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Il “consenso” quale fondamento del rapporto medico-paziente: l’evoluzione storica
Per capire il significato ed il ruolo del consenso (“informato”, e non solo) – nel precedente paragrafo presentato come causa di giustificazione “tacita”, ma che in questa sedes materiae merita una qualificazione e caratterizzazione ulteriore, rivelatrici della sua natura particolare ed atipica, per certi versi, come fondamento della relazione tra sanitario e paziente – si deve risalire alla sua origine filosofico-religiosa1. Il concetto che l’operato del medico dovesse essere approvato dal malato è documentato in scritti che risalgono alla civiltà egiziana ed a quella greco-romana2. Già nelle Leggi di Platone si intravedono due principi su cui si deve fondare l’attività del medico e che sembrano essere l’uno il completamento dell’altro: il principio di “beneficialità”, in virtù del quale egli deve agire per il bene del malato, e quello di “consensualità”, che comporta il rispetto della sua autonomia. Il filosofo greco chiarisce il modo, anche, in cui devono interagire questi due valori: il medico “segue il decorso del morbo, lo inquadra fin dall’inizio (…) informa della diagnosi lo stesso malato ed i suoi cari e, così facendo, nel medesimo tempo impara qualcosa dal paziente e, per quanto gli riesce, gli insegna anche qualcosa3. A tale scopo egli non farà alcuna prescrizione prima di averlo in qualche modo convinto, ma cercherà di portare a termine la sua missione che è quella di risanarlo, ogni volta preparandolo e predisponendolo con un’opera di convincimento”4. Dunque, il criterio del convincimento è relativo perché deve lasciar spazio al principio dell’autonomia del malato, cui spetta la decisione finale sulle terapie da seguire per conservare la sua salute5. Il rapporto medico-paziente6 è stato oggetto di riflessione anche per Ippocrate di Cos, secondo il quale il medico deve avere “due scopi, giovare e non essere di danno”7. Quindi, deve esercitare la sua arte con animo altruistico, interpretando, secondo coscienza, il bene del malato, il quale, a sua volta, beneficia dell’attività del medico, subendola8, ma anche cercare la collaborazione del paziente per combattere meglio la malattia, anticipando, quindi, di secoli l’attuale “alleanza terapeutica”. Un altro aspetto viene evidenziato dagli storici: essi vedono nel medico ippocratico una figura che si preoccupa della salute del malato, ma nello stesso tempo cerca di non essere coinvolto nell’eventualità che la “cura” non si riveli efficace ed il paziente muoia. Già in questa fase è possibile individuare le motivazioni e le ragioni che hanno dato luogo alla “medicina difensiva”9. Infatti, nel “Prognostico” Ippocrate ricorda che una corretta diagnosi è utile alla cura del malato, ma lo è anche per il medico, che, da un lato deve assicurarsi la fiducia del paziente, dall’altro deve prevenire eventuali accuse in caso di esito infausto. Naturalmente, il concetto di consenso non esiste, tuttavia traspare la necessità di un’informazione precauzionale e preventiva10. Già ai tempi di Alessandro Magno e dei bizantini, prima di intraprendere un’operazione difficoltosa, il medico era solito chiedere l’assenso del paziente, soprattutto se potente e facoltoso, con lo scopo di tutelare non soltanto l’ammalato, ma anche se stesso11. Continuando nella tradizione ippocratica, il rapporto tra medico e paziente si è consolidato nei secoli su due precisi criteri: da un lato, il dovere del medico di curare bene l’ammalato; dall’altro, l’obbligo del paziente di rimettersi completamente e passivamente alle scelte del medico, le uniche vantaggiose per la sua salute12. Questa concezione della medicina e della pratica medica si è consolidata durante il cristianesimo e soprattutto nel periodo medioevale. Il dottore, infatti, si forma nelle università e anche in virtù della sua “dottrina” sa perfettamente quale sia il bene per il paziente che, dal canto suo, si fa curare ma non chiede chiarimenti sul trattamento né sulle azioni terapeutiche13, accettando l’ineluttabilità della malattia e della morte. Pertanto, il medico, investito dell’autorità che derivava dalla sua professione, aveva un preciso dovere di guidare, secondo scienza e coscienza, il malato, di decidere e di scegliere per lui14. Tale concezione del rapporto tra medico e paziente è definita paternalistica per l’atteggiamento del paziente che si affidava ciecamente alle mani del medico, il quale, in totale autonomia, decideva nell’interesse e per il bene del malato, sostituendo la propria volontà a quella del paziente stesso in maniera totalmente legittima, quindi anche esente da ogni punibilità15. Una volta che il paziente aveva scelto il medico da cui farsi curare sulla base di un consenso generico e non di una proposta terapeutica, sorgeva in capo al sanitario l’obbligo di curare il proprio assistito con ogni mezzo16. Tuttavia, la dottrina considera ingiusto etichettare con il termine “paternalismo” un’intera e plurimillenaria fase della medicina, connotata da sentimenti di umana e rispettosa fratellanza e solidarietà17. Del resto, la tendenza dei medici di eseguire le terapie senza prima informare il paziente era espressione sia della medicina del tempo, nella quale il problema del rapporto tra i rischi ed i benefici dei vari trattamenti non era certo all’ordine del giorno, sia della società di allora, nella quale la diffusa mancanza di istruzione e la breve durata della vita media impedivano di sentire come questioni sociali la libertà di scelta consapevole ed il rifiuto delle cure. Infatti, vigeva il principio per il quale “la scienza non si sottopone a giudizio” e, quindi, “non si condannano i medici che operano in suo nome”18. Proprio in forza di esso, alcuni paesi hanno sviluppato una politica di sperimentazione selvaggia anche all’insaputa delle ignare cavie. Era, quindi, convincimento giuridico, oltre che sociale, che affidarsi ad un medico comportasse la preventiva accettazione di quelle determinazioni che lo stesso medico avrebbe poi preso, le quali, proprio perché decise dal medico, nella sua indiscussa discrezionalità, erano conformi all’interesse del paziente19.
