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Fare i conti col digitale. Considerazioni su difficoltà e possibilità

17 Nov 16

Di r.maragliano
In tanti dei discorsi correnti su bambini e adolescenti (ma talora, non fosse altro che per ragioni anagrafiche, sono discorsi anche sugli adulti) il digitale sembra essere vissuto e inteso come un ostacolo al perseguimento di un equilibrato e produttivo rapporto con la realtà, con tutta la realtà, e appare fungere dunque da fattore di rallentamento o addirittura di blocco rispetto al perseguimento di quella pienezza umana che si è soliti far coincidere con la maturità personale e sociale.
Di più: a seguire i ragionamenti lì sviluppati e soprattutto a considerarne il tono, perlopiù disperante e luttuoso, parrebbe legittimo ipotizzare che chi se ne fa promotore trovi legittimo ritenere che senza il digitale il mondo risulterebbe decisamente più trasparente e praticabile.
Chiarisco quest’ultimo passaggio, che tocca un aspetto delicato.
Ho detto che chi pensa così ritiene che senza il digitale le cose andrebbero meglio, ma va chiarito che difficilmente questi arriva a pretendere che ciò avvenga. Così si aggiunge un’ulteriore colore ad un simile atteggiamento: l’ombra di fatalismo di chi, costretto ad ammettere che il digitale c’è, e piace, con tutti gli effetti perversi che inevitabilmente produce, poco ritiene di poter fare per contrastarne l’azione, se non, appunto, agire perché, attraverso opportune iniezioni di realtà, il giovane si tenga il più possibile al riparo di tali rischi.
 
Viene però da chiedersi: su quali basi teoriche poggia questo modo, peraltro molto diffuso, di intendere il rapporto fra digitale e mondo? E cosa c’è di specifico nel digitale che rende inquinato e inquinante tale rapporto?
 
Ho l’impressione che al fondo di tutto ciò ci sia un modo molto sbrigativo di interpretare e praticare il concetto di “virtuale”. In che senso sbrigativo? Nel senso che riconoscendogli lo statuto di ente, di un qualcosa in cui si vedono oggettivate le dimensioni del fittizio, è giocoforza contrapporlo alla realtà.


 
Ma, chiedo, dal punto di vista concettuale, questo schema è legittimo? È legittimo separare nettamente reale e virtuale?
Aggiungo:

  • i sistemi simbolici di cui l’uomo si è servito fino all’avvento del digitale per fare, comunicare, essere (dalla parola parlata alla parola scritta e stampata, per non dire delle forme musicali e dell’arte visiva nonché del modelli di produzione artigianale e industriale) cosa avevano e hanno di costituzionalmente diverso e di simile rispetto ai sistemi simbolici promossi e/o portati alla luce della frequentazione del digitale?
  • se comunicare via social network è una procedura alienante, per il fatto che porta a dissociare il contenuto della comunicazione dalla soggettività umana e materiale dei soggetti implicati, come non cogliere nella comunicazione via scrittura fisica, sia pure in una misura diversa, lo stesso meccanismo di alienazione?
  • come non vedere che, paradossalmente, in qualsiasi tecnica di retorica verbale, perfino in quella utilizzata in una relazione affettiva per far aderire il o la partner ad una propria scelta, agiscono contemporaneamente, intrecciandosi, ciò che si considererebbe naturale o reale e ciò che si vedrebbe invece come fittizio e alienante?
 
Insomma, i rischi che si corrono, nell’aderire ad un simile automatismo concettuale, è di interpretare tutto e il tutto secondo un’unica dimensione e, aspetto più grave ancora, quello di porsi al di fuori di ogni possibilità di cogliere, nelle pratiche del digitale, ciò che starebbe in continuità con lo sviluppo storico dei sistemi simbolici, dei modi di costruire il mondo e se stessi nel mondo, e ciò che ne rappresenterebbe invece l’elemento differenziante rispetto alle forme consuete.
 
A mio avviso il problema non sta nel digitale ma in ciò che forzatamente gli si attribuisce. Anzi, ho idea che dovremmo non già demonizzarlo ma farcene alleati, perché il digitale ci permette di vedere meglio determinate cose.
 
