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Il consenso informato in psichiatria: introduzione
Si rende necessario, giunti a questa sezione della trattazione de quo, individuare il punto di contatto tra quanto illustrato fino ad ora e la sua applicazione – il quomodo del suo manifestarsi – nella scienza psichiatrica. Parallelamente all’avvento delle tematiche connesse alla bioetica ed alla maturazione deontologica della classe medica, anche la psichiatria ha rivisto il proprio ruolo sociale ed ha trasferito il campo d’azione dalle strutture manicomiali al territorio1. Il radicale cambiamento nel modo di considerare il soggetto affetto da disturbi psichici, avviato con la legge 431/1968 e portato a compimento con la legge 180/1978, ha trasformato il malato di mente da “oggetto” di custodia e di coercizione intramurale in soggetto che, se non interdetto o minore di anni 18, ha il diritto di decidere circa la propria salute, a meno che ricorrano i presupposti del trattamento sanitario obbligatorio2. Anche nel caso della malattia mentale, pertanto, il rispetto per la dignità umana (“Menschenwürde”, in tedesco) impone al medico di provare a riconoscere al paziente psichiatrico spazi di autodeterminazione, che devono essere cercati attraverso l’incontro umano: è scomparso il filtro della malattia mentale e dell’istituzione psichiatrica3. Tuttavia, la “battaglia non è stata del tutto ancora vinta”, come il Cupelli ha affermato, poiché il ricovero negli ospedali psichiatrici giudiziari , noti come OPG (breviter), rappresenta/va la misura di sicurezza personale detentiva riservata, ex art. 222 c.p., agli autori di delitti dolosi, puniti in astratto con la reclusione superiore nel massimo a due anni, che, prosciolti per vizio totale di mente determinato da infermità psichica ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, siano stati ritenuti pericolosi4. La misura di sicurezza degli OPG è temporalmente indeterminata, definendone il codice penale la durata minima in relazione alla pena stabilita per il reato5. Decorso questo periodo, il giudice prende nuovamente in esame le condizioni della persona internata, per stabilire se sia ancora socialmente pericolosa e se risulta tale l’autorità giudiziaria fissa un nuovo termine per un ulteriore esame, prorogando la misura segregante, ex art. 208 c.p.6 In realtà accade che la proroga intervenga comunque quando la famiglia d’origine o le strutture sanitarie territoriali non siano in grado di prendere in carico chi avrebbe il diritto di uscire dagli ospedali: si realizza così una sorta di “ergastolo bianco”7. Sono, inoltre, venute alla luce le gravità delle condizioni igienico-sanitarie, organizzative e clinico-psichiatriche dei sei OPG esistenti in Italia relativamente all’assetto strutturale ed alle condizioni appena menzionate, all’assistenza socio-sanitaria, prestata dal personale medico, infermieristico, riabilitativo, educativo, ausiliario e sociale, e alle contenzioni fisiche ed ambientali8. È come se la riforma del 1978 si fosse tradotta in un “mero mutamento di etichetta”, da “manicomio giudiziario” in “ospedale psichiatrico giudiziario”, dalla natura essenzialmente custodialistica e repressiva, incurante delle esigenze di cura, di riabilitazione e di reinserimento sociale nel rispetto delle fondamentali garanzie costituzionali della tutela della salute e della dignità della persona9. Tuttavia, con la Legge del 30 maggio 2014 n. 81 gli operatori sanitari sono stati chiamati a “governare” le nuove strutture residenziali territoriali ove sono eseguite le misure di sicurezza, le c.d. REMS, costituendo esse un rischio di “ritorno al passato”10. Il timore nasce osservando come all’interno delle strutture, destinate a soppiantare gli “indegni” OPG11, continuino a convivere compiti sanitari, indirizzati al trattamento ed al recupero dei “malati” di mente, e “funzioni penitenziarie”, improntate al controllo ed alla custodia degli internati; con la differenza che mentre in passato la netta separazione tra amministrazione penitenziaria ed amministrazione sanitaria, caratterizzata da latenti conflittualità e reciproca diffidenza, consentiva di marcare la distinzione tra compiti esclusivamente terapeutici, demandati agli operatori psichiatrici, ed aspetti custodiali e securitari, rimessi ai soli rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria, l’odierna attribuzione in via esclusiva della gestione interna delle strutture alla componente medica finisce per riservare a questa anche i relativi compiti di “gestione della sicurezza”12. L’effetto prodotto è il seguente: avvenuta la sanitarizzazione, i due profili di cura e di custodia appaiono destinati a sovrapporsi, cossicché lo psichiatra sarà nuovamente chiamato a “garantire”, in via primaria, l’ordine pubblico e la tutela della collettività, con le annesse ricadute sul piano delle responsabilità penali che, proprio alla luce del segnalato trend giurisprudenziale, ne potranno derivare13. Questo è, dunque, il contesto profondamente instabile ed intrinsecamente “contraddittorio”, nel quale lo psichiatra da sempre si trova ad operare, stretto fra “l’incudine ed il martello”14 – come si vedrà in seguito nel paragrafo dedicato alla “posizione di garanzia dello psichiatra” – o meglio “tra due fuochi”, che incontra già nello stadio diagnostico e destinate ad amplificarsi allorquando, nelle valutazioni terapeutiche, è chiamato a calibrare i rischi non solo per il paziente, ma anche per la collettività15. Così diventa inevitabile per l’operatore psichiatrico trovarsi in un vicolo ove “non vi sia scampo”; esposto alle imprevedibili valurazioni ex post del giudice, che potrebbe contestargli, alternativamente o a seconda di ciò che si è concretamente verificato, di “non aver fatto abbastanza” o “di aver fatto troppo”: id est, o il mancato ricorso al trattamento sanitario obbligatorio, nel caso di gesti eterolesivi di un paziente non contenuto, o l’addebito di avere strumentalizzato quest’ultimo per esigenze diverse da quelle strettamente terapeutiche, e quindi anche a tutela di terzi, nell’ipotesi in cui derivino atti autolesivi in un contesto di arbitrarietà del trattamento, ad esempio nel caso di suicidio del paziente16. Per concludere, la preoccupazione profonda è che si possano generare, da un parte, applicazioni elastiche dei requisiti terapeutici richiesti per il ricorso a forme di trattamento coattivo, e, dall’altra, atteggiamenti di vero e proprio abbandono terapeutico, di tipo “difensivo” – inteso in un’accezione spuria, nella quale si fondono istanze di difesa sociale, a tutela di terzi esposti a gesti lesivi, e personale, dal rischio giudiziario –, che segna il passaggio da una medicina di scelte tecniche, a base consensualistica, ad una medicina “dell’obbedienza giurisprudenziale”, con la conseguenza che tutto ciò, come sottolinea il Cupelli, porterebbe con sé ripercussioni negative su quello che dovrebbe essere il reale obiettivo terapeutico, e cioè la salvaguardia e la cura del paziente psichiatrico17.
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La tutela della libertà di autodeterminazione del malato di mente
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Il recupero e la salvaguardia della libertà del paziente è divenuta uno degli scopi fondamentali della psichiatria riformata in un contesto di cura: un riconoscimento che ha intrapreso un’inversione di tendenza il cui primo ed immediato corollario giuridico, in coerenza con l’art. 32 Cost. è stata la proclamazione della volontarietà dei trattamenti sanitari18. Come già ricordato, l’obbligatorietà dei trattamenti sanitari è subordinata al rispetto dell’art. 32, comma 2, Cost. e delle disposizioni di legge che ne disciplinano l’esecuzione. In materia di trattamento delle malattie mentali, le condizioni entro cui procedere, anche senza il consenso del paziente, sono formalizzate negli artt. 33 ss. legge n. 833/197819 istitutiva del Servizio sanitario nazionale, nella quale sono state convogliate le disposizioni già previste ad hoc dalla legge 180/1978. Ai sensi dell’art. 33, comma 3, costituiscono presupposti generali dei trattamenti sanitari obbligatori ( breviter, T.S.O.), la proposta motivata di un medico ed il provvedimento di accoglimento, che è di competenza del sindaco nelle sue qualità di autorità sanitaria20. Analogamente, il Sindaco provvede anche sulle richieste di revoca e di modifica del trattamento stesso, la cui legittimazione spetta a chiunque (art. 33, commi 7-8). A conferma dell’importanza della volontà del malato, anche il trattamento obbligatorio deve essere accompagnato “da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”, il quale, comunque, ha sempre “diritto di comunicare con chi ritenga opportuno” nel corso del trattamento (art. 33, commi 5-6)21. Questa disciplina generale trova specificazione negli artt. 34 e 35. Il primo sancisce che gli interventi di prevenzione, di cura e di riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi territoriali extraospedalieri di cui al primo comma (art. 34, comma 3)22. Tuttavia, è