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L’origine americana del consenso
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Da quanto discusso brevemente, appare evidente come l’adesione del malato alle scelte del medico non possa essere equiparata all’attuale concetto di consenso informato, i cui albori, invece, possono essere rintracciati20 in alcuni processi che si sono celebrati negli Stati Uniti a partire dalla fine del ‘700 e che per la prima volta, in maniera organica, affrontano problematiche di grande attualità, come l’importanza giuridica della differenziazione tra un contenzioso promosso in relazione ad un consenso comunque difettoso21, il c.d. vizio del consenso, e quello basato su una incompleta o errata informazione, il c.d. vizio di informazione, la quale rappresenta il fondamento ed il presupposto irrevocabile per giungere al consenso stesso22. In un processo del 1905 i giudici ebbero ad affermare che “il primo e più nobile diritto di ogni libero cittadino, fondamento di tutti gli altri, è il diritto sulla propria persona, “the right to himself”, universalmente riconosciuto; questo diritto vieta rigorosamente al medico ed al chirurgo, per quanto esperto e di chiara fama, di violare a suo arbitrio l’integrità fisica del suo paziente con una operazione più ampia e/o diversa rispetto a quella programmata, intervenendo sul malato sotto anestesia senza il suo consenso”23. La Corte concluse che il medico non aveva libera licenza rispetto all’intervento chirurgico predisposto, mentre dalla mera circostanza che il paziente si era affidato alla competenza medica non poteva evincersi un implicito consenso a qualsivoglia trattamento chirurgico, rispetto al quale era sempre necessario un consenso specifico ed esplicito24. È significativo notare che nella sentenza si afferma che un valido consenso richiede la preventiva conoscenza da parte del paziente dei pericoli e dei rischi insiti nella terapia, ma non si fa alcun cenno al diritto all’autodeterminazione o all’autonomia del malato, “self-determination” o “autonomy”, bensì a un diritto su sé stesso25. La svolta avviene con il processo noto come il “caso Schoendorff” del 191426, durante il quale il giudice Beniamino Cardozo, chiamato a pronunciarsi sulla vicenda, predispose il criterio della “self-determination”, in base al quale “Ogni essere umano adulto e capace ha il diritto di determinare cosa debba essere fatto con il suo corpo; un chirurgo che esegue un’operazione senza il consenso del paziente commette una violenza personale, per la quale risponderà dei danni”27. Tale principio, destinato a diventare un concetto guida nella gestione del rapporto tra medico e paziente, è oggi trasfuso in Italia con la locuzione “principio di autodeterminazione”, che ribadisce la regola secondo cui, da un lato, l’individuo malato ha il diritto di salvaguardare e di tutelare l’inviolabilità della propria persona scegliendo il trattamento chirurgico, e dall’altro, il disattendere questo diritto configura, anche se l’intervento si conclude con esito favorevole, una violenza arbitraria ed ingiusta sul malato28. Circa trentacinque anni dopo si verifica un’ulteriore ed importante svolta dottrinale: la comunità internazionale prende coscienza dei gravi interrogativi posti sul piano etico dai progressi della medicina, a partire dalle sperimentazioni sull’uomo. Dalla riflessione sulle atrocità commesse nei campi di sterminio e di concentramento emerge la necessità di distinguere tra la sperimentazione lecita e l’attività che si avvicina più alla tortura29. A Norimberga, il 19 dicembre 1946, si celebra davanti ad un tribunale militare composto solo da magistrati statunitensi il processo ai medici nazisti. Nella sentenza dell’ottobre 1947 i giudici stilano un documento, noto come codice di Norimberga, che all’art. 1 recita: “È assolutamente necessario il consenso volontario del soggetto umano30. Ciò presuppone che la persona abbia la capacità legale di dare il consenso; sia in condizioni di esercitare il libero potere di scelta senza l’intervento di alcun elemento di forza, frode, inganno, costrizione, sopraffazione, o altra ulteriore forma di costrizione o coercizione ed abbia sufficiente conoscenza e comprensione degli elementi dell’esperienza, tanto da essere in grado di prendere una consapevole ed illuminata decisione31. Quest’ultimo elemento richiede che prima di formulare una positiva decisione, il soggetto deve essere edotto sulla natura e sui fini dell’esperimento, sul metodo ed i mezzi con i quali esso sta per essere condotto, su tutti gli