con questa il contenuto della diagnosi psichiatrica69. L’“approccio funzionale”, consiste nell’analisi di come si organizza l’identità personale, attraverso il divenire dell’Io, del Super Io e dell’Es, le loro relazioni reciproche, lo sviluppo dei meccanismi difensivi, il tipo di relazioni oggettuali, la gestione dell’aggressività. Si costruisce prendendo in esame: 1) la forza e debolezza dell’Io; 2) la diffusione e meno del senso dell’Identità; 3) il mantenimento o le alterazioni dell’esame della realtà; 4) il tipo di gestione dell’aggressività e della sessualità; 5) il ricorso a meccanismi di difesa primari e secondari70. Concetto centrale di questo tipo di approccio è la nozione di Io, infrastruttura della personalità che si definisce attraverso le sue funzioni percettivo-memorizzative, organizzative, previsionali, decisionali, esecutive71. L’approccio neurobiologico studia attraverso l’utilizzazione di strumenti suoi propri, come protocolli, questionari, strumenti di valutazione specifici, la presenza o meno di alterazioni delle attività cerebrali: in particolare, delle regioni prefrontali, essenziali per la mentalizzazione, rispetto a quella dell’amigdala e dell’ippocampo e cerca di stabilire correlazioni significative tra lesioni del cervello, come danni neuro cognitivi, ma anche quelli emozionali e comportamentali, e disturbi mentali, le cosiddette evidenze scientifiche72. L’approccio dimensionale è di tipo quantitativo ed introduce il concetto di continuum psicopatologico, nel senso che la patologia della personalità ha un legame di continuità con la psicologia della personalità73. Al livello teorico il modello di approccio prevede che ogni dimensione psicopatologica, intesa come insieme di sintomi correlati tra di loro, possa essere riportata a uno specifico meccanismo patofisiologico e ad un intervento terapeutico altrettanto specifico74. Le dimensioni psicopatologiche, individuate in base all’osservazione clinica, vengono confermate anche con metodi statistici; esse non sostituiscono, ma completano le categorie diagnostiche75. Fondamentale è misurare la gravità dei disturbi oltre che la presenza degli stessi e valutare quei segni che indicano una disfunzione di determinati circuiti neuronali, specifici ed interconnessi76. L’approccio che, per la sedes materiae, ci interessa maggiormente è quello psicopatologico forense: esso cerca di stabilire eventuali rapporti tra i disturbi psicopatologici e l’atto commesso o subito e avente rilevanza giuridica in ambito sia penale, che civile77. Questo procedimento è indispensabile per poter conferire significato di infermità dell’atto agito o subito. Il modello di psicopatologia forense è pertanto il prodotto di un processo costruttivo che prevede l’integrazione dei modelli nosografico, psicopatologico e funzionale e si articola attraverso diversi passaggi che includono strategie relazionali, ricostruzioni di storie di vita, tecniche d’intervista, ricordo a test mentali ed altri mezzi di indagine78. Allora l’attenzione del perito o del consulente deve essere concentrata non solo sull’inquadramento diagnostico del periziando, per intenderci sul “cosa ha”, ma deve tenere conto del suo bagaglio culturale e nozionistico – come già sottolineato nel precedente capitolo – delle caratteristiche della relazione e del contesto in cui è avvenuto il fatto e dell’eventuale compromissione psicopatologica del suo funzionamento mentale riferita all’evento giuridicamente rilevante, agito o subito, in ambito penale e civile79. Dunque, la psicopatologia forense cerca di stabilire l’incidenza del o dei disturbi psicopatologici individuati sul funzionamento globale e settoriale della persona oggetto di indagine peritale.; esplorare il rapporto tra disturbo psicopatologico, funzionamento mentale e atto avente rilevanza in ambito sia penale, sia civile, il cosiddetto “nesso causale”; individuarne l’esistenza, quantificarne l’incidenza sotto forma di vizio di mente, totale o parziale, o di altri stati di incapacità; definire con criteri clinici l’eventuale pericolosità sociale psichiatrica, graduandola, in elevata ed attenuata; indicare eventuali “misure terapeutiche” da