anche possibile che la terapia psichiatrica sia eseguita in regime di degenza ospedaliera, purché sussistano ulteriori e più restrittivi presupposti: sussistenza di “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici”; rifiuto degli stessi da parte dell’infermo; mancanza di condizioni e di “circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”23. Inoltre, la proposta del medico, necessaria per tutti i trattamenti sanitari obbligatori, deve essere convalidata da un medico della A.S.L., prima del provvedimento del Sindaco e questo deve essere motivato in relazione alla sussistenza dei sopra indicati requisiti24. L’art. 35, commi 1 e 2, legge n. 833/1978 introduce, infine, l’obbligo del Sindaco di trasmettere al giudice tutelare “entro 48 ore dal ricovero” il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio25. Questi decide, con decreto motivato, se convalidare o meno il provvedimento del Sindaco. In caso di mancata convalida, il Sindaco ne dispone la cessazione in condizioni di degenza ospedaliera26. Infine, l’inosservanza della dettagliata procedura stabilita dall’art. 35, commi 1, 4, e 5 “determina la cessazione di ogni effetto del provvedimento e configura, salvo che non sussistano gli estremi di un delitto più grave, il reato di omissione di atti di ufficio (art. 35, comma 7)27. Dal rigore di questa disciplina, basata sui principi di eccezionalità, di residualità e di transitorietà del trattamento sanitario obbligatorio per malattie mentali in regime ospedaliero sembra emergere l’esigenza di interpretare restrittivamente le indicate condizioni di liceità28. Ai fini della validità del trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale si profila particolarmente delicato l’accertamento della presenza di “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici” 29. In proposito, la giurisprudenza ritiene che “l’intervento definito terapeutico, e quindi necessario alla cura della patologia, può essere disposto obbligatoriamente solo in quanto l’alterazione psichica coincida con una pericolosità almeno per sé”30. Tale interpretazione, infatti, discende dall’art. 32, comma 2, Cost. e dallo stesso art. 1 legge n. 180/1978, il quale ribadisce che l’obbligatorietà dei trattamenti non può arrecare pregiudizio alla dignità della persona ed ai diritti civili e politici costituzionalmente garantiti, “compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura”31. Inoltre, poiché ogni paziente è libero di rifiutare le cure per lasciare che la malattia faccia il suo corso, è vietato “costringere il paziente psichiatrico a subire cure, che egli rifiuti, con il solo fine di curare la malattia”32. Di conseguenza, il trattamento sanitario obbligatorio delle malattie mentali è lecito solo quando il pericolo per il malato di mente deriva “non semplicemente dalla persistenza della patologia e dalle sue possibili conseguenze psichiche ed organiche, ma dalla possibilità che questa possa condurre atti lesivi autonomi ed ulteriori”33. In giurisprudenza, si valorizza l’importanza del rapporto medico-paziente anche nella terapia delle malattie mentali. In un recente caso, il trattamento sanitario obbligatorio era stato ordinato dal Sindaco in accoglimento delle richieste di due medici attestanti uno “stato d’eccitazione maniacale” reso oltremodo pericoloso dal fatto che il malato disponeva di un’arma34. Secondo il giudice, “i dodici giorni di degenza forzata” nei quali si è esplicato il trattamento sanitario obbligatorio, con relativi controlli invasivi e terapie farmacologiche, pur necessari in relazione all’obiettività clinica, hanno integrato l’illecita violazione del diritto, costituzionalmente garantito, di scegliere o meno di sottoporsi ad un trattamento sanitario obbligatorio, sia perché non si è cercato in alcun modo di provocare il consenso del malato, sia perché nessuno dei medici coinvolti nella proposta di trattamento sanitario obbligatorio aveva un colloqui personale e diretto con il medesimo35. La legge n. 180/1978, infatti, “vieta che il T.S.O sia disposto nei confronti di soggetto che, quand’anche presuntivamente pericoloso per sé e per gli altri, non sia stato direttamente e personalmente visitato nell’immediatezza della proposta; la legge vieta che il T.S.O. sia proposto e convalidato nei confronti di soggetto che non sia stato posto nelle condizioni di scegliere terapie alternative”36. Sussistendo tale violazione dei requisiti previsti dalla legge ai fini dell’esecuzione del trattamento sanitario obbligatorio, diventa irrilevante il fatto