inconvenienti e pericoli ragionevolmente prevedibili e sugli effetti nei riguardi della salute che possono derivare dalla sua partecipazione all’esperimento. Il dovere e la responsabilità di constatare la validità del consenso pesano su chiunque inizia, dirige o è implicato nell’esperimento”32. Il Codice di Norimberga, quindi, contiene una visione della ricerca e della tecnologia medica molto chiara: la scienza non deve mai trasformare la persona in uno strumento utilizzato per raggiungere solo scopi scientifici e contiene anche l’esigenza di legittimare le prestazioni mediche attraverso la pratica del consenso informato33. Da quel momento, il principio del consenso, supportato da idonee garanzie relative all’informazione sull’operazione, è stato trasferito nel rapporto tra medico e paziente, marcando il passaggio dal “paternalismo” medico al principio dell’autodeterminazione del paziente. La prima affermazione giudiziaria del principio del “consenso informato” è sancita nel 1957 dal caso Salgo v. Leland Standford Jr. University Board of Trustees ad opera della Corte dello Stato della California, che fonda l’affermazione di responsabilità del sanitario sulla carente informazione fornita circa l’atto da eseguire e sulla conseguente inefficacia del consenso prestato dal paziente34. Durante l’esecuzione di un’arteriografia su un soggetto affetto da vascolopatia, il chirurgo omette di avvertire il paziente delle possibili complicanze, poi verificatesi, connesse all’uso di un mezzo di contrasto necessario per l’esecuzione dell’accertamento invasivo35. Nonostante alcuna censura venga mossa circa il rispetto delle regole dell’arte nell’esecuzione dell’atto in sé, il chirurgo viene condannato per essere venuto meno al dovere di illustrare “any facts which are necessary to form the basis of an intelligent consent by the patient to proposed treatment”, violando così il diritto all’autodeterminazione del paziente stesso36. I magistrati statunitensi con questa sentenza sottolineano che l’obbligo di informazione al fine di ottenere un adeguato e consapevole consenso, definito con il termine “intelligent consent”, si deve tassativamente estendere non solo agli eventuali e probabili pericoli legati al tipo di prestazione proposta, ma anche alle possibili terapie alternative che in concreto possono essere scelte ed effettuate37. Il tribunale, a differenza delle modalità procedurali impiegate dai giudici che avevano esaminato i casi ricordati, pone l’accento sull’entità e sulla qualità dell’informazione che deve precedere l’acquisizione del consenso, introducendo così un nuovo elemento giuridico oggettivo da considerare come fattore indipendente38. Quindi, in termini espliciti, i giudici affermano che il consenso deve essere preceduto dall’informazione del paziente, quale condizione di validità del consenso stesso. Il “consent”, diviene, pertanto, “informed consent”39. A differenza delle precedenti decisioni, la Corte non si limita ad accertare la sussistenza o meno di un effettivo consenso del paziente alle terapie proposte, ma concentra la sua attenzione proprio sulla presenza di un consenso informato al momento in cui viene prestato, introducendo, così, un nuovo elemento giuridico40. Inoltre, i giudici, per la prima volta, unificano le due teorie della responsabilità medica fondate sul consenso: la richiesta del consenso come un aspetto della diligenza medica, “good medical care”; ed il consenso inteso come dovere di rispettare l’autonomia del paziente, “duty to respecting”41. Quest’orientamento si consolida in tre decisioni successive, il “caso Grey” del 1966, il “caso Berkey” del 1969, ed il “caso Cooper” del 1971, relativi ad interventi praticati senza che il paziente fosse informato dei rischi collegati all’intervento chirurgico42: i giudici statunitensi censurano l’operato dei medici basandosi sul presupposto che la relazione di cura si caratterizza per il carattere fiduciario del rapporto medico-paziente, per cui il medico ha l’obbligo di far conoscere al suo assistito le caratteristiche della malattia con una chiara e puntuale informazione, il “duty of full disclosure”. Negli Stati Uniti il dibattito bioetico sul consenso informato è un dibattito ancora aperto43. Vi sono numerose e diverse definizioni nelle leggi e negli standard giudiziari dei vari Stati: alcune pongono l’accento sul fatto che il consenso è una determinazione e quindi un’azione autonoma del paziente; altre, invece lo considerano un coinvolgimento del paziente, ottenuto secondo una procedura legale44. Tutte, però, evidenziano l’importanza