Un effetto significativo dei fraintendimenti che si legano a tanti dei modi correnti di trattare il digitale e la rete spiega la fortuna dell’etichetta nativi digitali (sul tema c’è fresca fresca la bella nota di Gino Roncaglia nel volume collettaneo Il pregiudizio universale. Un catalogo d’autore di pregiudizi e luoghi comuni, uscito in questi giorni per Laterza). Sappiamo quanto siano suggestive considerazioni relative alle identità generazionali, ma sappiamo anche che spesso l‘individuazione stessa di tali identità e la loro conseguente etichettatura sono cariche di ambiguità. Intanto la formula dei ‘nativi digitali’ va rapportata al contesto geografico e temporale che l’ha vista nascere, diverso da quello attuale: gli Stati Uniti dei passaggio di millennio, quando, tanto per dire, c’era una grossa proiezione in positivo sul futuro e su la forza economica e sociale e culturale garantita dall’innovazione del digitale e della rete (media di marca statunitense ben più di quanto non fossero stati altri media, come la radio, il cinema, la televisione) e di conseguenza si era orientati ad interpretare la ripresa della natalità (dopo il baby boom del dopoguerra, e la stanca della cosiddetta generazione X, tra anni Sessanta e anni Ottanta, si assisteva, appunto con la generazione Y, quella dei nativi digitali, ad un incremento delle nascite) in termini fortemente ottimistici, come garanzia di un futuro “ricco e felice”  (sappiamo come diversamente è andata, con la crisi finanziaria, il terrorismo, le guerre, ecc.); e poi il parco macchine di quel periodo era prevalentemente stanziale, non essendo ancora maturata la svolta dello smartphone e quella del tablet, fenomeni che hanno decisamente cambiato le caratteristiche del vivere il digitale, e non solo per i giovani. Fatto sta che in quel determinato contesto si era proiettati a pensare che giovani nati dopo l’avvento della rete potessero maturare non solo e non tanto un’intelligenza, una sensibilità, un modo di percepire il mondo di tipo diverso da quello dei loro predecessori ma addirittura una diversa configurazione cerebrale. Tutto questo poteva essere letto in chiave positiva ma poteva anche essere interpretato (e da noi è perlopiù avvenuto questo) come una minaccia e dunque come una conferma dell’identità ‘altra’ del giovane. E comunque va riconosciuto che la dizione non ha fondamento, se non nell’accezione più ampia e generica che riguarda tutti noi, piccoli e grandi: lo vogliamo o no, lo accettiamo in termini operativi o no, siamo tutti generazione digitale, nel senso che lo spazio entro il quale siamo e facciamo (lo vogliamo o no, lo sappiamo o no) è retto comunque da un’infrastruttura digitale. In altri termini quell’etichetta non ci permette di distinguere loro da noi. Di qui la necessità di fare i conti con il digitale, per capire noi e loro assieme. Ci sono dunque alcuni elementi generali e alcuni specifici che vanno seriamente presi in considerazione per sviluppare un approccio corretto ai media digitali.
 
I media della conoscenza e della comunicazione sono ad un tempo agenti e specchi, inducono e riflettono. Pensare di trattare i media digitali solo da agenti che farebbero produrre comportamenti artificiali, poco naturali, significa pregiudicarsi la possibilità di cogliere la parte di natura/cultura che preesiste al loro avvento e che anche grazie alla loro azioneassume visibilità.
 
Per uscire dalla condizione di parzialità concettuale di cui sto dicendo occorrerebbe, io credo, impegnarsi a fare i conti con due non trascurabili ostacoli:
  • la resistenza a mettere in discussione un meccanismo così comodo e di valore apparentemente universale come quello che porta a contrapporre reale e virtuale (e a farlo settorialmente e drammaticamente per il digitale),
  • la difficoltà a conoscere e interpretare la fenomenologia del digitale standone al di fuori o adottando schemi interpretativi che sono coerenti con altri sistemi di conoscenza ed esperienza.
 
Sono il primo a riconoscere che non è cosa facile: si tratta di compiere uno sforzo nella direzione di un cambio di paradigma, e di farlo infrangendo un luogo comune che sembra avere dalla sua il conforto di dati di ricerca.
 
Per un verso ci si deve impegnare a cogliere nel virtuale non già un entità quanto un processo: un movimento, dunque, che non allontana dalla realtà ma, al contrario, la potenzia, ampliandone la portata, come è per tutto ciò che lo sviluppo dei sistemi simbolici ha portato e porta all’esperienza individuale e collettiva di uomo; e nessuno potrà negare che la facilità di accesso e di uso delle strumentazioni digitali (non solo per ciò che sono sul piano fisico ma anche e soprattutto per quel che sono su quello mentale e della sensibilità) sia una delle sue ragioni della sua fortuna.
Per un altro versante, decisamente più impegnativo, e per il quale nessuna osservazione che non sia partecipante potrà considerarsi legittima, ci si dovrà interrogare su ciò che differenzia l’apparato corporale, mentale, affettivo, relazionale posto in movimento e portato alla luce dai meccanismi del digitale e della rete rispetto a quelli consueti.
 