che il malato, già querelato per episodi di danneggiamento, fosse armato ed avesse manifestato, negli ultimi anni, alto tasso di litigiosità, ed ancora irascibilità ed instabilità emotiva, al punto che, nei giorni precedenti il trattamento sanitario obbligatorio, la famiglia aveva smesso di vivere con lui37. Infatti, secondo il Tribunale, se si ritenesse diversamente, si finirebbe con lo svuotare di qualsiasi contenuto la disciplina della legge n. 180/1978, che “si basa sulla filosofia per la quale la limitazione alla libertà personale del soggetto portatore di un disagio psichico costituisce, assolutamente, extrema ratio, alla stregua di misura cautelare appunto privativa della libertà personale”, e quindi non persegue alcuno scopo preventivo, né generale, né speciale38. Di conseguenza, l’esigenza di difendere la collettività da soggetti pericolosi deve essere realizzata ricorrendo alle misure cautelari tassativamente previste dalla legge, e non indulgendo ad azioni illecite39. Irrilevante è, ulteriormente, la circostanza che, dopo la scadenza del trattamento sanitario obbligatorio, il malato abbia spontaneamente continuato a sottoporsi alle terapie. Infatti, secondo il Tribunale, il fatto che il trattamento sia proseguito con il consenso del malato, e quindi lecitamente, non elide la responsabilità dei sanitari per l’illecito precedentemente consumatosi, perché “i presupposti del T.S.O. non possono emergere ex post: essi devono essere valutati prima del ricovero coatto”40. Oltre al rapporto diretto medico-paziente, particolarmente importante è anche la motivazione del provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio, in quanto necessaria per accertare la sussistenza dei requisiti di legge41. La Suprema Corte, in proposito, afferma che “la motivazione esclusivamente per relationem, ai precedenti provvedimenti ed alle certificazioni sanitarie, in concreto adottata” dal Sindaco è “incompatibile con il disposto normativo di cui all’art. 34 legge n. 833/1978, espressamente impositivo dell’obbligo di motivazione in relazione alla esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, alla mancata accettazione di tali interventi da parte dell’infermo, all’assenza di condizioni e circostanze tali da consentire l’adozione di tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”42. Pertanto, la patologia psichica non può consentire al medico di violare le norme poste a tutela della dignità e della libertà del malato di mente, la cui condizione di debolezza complica l’operato del medico costringendolo a ricercare un rapporto diretto e personale che in questi casi è più difficile trovare rispetto ad altre patologie43
8.2. Il trattamento sanitario obbligatorio del minorenne
Sebbene sia un aspetto trascurato dalla giurisprudenza, sussiste il problema se la terapia psichiatrica sul soggetto minore d’età debba essere intrapresa con l’osservanza delle condizioni e delle procedure stabilite dalla legge n. 833/1978, oppure necessiti soltanto il consenso dei genitori. A sostegno della validità del consenso dei genitori depone la regola generale che impone, per ogni trattamento da eseguire sul figlio minore, di informarli e di acquisire la loro accettazione44. Tuttavia, in senso contrario, il fatto che il legislatore abbia previsto una disciplina speciale per le terapie psichiatriche, per giunta basata sui principi di eccezionalità, residualità e transitorietà, induce a ritenere che, a garanzia del minore, l’inizio di trattamenti così delicati debba avvenire con l’osservanza di tutti gli indicati presupposti di legge e non con il solo consenso dei genitori45. Se si subordinasse la liceità dei trattamenti sanitari obbligatori a requisiti diversi a seconda della maggiore o minore età del soggetto su cui devono essere eseguiti, ne deriverebbe una disparità difficilmente conciliabile con l’art. 3 Cost.46
1 G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.; C. Cupelli, “La responsabilità penale dello psichiatra”, Napoli, 2013, 63 ss.
2 F. Fasolo, “Etica e psichiatria. Dal manicomio al territorio”, Padova, 1994. Si veda C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
3 P. Dell’Acqua, “Persone, malattia mentale e guarigione”, Milano, 2011, 783 ss.; E. Borgna, “Di armonia risuona e di follia”, Milano, 2012, 151 ss.; G. Allegri, “Per una “ragionevole follia”: le pratiche possibili di un nuovo costituzionalismo garantista, in Libertà sospesa. Il trattamento sanitario obbligatorio. Psicologia, psichiatria e diritti”, Roma, 2012, 9 ss. C. Cupelli, op. cit., 63 ss.