dell’informazione, che assolve il compito non solo di rendere edotto il paziente sui vantaggi e sui possibili rischi della terapia, ma anche di tranquillizzarlo psicologicamente e di dargli “security” e “satisfaction”45. Il problema diventa, quindi, come comunicare con i pazienti46. Al riguardo, è necessario precisare che mancano soluzioni univoche sul fronte dei rapporti tra comunicazione e informazione. In proposito, acuta dottrina ha precisato che “l’affermazione formale, secondo la quale il “consent” deve necessariamente essere “informed”, non fa che spostare la controversia da “se” informare il “paziente” a quale informazione dare47. Al centro della discussione si collocano così lo standard di informazione richiesta e la possibilità che in casi specifici sia giustificata la riduzione o l’esclusione dell’obbligo di informazione o una sua particolare configurazione che ne riduca la portata innovativa”48. Partendo dal principio dell’ “informed consent”, la giurisprudenza americana è approdata, quale logico corollario dello stesso, al pieno riconoscimento del “right to die”, ovvero del diritto del paziente di rifiutare i trattamenti sanitari, anche se “life saving”49. Il dibattito ha preso le mosse dai casi giudiziari, dal caso Quinlan, del 1976, e dal caso Cruzan, del 1990, che ha visto la Corte Suprema Federale pronunciarsi sul “right to die”, enunciando il principio in base al quale la scelta del paziente di rifiutare le cure “life saving” è strettamente personale, o “deeply personal decision”, e , se il malato è compos sui, la sua volontà deve essere rispettata50. A tal riguardo, importante è ricordare il caso di Terry Schiavo, la donna in coma che per quindici anni aveva continuato ad avere una vita vegetativa grazie ad una gastrostomia che la alimentava, caso per il quale il Presidente degli Stati Uniti , per garantirle una assistenza meccanica, aveva firmato d’urgenza una legge da affidare all’interpretazione della Corte della Florida51.
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L’approdo del consenso informato in Italia
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In Italia, la progressiva acquisizione del consenso informato come principio del rapporto tra il medico ed il paziente ha portato al suo inserimento in numerose fonti normative, sia comunitarie52 che interne53. La Corte Costituzionale, peraltro, ha chiarito che la disciplina degli atti di disposizione del proprio corpo, rientrando nella più generale materia dell’ordinamento civile, è riservata alla legislazione esclusiva dello Stato ex art. 117, comma 2, lett. l)54. Agli inizi degli anni Novanta nel nostro Paese si assiste ad una serie di vicende giudiziarie per responsabilità medica, nelle quali la giurisprudenza non ha mancato di valorizzare l’importanza del consenso informato per tutelare l’autonomia del paziente in ogni scelta che riguarda la cura della sua persona, “visto che senza informazione adeguata e rispettosa del paziente e, dunque, anche dei suoi limiti culturali e delle sue umanissime paure di fronte all’atto medico, questi non è più persona, ma oggetto di esperimento o di un’attività professionale che trascura il fattore umano su cui interviene, dequalificando il paziente stesso da persona a cosa”55. L’evoluzione culturale a cui si è accennato ha trovato riscontro nei codici deontologici, passando dalla formulazione dell’art. 30 del codice di deontologia medica del 1978, secondo il quale “una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato ma non alla famiglia”, a quella dell’art. 40 del codice del 1989, da cui emerge che “il medico non può intraprendere alcuna attività diagnostico terapeutica senza il valido consenso del paziente, che se sostanzialmente implicito nel rapporto di fiducia, deve essere invece consapevole ed esplicito allorché l’atto medico comporta rischio o permanente riduzione dell’integrità fisica”, alla versione del 199556, il cui articolo 31 stabiliva che “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato”, fino al codice del 1998 che valorizza l’elemento dell’informazione e dell’autonomia e costituisce la base del vigente testo deontologico, nel quale è stata accentuata la rilevanza delle direttive anticipate57. Il passaggio alla fase dell’autonomia ha trovato nel nostro Paese il proprio necessario presupposto normativo con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la quale stabilisce all’art. 32, comma 2, che “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”58. Così, è progressivamente maturata la consapevolezza che, poiché l’atto medico si