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L’ineffabile separazione dall’oggetto primario digitale

1 Ago 20

Di Andrea-Ronconi

Abstract

The present article aims to look into the sharing of both psychological and fisical aspects that took part and helped the spreading of Internet use and its social rooting. A so wide accurence may allow to assume that there could be a possible common matrix, among the reasons that made this phenomenon possible, related to a particular psychological setup. The point of view here discussed wants to interpret the need that joints the subject-user to the object-Internet as a reimagined and revised reflex of ancient and original matters connected to the relationship between child and primary object. The fact that the subject-user pretends to be always-connected to the always-available object-Intenet draws the attention on a basic dynamic involved in every relation that is the one concerning the separation anxiety to the object. The overlay between the connection-relationship of the subject to the Internet and the separation anxiety issue is handled keeping in mind the rapprochement subphase of the Margaret Mahler separation-individuation process.

The work finally proposes a discussion about the role that the body plays within the relationship with the virtuality through the embodied simulation model.

 

Abstract

Il presente lavoro intende approfondire la compartecipazione di alcuni aspetti tanto psicologici quanto corporei che hanno preso parte e contribuito alla diffusione dell'utilizzo di Internet e al suo attecchimento sociale. Un fenomeno verificatosi su così larga scala può infatti autorizzare a pensare che tra i moventi che ne hanno reso possibile la proliferazione possa esserci una eventuale matrice comune, riferibile ad un assetto psicologico con caratteristiche specifiche. Il punto di vista percorso in questo articolo interpreta la necessità che lega l'utente-soggetto all'oggetto-Rete come un riflesso, rivisitato ed aggiornato, di antiche e primarie vicende relative alla relazione tra bambino ed oggetto primario. L'essere-sempre-connesso, dell'utente soggetto, ad un oggetto-Rete, sempre-presente, mette in gioco una dinamica fondamentale, tipica di ogni relazione, ovvero quella inerente l'angoscia di separazione dall'oggetto. La sovrapposizione tra la connessione-relazione del soggetto con la Rete e la tematica dell'angoscia di separazione viene affrontata avendo come schema di riferimento la sottofase di riavvicinamento del processo di separazione-individuazione della psicoanalista Margaret Mahler.

Il lavoro propone infine una discussione sul ruolo del corpo nel rapporto con il virtuale, in particolare attraverso il modello della simulazione incarnata.

 

L'osservazione pertinente l'espansione a livello mondiale del fenomeno digitale elicita alcune suggestioni che, se osservate in controluce, incominciano ad intrecciare segni di un certo interesse. Infatti si può supporre che l'accoglienza riservata alla Rete possa rappresentare non solo l'esito fortunato di una ramificazione tecnologica al servizio di differenti settori, o il frutto esclusivo di una pressante strategia consumistica, bensì il segnale di un ruolo in cui si è andata a collocare all'interno della vita fantasmatica dell'individuo.

Affinché il discorso in questa sede non sia eccessivamente pedante, rimando il lettore che voglia curiosare tra le cifre e i dati circa la diffusione della Rete, e di tutto il mondo che vi ruota intorno, all'annuale Report Digital 2019 effettuato da We Are Social, condotto insieme ad Hootsuite, piattaforma leader nel settore del social media management. Questo Report, elaborato come una serie di slide prevalentemente grafiche e di immediata lettura, presenta ed incrocia dati provenienti da più fonti, fornendo così un prospetto notevole ed articolato.

Ciò che questo report nel suo insieme conferma a suon di cifre è in fondo qualcosa che già sappiamo: la Rete rappresenta un fenomeno che ha colonizzato molti aspetti concernenti la nostra vita sociale, lavorativa, affettiva.

Smartworking, e-commerce, fruizione di canali video, lezioni didattiche, sono solo alcune attività che sono possibili tramite la Rete. Un altro dato inoltre, sempre estrapolato dal report, aggiunge un ulteriore sfumatura alla già centralità dell'utilizzo della Rete ovvero l'enorme impiego dei social media: è stimata una media nel mondo di circa nove account social a persona (Report Digital 2019, slide 79). Quest'area assume un peso importante nella discussione perché ha a che fare con la comunicazione tra individui, con lo scambio di contenuti e, quindi, con ciò che concerne il terreno della relazione. Per la funzione che hanno acquisito quale soggetto protagonista della nostra quotidianità, i social media vivono grazie al tempo che si dedica loro e, di conseguenza, al tempo che si trascorre sulla Rete.

Queste premesse trovano fondamenta nel momento in cui si intende sottolineare quanto la Rete sia attualmente un supporto ausiliario, prezioso come un insostituibile aiutante, sul quale corre un forte investimento. La Rete è presente al soggetto quale perenne oggetto al quale chiedere tutto, che può in apparenza chiarire e risolvere all'istante le richieste per le quali viene interrogata; può appurare un dubbio circa la grammatica, la geografia, o indicare quale strada percorrere, può intrattenerci durante le attese con giochi di infiniti tipi, può aiutarci a fare l'assicurazione della macchina o a scegliere il divano adatto al nostro salotto, può farci conoscere l'anima gemella così come propiziare il modo in cui consumare una rapida sessualità, può infine magicamente far apparire sullo schermo ciò che vorremmo avere e comprare. Una Rete quindi che tutto può, capace di accontentare qualsiasi richiesta sia presentata dal soggetto utente.