Non ci si può girare attorno.
  • La reversibilità dei processi (e dunque la messa in discussione, dal di dentro di una concezione spiraliforme e reticolare del tempo e dello spazio, dell’univocità delle procedure lineari),
  • l’iterazione e l’integrazione tra i codici (suono, immagine, scrittura assieme, in una chiave ad un tempo ricettiva e produttiva, al di fuori delle tradizionali gerarchie, anche di potere),
  • lo spazio di intermediazione tra sistemi (che tradizionalmente si intendevano come diversi e solo parzialmente comunicanti tra di loro e che oggi si trovano ad agire assieme),
  • la caduta dei meccanismi dell’intermediazione, in primo luogo di quelli escusivamente centrati sulla codifica istituzionale e autoritaria delle competenze,
  • l’ampliamento delle diverse attività contemporaneamente gestibili da parte del singolo.
Sono tratti costitutivi del vivere il mondo digitale e di rete.Chi li ha interiorizzati non ne può fare ameno. Presi e agiti tutti assieme danno a chi se ne fa portatore un’istanza illusoria di onnipotenza, illusoriamente in grado di garantire un controllo totale sulle situazioni di vita propria e altrui. Quando, invece, in molte delle situazioni in cui una tale tendenza si fa sentire il ricorso all’universo dell’esperienza e soprattutto della comunicazione telematica agisce come fuga dal contesto materiale, alibi per sottrarsi alla contingenza di una situazione o di un rapporto problematici. Basti pensare a quante volte capita a ciascuno di noi di utilizzare il cellulare a mo’ di schermo: per darsi un contegno, per allontanare un momento di noia, per evitare di stare ‘soli’ con se stessi.
 
Non c’è discorso che tenga, sul selfie come sul cyberbullismo o sul sexting, se non all’interno di una coraggiosa presa in carico degli elementi di complessità e problematicità portati alla luce dal digitale, in particolare per quanto attiene alle idee di realtà, di naturalità, di umanità: e dunque, anche e soprattutto, per quanto attiene ai meccanismi così importanti dell’empatia, di quanto, per intenderci, passa attraverso e dentro la condivisione fisica di un’esperienza, un’emozione, pure un’idea. È su questo terreno dell’incremento della consapevolezza individuale che si gioca qualsiasi impegno di terapia o di educazione che intenda seriamente affrontare le ragioni profonde (sia liberatorie sia vincolanti) dell’attaccamento di bambini e ragazzi nei confronti dei dispositivi tecnologici.
 
Ma, me lo si lasci dire, non si potrà venire a capo di questi impegni di elaborazione se non si saprà dare risposta all’interrogativo su ciò che di “perturbante” (in senso freudiano: cioè di un qualcosa che è avvertito come famigliare e allo stesso tempo come estraneo ed angosciante) c’è nel rapporto che tanti osservatori non partecipanti stabiliscono con la componente di realtà resa manifesta dai processi della virtualizzazione digitale.
“La tragedia è morta, è morto il dispositivo che mette in guardia il soggetto di fronte alle conseguenze dei suoi gesti; che, attraverso la scena, li rende possibili, ma non necessari. Siamo di nuovo preda della necessità. Abbiamo bisogno di una nuova cultura per rielaborare le conseguenze delle nostre azioni, una cultura meno psicotica”: così a proposito del caso di Tiziana Cantone e del rapporto fra pornografia e morte (http://www.doppiozero.com/materiali/porno-la-morte-della-sessualita).
 