compie sulla persona e nell’interesse del paziente, solo quest’ultimo può decidere, operando un bilanciamento fondato su valutazioni religiose, esistenziali ed etiche intimamente legate al suo modo di essere, se e quali strade privilegiare tra quelle offerte dalla scienza medica59. Ogni terapia, chirurgica o farmacologica che sia, presenta un costo in termini di effetti collaterali, sofferenze, mutilazioni, ed è soltanto colui che questo costo deve sostenere a decidere se esso è preferibile alla malattia. Dunque, l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale è giunta a riconoscere alla persona la possibilità di gestire la salute del proprio corpo e di tutelarsi rispetto alle ingerenze di terzi nelle scelta delle cure da effettuare60. Quindi, da un lato, il medico dovrà prospettare al malato le cure più appropriate alla sua malattia, dall’altro, il malato avrà la libertà decisionale di scegliere a quale trattamento sottoporsi o rifiutarli tutti, in considerazione del fatto che la salute è un diritto e non un obbligo61. Da quest’impostazione paternalistica, il rapporto tra professionista e malato è passato ad una concezione basata sul principio di autonomia, dal greco “autos”, cioè sé, e “nomos”, cioè regola, governo, che impone al medico sia di informare i pazienti per metterli in condizione di decidere consapevolmente in ordine alla propria salute, sia di rispettare la loro scelta autonoma, ossia la decisione libera in quanto non condizionata da altrui influenze di controllo, e presa da un soggetto capace di scegliere e di comprendere tutti gli elementi della situazione e le conseguenze della propria volontà62. Tuttavia, l’art. 32, comma 2, Cost. sarebbe rimasto un presupposto astratto e non avrebbe potuto portare alle attuali conseguenze del consenso informato sia nella quotidiana pratica clinica, sia nei Tribunali, senza l’evoluzione scientifico-tecnologica della medicina. Tale fase, iniziata negli U.S.A. dopo il 1945, ha aumentato il numero della prestazioni diagnostico- terapeutiche, migliorandone l’efficacia e permettendo addirittura di scegliere tra differenti tecniche e metodiche per il trattamento di una medesima patologia. Quando la medicina aveva risorse che le consentivano solo di fare un tentativo per salvare la vita del malato, costui non poteva certo pensare di chiedere al medico di essere informato sulla sua malattia e di scegliere la cura63. Invece, da quando l’evoluzione scientifica e tecnologica ha consentito a tutti di accedere a terapie innovative capaci non solo di evitare la morte, ma anche di rispondere ad esigenze sempre più voluttuarie della persona, tanto da sfociare nella c.d. “medicina dei desideri”, la tutela della libertà di autodeterminazione del paziente è diventata parte integrante delle prestazioni mediche64. Questo ha determinato un diverso atteggiamento nel paziente, che non si rivolge più al medico con lo stato d’animo di chi gli si affida nella speranza che sia capace di guarirlo, ma gli si pone di fronte come un cliente che pretende da un professionista l’erogazione del miglior servizio possibile65. La medicina attuale non si preoccupa solo di curare il malato, ma ambisce, anche con alte percentuali di successo, di ottimizzarne il benessere, recuperandolo alla pienezza delle sue funzioni tramite interventi sempre meno invasivi e sempre più efficaci66. Sono entrati a far parte della quotidianità interventi, inoltre, con finalità meramente estetica e non anche funzionale, perciò privi di beneficio per l’integrità fisica e rivolti solo a realizzare i desideri del singolo paziente, ossia la sua personale concezione del benessere. Tutto ciò ha inevitabilmente accresciuto le aspettative della collettività nei confronti delle prestazioni sanitarie67. Parallelamente a questo progresso di conoscenze scientifiche e tecnologiche, la società ha vissuto un’evoluzione culturale che ha elevato il livello medio di consapevolezza della persona sui problemi di pubblico interesse, ed in particolare sul tema della salute, specie grazie ai mezzi di comunicazione che non mancano di aggiornare sulle nuove frontiere di ogni terapia, ingenerando, talvolta, anche sproporzionate aspettative. In sostanza, rispetto alla prima metà del Novecento, la moderna medicina opera su pazienti molto più esigenti ed informati68. Quindi, anche la pratica clinica deve adeguarsi a questa informazione. Paradossalmente, però, proprio in concomitanza con la valorizzazione dell’autonomia del paziente, si è assistito ad un allentamento del rapporto diadico dottore-paziente sotto il profilo