4 G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
5 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
6 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
7 F. Schiaffo, “Le funzioni latenti del sistema penale: l’ospedale psichiatrico giudiziario”, in Crit. dir., 2012, 277, il quale sottolinea che “la funzione dell’ospedale psichiatrico giudiziario sembra risolversi essenzialmente nel ricovero e quindi nella cura di quelli che un tempo, a seconda del momento in cui è intervenuta la infermità psichica, venivano considerati folli rei o rei folli” e ad esso “potrebbero essere destinate esigenze sociali molto diverse da quelle del controllo penale”, e le sue funzioni reali e latenti “potrebbero farne un sostituto o equivalente funzionale di altre strutture sociali, non necessariamente penali, che, in contesti sociali più o meno ampi, non funzionano come dovrebbero o, peggio, non esistono”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
8 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
9 G. Fiandaca-E. Musco, “Diritto penale. Parte generale”, Bologna, 2009, 839 ss; A. Manna, “L’imputabilità e i nuovi modelli di sanzione. Dalle “finzioni giuridiche” alla “terapia sociale”, Torino, 1997, 231 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
10 C. Cupelli, “La colpa dello psichiatra. Rischi e responsabilità tra poteri impeditivi, regole cautelari e linee guida”, in “Diritto penale contemporaneo”, 7 ss.
11 Già con il D.P.C.M. 1 aprile 2008 (in particolare allegato C) ha preso avvio la c.d. sanitarizzazione degli OPG, con il traferimento della medicina penintenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, con residue funzioni organizzative e di raccordo in capo all’Amministrazione penitenziaria ; il D.P.C.M., recante “Modalità e criteri per il traferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria”, ha infatti espressamente previsto il trasferimento delle funzioni sanitarie svolte in tutti gli istituti penitenziari, OPG compresi, dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale, pur restando la struttura un’istituzione penitenziaria, governata quindi dal Ministero della Giustizia. C. Cupelli, op. cit., 7 ss.
12 C. Cupelli, op. cit., 7 ss.
13 Accenna alla questione A. Massaro, “Sorvegliare, curare e non punire: l’eterna dialettica tra “cura” e “custodia” nel passaggio dagli ospedali psichiatrici giudiziari alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”, p. 1372. Si veda C. Cupelli, op. cit., 7 ss.
14 M. Zanchetti, “Fra l’incudine e il martello: la responsabilità penale dello psichiatra per il suicidio del paziente in una recente pronuncia della Cassazione”, in Cass. pen., 2004, p. 2859. Si veda C. Cupelli, op. cit., 7 ss.
15 Egli versa in una situazione “di pressione sociale” in cui gli viene imposto un più o meno sistematico atteggiamento di repressione preventiva nei confronti di iniziative del suo paziente potenzialmente lesive di beni giuridicamente protetti, a scapito di un’azione realmente terapeutica, imponendogli così un tipico compito di controllo disciplinare; e da una speculare controspinta, di matrice normativa e deontologica, che gli impone di rivendicare la finalità esclusivamente terapeutica del suo agire, richiamandolo ai doveri tipici di prevenzione, cura e riabilitazione dei disturbi psichici. C. Cupelli, op. cit., 7 ss.
16 Paradigmatico è, in questo senso, il caso “Mastrogiovanni”, nel quale il Tribunale di Vallo della Lucania ha condannato il primario e altri cinque medici in servizio presso il reparto psichiatrico dell’Ospedale “San Luca” di Vallo della Lucania, ai sensi degli artt. 110 e 605, c. 1 e 2, n. 2, c.p., per il delitto di sequestro di persona, realizzato mediante contenzione meccanica al letto di degenza e, ai sensi degli artt. 110, 586 e 605 c.p., per aver cagionato la morte del paziente, come conseguenza del delitto di sequestro di persona, essendo risultata accertata l’incidenza causale nel decesso della contenzione fisica; così il Trib. Vallo della Lucania, sent. 30 ottobre 2012, dep. 27 aprile del 2013, nella Rivista di “Diritto penale contemporaneo”, 12 giugno 2013. Nella ricostruzione accusatoria, sposata dalla pronuncia, la contenzione sarebbe stata praticata, in assenza di qualsiasi giustificazione terapeutica, al solo fine di assolvere un atto d’indagine richiesto dalle forze dell’ordine. Si veda C. Cupelli, op. cit., 7 ss.
17 S. Jourdan, “La responsabilità dello psichiatra per le azioni violente compiute dal paziente: prevedibilità dell’evento e possibilità di evitarlo”, in “La responsabilità dello psichiatra”, a cura di U. Fornari- S. Jourdan, Torino, 2006, p. 115. Si veda C. Cupelli, op. cit., 7 ss.
18 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.