adottare80. In ambito penale, sono fondamentali le due categorie giuridiche dell’intendere e del volere, che corrispondono a quelle dimensionali del funzionamento dell’Io: la capacità di intendere riguarda le funzioni cognitive e la capacità riflessiva del soggetto, mentre la capacità di volere riguarda i processi affettivo emotivi e decisionali81. Qui meritano di essere richiamati quattro fondamentali articoli del Codice penale, collocati nel titolo IV, capo I, caratterizzanti e fondanti la premessa concettuale della trattazione del tema di questo capitolo, ovvero il concetto di “imputabilità”, intesa essa non come “capacità di pena” o “capacità giuridica speciale di diritto penale”, ma quale presupposto della colpevolezza, in assenza del quale non è configurabile l’elemento psicologico necessario per la commissione del reato82: essi sono l’articolo 85 del Codice Rocco, attualmente in vigore, rubricato “Capacità di intendere e di volere”83, il quale dispone che “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile”; l’articolo 88 c.p., rubricato “Vizio totale di mente”, il quale dispone che “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere”; l’articolo 89 c.p., intitolato “Vizio parziale di mente”, che dispone che “ Chi nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato, da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere e di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita”; ed infine l’articolo 90 c.p., rubricato “Stati emotivi o passionali”, il quale dispone che “Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”. Due degli articoli citati, quelli che in questa sedes materiae rilevano, rispettivamente l’articolo 88 e 89 c.p., fanno riferimento non già ad una “infermità mentale”, ma ad una “infermità” che induca il soggetto “in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere” o da farla “scemare grandemente”: se ne è giustamente inferito che non è l’infermità in se stessa, neppure la più grave, a rilevare, bensì un “tale stato di mente”, da essa determinato, “da escludere la capacità di intendere o di volere” o da farla ritenere “grandemente scemata”; ulteriore corollario di tale rilievo è l’annotazione che tali norme non circoscrivono il rilievo alle sole infermità psichiche, ma estendono la loro previsione anche alle infermità fisiche, che a quello stato di mente possano indurre, “nel senso di una la loro attitudine a incidere, effettivamente e nel caso concreto, nella misura e nei termini voluti dalla norma, sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente”84. In difetto o assenza di tale rapporto, anche il malato di mente può essere ritenuto imputabile, dal momento che, pur essendo egli affetto da disturbi psichici, questi non hanno inciso funzionalmente sul suo comportamento criminale che si colloca in spazi convenzionali di “libertà”, “autonomia” e “capacità”85. Il principio fondamentale è quello posto alla base della distinzione tra reato “di” e reato “in” malato di mente86. È ragionevole pensare che, nel caso del vizio di mente, un disturbo mentale produca un disordine comportamentale che precede, accompagna e segue il reato di gravità diversa, a seconda dell’entità e delle quantità di compromissione delle singole funzioni psichiche; delle condizioni di acuzie o di cronicità; di produzione o di spegnimento della sintomatologia psicopatologica; di età. Dunque, più aree funzionali dell’Io saranno investite dal disturbo patologico psichico, più ampia ed evidente sarà la compromissione comportamentale87. È privato di validità scientifica il principio sostenuto dalla scuola positiva e per molti anni successivi seguito, in forza del quale veniva data per scontata l’esistenza di una equivalenza tra follia ed assenza di imputabilità, secondo il criterio medico-psichiatrico88. Applicando, invece, il criterio psicopatologico-normativo, costituiscono vizio parziale o totale di mente solo quei disturbi che importano alterazioni patologiche di una o più funzioni psichiche, a loro volta sintomaticamente nell’atto criminale, che in tal modo assume “valore di malattia”, o meglio, “significato di infermità”89. Pertanto, disturbo mentale e