umano, determinato da vari fattori: l’invadenza dell’elemento meccanico e tecnologico nella prestazione diagnostico-terapeutica, l’aumento sia del numero di pazienti, sia dell’attività da svolgere in èquipe, che comporta l’intervento di più medici, ciascuno con la propria competenza, senza che sia possibile stabilire, nel breve tempo concesso, un autentico rapporto umano69. Questi cambiamenti hanno costretto il medico a valutare nei rapporti con i suoi pazienti una serie di variabili più complesse che in passato. Egli è tenuto ad operare per il bene del paziente, ma deve essere in grado di comprendere quale sia il vero bene per lui; quindi, non può più sottrarsi dal comunicargli le informazioni sullo stato di salute. Conseguentemente, è sorta la difficoltà di stabilire il confine tra il dovere di curare ed il principio di autodeterminazione del paziente70. L’evoluzione della medicina in senso tecnologico ha influito anche sul costo della spesa sanitaria, aumentandolo in maniera esponenziale. In un primo momento questo problema non è stato considerato rilevante perché l’obiettivo prioritario era sempre e comunque l’interesse del paziente, per realizzare il quale era necessario consentirgli di usufruire di ogni prestazione e di scegliere tra i diversi trattamenti sanitari o metodi terapeutici che la medicina è in grado di mettere a disposizione71. La relazione medico-paziente, allora, si è posta come paritaria e basata su concetti di “alleanza terapeutica”, “autonomia del paziente” ed autodeterminazione, concetti che mettono al centro la figura del paziente, titolare di diritti e libero di scegliere e di consentire consapevolmente72. Tuttavia, a seguito dell’evoluzione scientifico-tecnologica, intorno al medico ed all’erogazione delle sue prestazioni hanno iniziato a ruotare interessi multipli che includono, il personale, l’organizzazione clinica, la gestione delle risorse, le compagnie di assicurazione, fino al mondo politico su cui converge la questione dei finanziamenti73. In questa prospettiva, la legislazione italiana più recente accentua il ruolo manageriale della professione medica, che implica relazioni plurime con il paziente, ma non certo diadiche né precipuamente umane, quanto piuttosto basate sulla valutazione dei costi74. Indipendentemente dal tipo di sistema sanitario, che può essere fondato sulla globalità della copertura statale, oppure su sistemi mutualistico-assicurativi regolati dallo Stato, vi è una presa di coscienza generalizzata che le risorse destinate all’assistenza sanitaria dalle scelte di politica economica sono limitate75. Il medico, nel sistema aziendale e di concorrenza, deve valutare quale sia il trattamento che soddisfa le esigenze di salute del paziente nell’ottica di ottimizzare l’uso delle risorse. Di conseguenza, la figura del paziente comincia ad assumere connotati prossimi a quella di un “cliente”76. In questo senso, la Corte costituzionale ha posto un punto fermo, che sembra ben difficile oltrepassare, affermando che “in presenza di limitatezza delle risorse e di riduzione delle disponibilità finanziarie accompagnate da esigenze di risanamento del bilancio nazionale, non è pensabile di poter spendere senza limite, avendo riguardo soltanto ai bisogni, quale ne sia la gravità e l’urgenza77; viceversa è la spesa a dover essere commisurata alle effettive disponibilità finanziarie, le quali condizionano la quantità ed il livello delle prestazioni sanitarie, da determinarsi previa valutazione delle priorità e compatibilità e tenuto conto delle fondamentali esigenze connesse alla tutela del diritto alla salute”78. Dunque, i principi costituzionali di uguaglianza e di tutela della salute, ex artt. 2, 3 e 32 Cost., devono essere interpretati nel senso che la tutela della salute è garantita dallo Stato, ma nei limiti delle risorse rese disponibili dalle leggi annuali di bilancio79.
1 G. M. Vergallo, “Il rapporto medico-paziente”, Milano, 2007, pag. 3 ss.
2 G. M. Vergallo, op. cit., pag. 3 ss.
3 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
4 Platone, “Le leggi”, libro IV, riteneva preferibile il medico che “comunicando con lo stesso ammalato e con i suoi amici, apprende a un tempo egli stesso qualcosa da parte del sofferente e istruisce, per quanto gli è possibile, l’infermo”, e che “procurando sempre di render mite e docile l’infermo per via della sua persuasione, cerca di raggiungere lo scopo di restituirlo in salute”. F. Pascual, “Platone, maestro di bioetica?”, in Med. Mor., 2000. Si veda G. M. Vergallo, “Il rapporto medico-paziente”, Milano, 2007, pag. 3 ss.