19 Nell’enunciazione degli obiettivi, l’art. 2, comma 2 lett. g) indica “il perseguimento della tutela della salute mentale, privilegiando il momento preventivo (…), in modo da eliminare ogni forma di discriminazione e di segregazione (…) e da favorire il recupero ed il reinserimento sociale dei disturbati psichici”. C. Cupelli, op. cit., 63 ss.
20 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
21 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
22 G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
23 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
24 F. Dassano, “La tutela dell’incapace e l’amministrazione di sostegno”, Rimini, 2004, 88 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
25 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
26 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
27 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
28 A. Pellegri, “La tutela dell’infermo psichico nel trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera”, in Dir. Fam. Pers., 2001, 38 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
29 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
30 Trib. Cagliari, 9 luglio 2005, in www.personaedanno.it. Vedi G. M. Vergallo, 250 ss.
31 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
32 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
33 Trib. Cagliari, 9 luglio 2005. In tale fattispecie, l’accertamento della pericolosità del soggetto è stato raggiunto sulla base delle “deposizioni degli agenti della Polizia di Stato, sulla cui attendibilità non vi è ragione di dubitare, che hanno riferito come nella fase di eccitamento il paziente abbia afferrato un coltello e successivamente una bottiglia e successivamente sia uscito nel balcone della propria abitazione, dove gli agenti, su indicazione del sanitario, hanno proceduto ad immobilizzarlo, anche e soprattutto in ragione del fatto che la vicina aveva loro raccontato come una volta il paziente avesse tentato di lanciarsi nel vuoto”. Tuttavia, pur ritenendo lecita l’esecuzione del trattamento sanitario obbligatorio, il giudice tutelare ha stigmatizzato l’operato del medico che aveva convalidato la proposta. Questi, infatti, aveva omesso di intraprendere qualsiasi “tentativo diretto a favorire il consenso del paziente”, in quanto, come emerso dall’istruttoria, “egli ripeteva, con modalità non adeguate alla delicatezza dell’intervento, che il foglio era stato firmato e non vi era niente da fare”. Invece, secondo il Tribunale, “il rispetto per la dignità della persona (…) impone di evitare nell’esecuzione del trattamento modalità percepite come “burocratiche”. Gli effetti di tale approccio, infatti, appaiono devastanti, avendo determinato una reazione del paziente di assoluta umiliazione nella persona, prevedibile e che lascerà tracce per lungo tempo in una psiche già ammalata e con verosimili difficoltà di un futuro rapporto terapeutico”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
34 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
35 G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
36 F. Ambrosetti, M. Piccinelli, R. Piccinelli, ne “La responsabilità nel lavoro medico d’équipe”, Torino, 2003, 138 ss., rilevano che, in mancanza di esame diretto del paziente, la proposta e/o la convalida del trattamento sanitario obbligatorio basate sulle sole informazioni provenienti da terzi, sia pur parenti del paziente, integrano il reato di falso ideologico in certificati ex art. 481 c.p. Vedi G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
37 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 250 ss.
38 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
39 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
40 Trib. Venezia, 26 settembre – 19 dicembre 2005, ha escluso la sussistenza dello stato di necessità, perché l’art. 54 c.p. “presuppone l’assenza di alternative operative”; alternative che, in tale fattispecie, sussistevano ed erano facilmente realizzabili, in quanto, per evitare di violare la legge, sarebbe stato sufficiente sottoporre il malato ad un esame clinico, o almeno tentare di farlo, e dargli la possibilità di sottoporsi volontariamente alle cure, previa adeguata informazione. Si veda C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
41 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
42 A. Venchiarutti, “Nessun ricovero obbligatorio per malattia mentale senza motivazione”, in Dir. Fam. Pers., 2001, 21, con nota di A. Pellegri, “La tutela dell’infermo psichico nel trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera in una sentenza della S.C.: una giusta riaffermazione di principi ormai consolidatisi, ma non sempre adeguatamente valorizzati ed applicati dalla giurisprudenza di merito”. G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
43 In termini normativi è stato formalizzato “il passaggio della psichiatria da branca genericamente afferente alla sanità pubblica a settore integrato nel servizio sanitario nazionale” e questa assume “più specificamente la funzione di scienza della salute ad alta complessità sociale, e come tale viene legittimata la sua autonomia di disciplina specialistica della medicina”; A. Venchiarutti, “Obbligo e consenso nel trattamento della sofferenza psichica”, op. cit.. G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
44 G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
45 G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
46 G. M. Vergallo, op. cit., 253 ss.
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