significato di infermità sono due nozioni non necessariamente intercambiabili e non reciprocamente identificabili: il primo comporta la necessità di un intervento terapeutico la cui gestione spetta ad operatori della psichiatria clinica; il secondo causa quel “tale stato di mente” che si può costituire in vizio di mente totale o parziale90. Di conseguenza, significato di infermità si può riconoscere solo a quei delitti sintomatici di disturbi psicopatologici che rientrano in una nosografia cosiddetta maggiore con caratteristiche evolutive e di acuzie, incompatibili con il funzionamento dell’Io stabile nel tempo91. Fondamentale è convenire sul fatto che il vizio di mente, incapacità decisionale ed altre condizioni di incapacità esistono solo in quei casi in cui l’agito può essere iscritto in documentate alterazioni psicopatologiche proprie di disturbi mentali specifici che, per l’intervento di fattori stressanti di natura situazionale o relazionale, si sono “epifenomenizzati” nel comportamento oggetto di indagine, incidendo in maniera significativa sul funzionamento dei meccanismi intellettivi o volitivi del soggetto in osservazione92. Dunque, l’imputabilità di un autore di reato può venire meno o essere grandemente scemata solo quando il fatto può essere iscritto nella accertata patologia di mente ed essere ritenuto sintomatico di quel funzionamento disturbato; l’infermità di mente non è uno stato permanente di servizio dell’individuo, ma può essere l’espressione di un quid novi che improvvisamente e drammaticamente insorge in lui ed altrettanto rapidamente si risolve93. Per ricapitolare, gli obiettivi perseguiti con la nozione di “vizio di mente” sono i seguenti: a) sottrarre al l’apprezzamento del significato di “infermità” alla “sensibilità” del singolo perito, il quale spesso contamina le categorie psichiatriche con quelle giuridiche, subordinando la valutazione della sindrome diagnostica alla gravità del reato o ai precedenti o ad un giudizio morale; b) restituire al “malato di mente” la dignità e compassione perduta; c) evitare di generalizzare e banalizzare il concetto di vizio di mente, riconoscendo la sussistenza di un’infermità anche in presenza di semplici “alterazioni, bizzarrie, ed anomalie del carattere o del temperamento”; d) circoscrivere il compito del perito a quello di semplice collaboratore del magistrato e non di sostituto dello stesso; e) responsabilizzare l’autore del reato94. Tra le numerose sentenze della Suprema Corte, una svolta fondamentale e decisiva è stata rappresentata dalla sentenza n. 9163 del 25.1.2005. In essa le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno stabilito quanto segue: “Anche i disturbi della personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli articoli 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa; per converso non assumono rilievo ai fini del’imputabilità le altre anomalie caratteriali e gli stati emotivi e passionali, che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo”. I punti più forti della sentenza sono di seguito sintetizzabili: 1) anche ai disturbi della personalità può essere attribuita un’attitudine, scientificamente condivisa, a proporsi come causa idonea a escludere o grandemente scemare in via autonomia e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente; 2) il nesso eziologico fra infermità e reato viene assunto a requisito della non imputabilità; 3) i disturbi o anomalie della personalità possono acquisire rilevanza solo ove siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere, compromettendola del tutto o grandemente scemandola95. Devono essere quindi gravi ed idonei a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi; 4) non possono avere rilievo anomalie caratteriali, disarmonie della personalità, deviazioni del carattere e del sentimento che non si rivestano delle connotazioni indicate, né possono assumere rilievo alcuno gli stati emotivi e passionali, salvo che essi si inseriscano in un più ampio quadro di infermità avente le connotazioni su indicate; 5) qualunque disturbo mentale è elemento condizionante della condotta ma deve essere grave per rilevare sulla imputabilità96.