 
Da tutto questo, in sintesi, è possibile ricavare una serie di moniti e di indicazioni per mettere i giovani nelle condizioni di maturare un uso corretto, equilibrato e riflessivo degli strumenti della produzione/ricezione digitale.
Moniti:
  1. Va interpretato in modo dialettico il rapporto fra vissuto e immaginario, dove al primo termine corrisponde la parte di conoscenza del mondo che l’individuo acquisisce per esperienza diretta e al secondo termine corrisponde l’insieme dei simboli, dei concetti, delle storie, dei miti condivisi dai membri di una comunità. Non c’è vissuto che non porti dentro di sé una quota di immaginario e che proprio tramite questa non si traduca in lingua, comunicazione, pure azione. Vero è che baciare fisicamente è diverso che vedere la rappresentazione di un bacio in un film o in un quadro o in una foto ma è altrettanto vero che una parte significativa del vivere un bacio fisico è garantita dalla gran quantità e qualità di baci indirettamente esperiti.
  2. Gli strumenti della comunicazione digitale e di rete, per il loro essere pervasivi, multimediali e interattivi incrementano come mai è accaduto nel passato qualità e quantità dell’immaginario condiviso. Per capire perché e come questo avviene occorre avere una precisa consapevolezza di cosa significa e cosa comporta per chi vive il presente la disponibilità di media capaci di: garantire all’utente una connessione costante di soggetto/ambiente,  soggetto/oggetto e soggetto/soggetto (pervasività); fargli trattare alla pari ed intrecciare una molteplicità di codici tradizionalmente veicolati da media diversi (multimedialità); attribuirgli in quanto ricettore e ad un tempo produttore la possibilità di trasformare gli oggetti (interattività).
  3. Per via delle caratteristiche indicate in 2. i media digitali e di rete incidono in profondità sui modi di concepire, praticare e vivere esperienza, conoscenza e comunicazione. I nativi digitali sono più esposti a questa sorta di ‘mutazione’, in particolare per il fatto che forme storicamente diverse di comunicazione e di esperienza tendono ad essere inquadrate e filtrate dentro la nuova cornice. Per chi è nato dentro un mondo digitalizzato non c’è elemento di conoscenza e esperienza e comunicazione che sfugga a questa infrastruttura. Così è per il leggere, per lo scrivere, per il conversare.
  4. È illusorio ritenere che i problemi di isolamento, aggressività, esibizionismo cui vanno soggetti i giovani e ai quali ai media digitali fanno da specchio e veicolo spesso amplificante possano essere affrontati e risolti ignorando le ragioni più profonde delle condotte che vi si associano: ragioni che hanno a che fare con fenomeni profondi di portata epocale (urbanizzazione, globalizzazione, squilibri demografici), rispetto ai quali l’uso dei media digitali rappresenta non già una causa quanto un effetto, con funzione di compensazione.
  5. È altrettanto (e forse ancor più) illusorio ritenere che chi è deputato a intervenire in chiave di sostegno, educazione o terapia nei confronti del ‘nativo’ possa farlo senza avere diretta, profonda e consapevole esperienza personale di vita digitale.
 
            Indicazioni:
  1. Parlare di ‘salute mentale’ al giovane usando la sua lingua o almeno mostrando di capirla.
  2. In temini logici e temporali evitare di anteporre il problema dei rischi a quello delle opportunità.
  3. Usare costantemente l’immaginario digitale come enciclopedia e dizionario.
 
Per uno sviluppo di alcuni dei temi qui trattati, che sia coerente con il tipo di considerazioni che ho proposto, rimando all’e-book di Ornella Martini, Dare corpo. Idee scorrette per una buona educazione, uscito qualche mese fa nella collana di e-book #graffi di cui sono responsabile (https://ltaonline.wordpress.com/graffi/dare-corpo/). Lo si trova in tutte le librerie digitali. Perché, chiederete forse, se è un saggio rivolto ad adulti, lo si rende disponibile solo in versione digitale? La risposta sta in quanto ho sostenuto fin qui, vale a dire nella necessità, per noi tutti, di superare censure e resistenze concettuali riguardo al contributo che digitale e rete forniscono al processo di costruzione di una realtà che è anche la nostra realtà (di emigranti digitali e non solo).
Rimando anche al sito POL.it (http://www.psychiatryonline.it/) il più grande contenitore editoriale italiano in campo psichiatrico/psicoterapeutico (per il quale ho prodotto la serie di videopost Parlodigitale: https://goo.gl/D3xrGV).
Segnalo inoltre l’attività dell’Istituto Winnicott – ASNE-SIPsIA (http://www.istitutowinnicott.it/)  e in particolare il convegno romano dello scorso giugno su Il pensare e l’apprendere (https://goo.gl/twzugS) e quello recentissimo di Napoli su Nuovi legami, realtà virtuali e nuove tecnologie (https://goo.gl/i0nQDy).
Chi fosse interessato ad approfondire il punto di vista qui presentato è invitato a seguire il blog del Laboratorio di Tecnologie Audiovisive (Dipartimento di Scienze della Formazione, Università Roma Tre): https://ltaonline.wordpress.com/ e può liberamente accedere alla cartella Google Drive Scaffale Maragliano (https://goo.gl/XbT62M) dove ho inserito copia pdf di una settantina di mie pubblicazioni, dal 1973 ad oggi (per info sull’iniziativa: https://ltaonline.wordpress.com/2016/11/02/scaffale-maragliano/

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