5 Il rapporto medico-paziente era condizionato dallo status sociale dell’ammalato, che distingue tra cittadini liberi e schiavi. I primi ricevono la cura dei medici veri, mentre gli schiavi sono curati dagli “imitatori”, cioè da coloro che, senza conoscenze tecniche, imitano i medici esperti. G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
6 A. Santosuosso, “Il consenso informato. Tra giustificazione per il medico e diritto del paziente”, Milano, 1996, 100 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
7 Ippocrate, “Epidemie”. Un concetto analogo esprime anche nell’ “Arte”, un trattato scritto nello stesso periodo nel quale Ippocrate prevede la necessità di un’autoregolamentazione in grado di attenutare o eliminare inconvenienti professionali dei medici: “Innanzitutto definirò ciò che ritengo sia la medicina (…) liberare i malati dalla sofferenza, contenere la violenza della malattia e non curare chi è ormai sopraffatto dal male, sapendo che questo non può farlo la medicina”. G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
8 Da qui deriva il termine “paziente”. Paziente non è soltanto colui che sopporta la sofferenza, ma è anche colui che subisce passivamente l’azione altrui (“patiens” è il participio presente del verbo “patior”). Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
9 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
10 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
11 Gli storici hanno tramandato due episodi entrambi riferiti ad Alessandro Magno. Egli aveva bisogno di cure mediche ma i medici erano timorosi di intraprendere qualsiasi terapia, temendone la reazione in caso di esito sfavorevole. Iniziarono la cura solo dopo che l’imperatore aveva confermato loro la sua fiducia e ne aveva garantito l’immunità. Questi due episodi consentono di mettere in evidenza l’importanza della collocazione nella società del malato, di solito alta e di rilievo rispetto a quella fortemente subalterna del medico. Infatti, in quel periodo la relazione tra chi praticava la medicina e coloro che ne richiedevano la prestazione veniva direttamente a correlarsi con il rispettivo ceto sociale. V. Mallardi, “Le origini del consenso informato”, in “Acta Otorhinolaryng”, Ancona, 2005. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
12 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
13 Emblematico, al riguardo, è il comportamento dei sanitari descritto da Tolstoj nella morte di Ivan Il’ic. Ivan è affetto da una malattia molto grave e chiama al suo capezzale vari medici che finiscono per adottare una condotta che può essere definita con il termine di “paternalismo giovanile”, in quanto trattano il malato come un bambino: prescrivono la terapia e benevolmente spiegano che, seguendola, tutto si può aggiustare, ma non informano il paziente sul suo effettivo stato di salute né gli comunicano la cattiva prognosi. L. Tolstoj, “La morte di Ivan Il’ic”, in “Racconti”, Milano, 2014. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
14 G. Corbelli, “Breve storia delle idee di salute e malattia”, Roma, 2004, 50 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
15 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
16 F. Ruggiero, “Il consenso dell’avente diritto nel trattamento medico-chirurgico: prospettive di riforma”, in Riv. It. Med. Leg., 1996. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
17 A. Fiori, in “Evoluzione del contenzioso per responsabilità medica”, in AA.VV., “Il rischio in medicina oggi e la responabilità professionale”, Milano, 2000, 186 ss., evidenzia l’esigenza di distinguere l’atteggiamento paterno da quello paternalistico, che, consistendo in “arrogante supponenza (…) scarsa capacità di comunicazione”, ed “imposizione di verità e di comportamenti in un momento in cui il richiedente è in una condizione di bisogno, e quindi di inferiorità”, è il solo a dover essere ripudiato, mentre dal plurimillenario passato della medicina devono “essere recuperati proprio quello spirito, e quella pratica, che si richiama alla fraterna, ed anche alla paterna-materna solidarietà con i pazienti, ed anche con i congiunti che soffrono con loro”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
18 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
19 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
20 V. Mallari, “Le origini del consenso informato”, op. cit. G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
21 Il riferimento è al “caso Slater” del 1767. Il paziente si era lamentato del comportamento dei medici, i quali, dopo aver rimosso le fasciature da una gamba fratturata, essendosi accorti che la frattura si era ricomposta solo parzialmente, avevano deliberatamente e senza il consenso proceduto a rifratturare l’arto, allo scopo di tentare una successiva e definitiva riduzione, ed a bloccarlo con una imbracatura sperimentale. I medici vennero condannati sia per aver agito con negligenza ed imperizia sia perché la soluzione di fratturare nuovamente la gamba del paziente era stata eseguita senza il consenso del malato. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
22 La problematica dell’interdipendenza tra “consenso” ed “informazione” emerge nel “caso Carpenter”. Il medico aveva curato la slogatura di un gomito con tecniche che egli riteneva innovative; i giudici, invece, gli addebitarono l’insuccesso dell’intervento perché aveva adottato una condotta negligente e non aveva informato il paziente sulle precauzioni da adottare né sulle indicazioni da osservare durante la convalescenza. In più il consenso era fortemente viziato (“The misrepresentation vitiated the consent”) dalle imprudenti, incaute, probabilmente ingannevoli assicurazioni sulla sicura e soddisfacente risoluzione della malattia. G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
23 Questo è il processo della “signora Mohr”, nel 1905, la quale cita in giudizio il medico che aveva ottenuto il consenso per operare l’orecchio destro, affetto da un’otite cronica, anche sull’orecchio sinistro. Non fu solo l’esito negativo dei due interventi a spingere la paziente alla citazione in giudizio del medico, ma il fatto che costui non aveva chiesto il dovuto consenso”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
24 “… the physician has no free license respecting surgical operations (…) Express consent to a particular surgery is required”). Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
25 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