1 G. Jervis, “ Manuale critico di psichiatria”, Milano, 1975, 194 ss.
2 Tuttavia anche la logica ha le sue contraddizioni. G. Jervis, op. cit., 194 ss.
3 Anche qui si potrebbe trovare una applicazione del principio platonico-aristotelico di “non contraddizione”, affermando che se un soggetto X non è normale (indichiamo il concetto di “normale” o “normalità” simbolicamente con la lettera “n”, dunque X non è uguale a n) non necessariamente questo è malato (indichiamo simbolicamente il concetto di “malato” o “malattia” con la lettera “m”, dunque X è uguale a m), ovvero il suo opposto, ma può essere ed è “altro”, “diverso” da altri che come lui appartengono alla realtà empirica, il quale si manifesta in una delle potenziali e molteplici forme della “normalità”.
4 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
5 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
6 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
7 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
8 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
9 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
10 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
11 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
12 Raramente la “cura” viene concepita in questo modo. Si veda G. Jervis, op. cit., 194 ss.. Jervis, op. cit.
13 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
14 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
15 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
16 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
17 G. Jervis, op. cit. 194 ss.
18 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
19 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
20 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
21 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
22 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
23 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
24 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
25 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
26 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
27 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
28 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
29 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
30 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
31 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
32 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
33 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
34 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
35 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
36 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
37 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
38 G. Jervis, op. cit., 194 ss.
39 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
40 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
41 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
42 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
43 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
44 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
45 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
46 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
47 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
48 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
49 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
50 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
51 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
52 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
53 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
54 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
55 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
56 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
57 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
58 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
59 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
60 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
61 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
62 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
63 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
64 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
65 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
66 G. Jervis, op. cit., 67 ss.
67 U. Fornari, “Trattato di psichiatria forense”, Milano, 2018, 104 ss.
68 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
69 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
70 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
71 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
72 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
73 C. Maffei, “Borderline”, Cortina Milano, 2008. Si veda U. Fornari, op. cit., 104 ss.
74 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
75 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
76 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
77 Imputabilità, inferiorità, deficienza psichica, pericolosità sociale, capacità decisionale, e via dicendo.
78 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
79 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
80 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
81 U. Fornari, op. cit., 104 ss.
82 F. Caringella- A. Salerno, op. cit., pag. 675 ss. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella motivazione della nota sentenza n. 9163 del 2005 hanno precisato che “l’imputabilità non si limita ad essere una “ mera capacità di pena” o un “semplice presupposto o aspetto della capacità giuridica penale”, ma il suo “ruolo autentico” deve cogliersi partendo, appunto, dalla teoria generale del reato; ed icasticamente si chiarisce al riguardo che “se il reato è un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e la colpevolezza non è soltanto dolo o colpa ma anche, valutativamente, riprovevolezza, rimproverabilità, l’imputabilità è ben di più che non una semplice condizione soggettiva di riferibilità della conseguenza del reato data dalla pena, divenendo piuttosto la condizione dell’autore che rende possibile la rimproverabilità del fatto”; essa, dunque, non è “mera capacità di pena”, ma “capacità di reato o meglio capacità di colpevolezza”, quindi, nella sua “propedeuticità soggettiva rispetto al reato, presupposto dela colpevolezza”, non essendovi colpevolezza senza imputabilità”.
83 Dalla rubrica plasticamente emerge cosa si intende per imputabilità, ovvero capacità di intendere e di volere.
84 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
85 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
86 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
87 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
88 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
89U. Fornari, op. cit., 113 ss. Inoltre, la “nozione di malattia” venne proposta nel 1956 da Müller-Suur H., “Zur Frage der strafechtlichen Beurteilung von Neurosen”, 194, per risolvere il problema della valutazione psichiatrico-forense delle “anomalie mentali” in riferimento ad un reato; la nozione fu definita come “il grado di diversità tra le direttive abituali di una determinata personalità, ed i modi di reazione ad essa propri, ed il suo comportamento abnorme”.
90 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
91 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
92 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
93 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
94 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
95 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
96 U. Fornari, op. cit., 113 ss.
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