26 Il paziente aveva programmato con il medico l’esame in anestesia dell’addome con la specifica richiesta di non intervenire chirurgicamente. Il medico, invece, nella presunta convinzione di agire per il bene del paziente, rimosse un fibroma. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
27 “Every human being of adult years and sound mind has a right to determine what shall be done with his own body; and a surgeon who performs an operation without his patient’s consent commits an assault, for which he is liable in damages”. G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
28 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
29 AA.VV., “The Nazi doctors and the Nuremberg code: human rights in human experimentation”, Oxford University Press, Oxford-New York, 1992; A. Santosuosso, “Corpo e libertà. Una storia tra diritto e scienza”, Milano, 2001, 100 ss., il quale rileva come proprio la Germania già nel 1931 aveva emanato circolari che stabilivano i criteri per distiguere i trattamenti terapeutici da quelli sperimentali, entrambi da effettuarsi con consenso informato di chi vi si sottoponeva. G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
30 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
31 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
32 A. Santosuosso, “Corpo e libertà. Una storia tra diritto e scienza”, op. cit.; G. M. Vergallo, op. cit., 3.
33 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
34 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
35 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
36 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
37 V. Mallardi, “Le origini del consenso informato”, op. cit.; G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
38 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
39 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
40 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
41 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
42 Descritti in V. Mallardi, “Le origini del consenso informato”, op. cit.; G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
43 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
44 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
45 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
46 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
47 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
48 A. Santosuosso, “Il consenso informato tra giustificazione per il medico e diritto del paziente”, Milano, 1996, 70 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
49 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
50 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
51 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
52 L’art. 63 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ratificata dall’Italia con la legge 7 aprile del 2005, n. 57, che afferma che “Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a) il libero consenso ed informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge”; G. M. Vergallo, op. cit., pag. 12 ss.
53 La normativa interna, se si esclude quella di rilevanza prettamente deontologica, è fatta di singole leggi speciali relativi ad atti medici particolari, oltre alla generica previsione contenuta nell’art. 33, comma 1, della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale n. 833/1978. Tra le più significative: la legge n. 458/1967, sul trapianto di rene da vivente, la legge n. 483/1999, sul trapianto parziale di fegato, la legge n. 194 del 1978, sull’interruzione volontaria della gravidanza, la legge n. 1647/1978, sulla rettificazione di sesso, la legge 40 del 2004, sulla procreazione medicalmente assistita. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 12 ss.
54 La Corte Costituzionale, con sentenza numero 253 del 2006 ha appunto per violazione dell’area di competenza esclusiva della legislazione statale, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 7, comma 5, della legge della Regione Toscana 15 novembre del 2004, n. 63, recante “Norme contro le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere”, secondo cui “La richiesta di un trattamento sanitario, che abbia ad oggetto la modificazione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere per persona maggiore degli anni diciotto, deve provenire personalmente dall’interessato, il quale deve preventivamente ricevere un’adeguata informazione in ordine allo scopo e natura dell’intervento, alle sue conseguenze ed ai suoi rischi”. G. M. Vergallo, op. cit., pag. 12 ss.
55 Trib. Genova, 10 gennaio 2006, in Foro It.; Comitato Nazionale per la Bioetica, “Informazione e consenso all’atto medico”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 12 ss.
56 G. M. Vergallo, op. cit., pag. 12 ss.
57 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
58 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
59 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
60 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
61 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
62 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
63 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
64 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
65 M. Franzoni, “Fatti illeciti”, Bologna, 2004. G. M. Vergallo, op. cit., pag. 12 ss.
66 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
67 G. M. Vergallo, op. cit., pag. 12 ss.
68 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
69 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
70 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
71 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
72 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
73 G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
74 A. Fiori, “Evoluzione del contenzioso per resposanbilità medica”, op. cit., 186 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 12 ss.
75 G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.; AA. VV., “Problemi di responsabilità sanitaria”, Milano, 2007, 110.
76 G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.
77 G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.; AA. VV., “Problemi di responsabilità sanitaria”, Milano, 2007, 110.
78 Corte Cost., n. 416 del 1995. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.; AA. VV., “Problemi di responsabilità sanitaria”, Milano, 2007, 110 ss.
79 G. M. Vergallo, op. cit., 19 ss.; AA. VV., “Problemi di responsabilità sanitaria”, Milano, 2007, 110.
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