La Rete inoltre è, di per sé, sempre attiva e il fatto che ci si possa scollegare non implica un suo spegnimento; è l'utente che interrompe la connessione verso qualcosa che comunque c'è, continua ad essere. L'utilizzo poi della Rete, specificato dalle abitudini dell'utente, dai suoi gusti ed interessi, modella la rappresentazione di questa connessione-relazione secondo un attributo di esclusività. L'utente gode quindi della possibilità di potersi collegare-relazionarsi a suo piacimento e a sua volontà con un oggetto che, seppure impalpabile, è già presente, si percepisce posizionato all'esterno ed ad una certa distanza e sul quale può fare affidamento in maniera incondizionata. In una connessione-relazione così siffatta il soggetto utente può entrare ed uscire dalla connessione ovvero avvicinarsi o allontanarsi dall'oggetto-Rete secondo il suo volere; l'individuo può quindi interrompere il collegamento ma in realtà si sottrae da qualcosa che comunque gli sopravvive; l'oggetto-Rete di conseguenza continua ad essere presente senza che il distacco-disconnessione dell'utente deperisca il suo status di onnipresenza.

La prospettiva allora che sembrerebbe essere particolarmente seducente è quella secondo cui si fa esperienza della Rete come ad un oggetto-sempre-presente, onnipotente, sempre a disposizione, un oggetto esterno, che sta fuori da qualche parte ma allo stesso tempo qui vicino, impalpabile e allo stesso modo reale, qualcosa che non delude a patto però che l'utente sia, a sua volta, sempre-connesso. Perché infatti il soggetto utente possa godere di tutti questi benefici deve permanere in un costante collegamento con l'oggetto-Rete pena il venir meno di quest'aurea di sicurezza, sostegno, collaborazione che veste il rapporto tra utente e oggetto-Rete. Questo tipo di connessione-relazione sembrerebbe allora percorsa da una sottile tensione che però ruota intorno ai cardini presenza/assenza e vicinanza/lontananza dell'oggetto-Rete. In questa tipologia di relazione il soggetto utente non può più fare a meno dell'oggetto-Rete perché non potrebbe più servirsi di quei vantaggi (secondari potremmo dire) che proprio una relazione così esclusiva e duale sa elargire. Il soggetto allora deve mantenere quanto più possibile la prossimità all'oggetto-Rete e, quindi, non se ne può disconnettere.

Ma se si può abbozzare, sottesa alla relazione-connessione soggetto oggetto-Rete, una tematica relazionale incentrata sull'assenza/presenza dell'oggetto, non si può non chiamare in causa qualcosa di più radicale, profondo ed angosciante, che entra in gioco in una relazione, ovvero il tema della separazione. Se soggetto ed oggetto-Rete sono legati in un gioco continuo, un andirivieni svolto sul filo teso tra la vicinanza e un'assenza controllata, tra lo stare connesso e un'apparente lontananza e non-presenza dell'oggetto-Rete, si potrebbe allora considerare questa modalità come un artificio che intende in fondo eludere una temuta rappresentazione sorta intorno al solco non rimarginabile che una separazione lascerebbe.

D'altronde, in linea di massima, non è possibile parlare di separazione nel momento in cui un soggetto si confronta con qualcosa, l'oggetto-Rete, che è di per sé sempre-presente; mancano cioè i presupposti perché appunto un'azione separativa possa comportare quelle significative ripercussioni che coinvolgono tanto il soggetto quanto l'oggetto. Una separazione vera è propria quindi non è così facilmente specificabile dal momento che, per definizione, la separazione non può che rimandare a qualcosa che si interrompe, si allontana, un movimento che nel momento in cui accade è definitivo e non prevede alcun nuovo congiungimento.

Questa condizione che necessariamente lega il soggetto utente all'oggetto-Rete è tanto più rimarchevole se, tra i vari dispositivi con i quali l'utente può connettersi, si evidenziano le caratteristiche degli smartphone. Questi infatti sembrerebbero assumere e riassumere in sé quelle caratteristiche grazie alle quali si possa meglio desumere il rapporto tra soggetto e oggetto-Rete.

Se inizialmente, agli albori del Web, l'accesso alla Rete era consentito dai pachidermici personal computer relegati in un contesto casalingo o d'ufficio, adesso la connessione è, letteralmente, a portata di mano. Lo smartphone, un dispositivo portatile e a portata di tutte le tasche, sposa al suo interno alcune importanti esigenze che lo rendono particolarmente apprezzato dall'utenza, in confronto ad altri dispositivi che pure possono connettersi. Lo smartphone si può facilmente portare con sé, si collega alla Rete, si possono effettuare fotografie e video, ma, soprattutto, permette di monitorare costantemente le notifiche provenienti dai social media e tutto questo, a parte divieti specifici che ne impediscano l'uso o astensioni di tipo etico-educativo, si può fare ovunque.

Naturalmente, nell'elencare le abilità dello smartphone non si può dimenticare che con questi dispositivi si possono effettuare anche le chiamate. Questo dato, che sembrerebbe affossato ed oscurato da così tanta tecnologia che nel frattempo gli è cresciuta intorno, in realtà lo pone in linea diretta nell'ereditare l'uso che una volta era di esclusivo dominio del telefono fisso. Questa eredità ha però nel tempo ampliato i vantaggi di cui possono usufruire i beneficiari soprattutto in termini di accessibilità verso l'altro. Il telefono portatile ha nei suoi sviluppi drasticamente ridotto quell'area intermedia costituita dall'attesa, dal non sapere, non vedere e gestire l'assenza che prende piede nel momento in cui non si ha l'altro fisicamente davanti a sé. La tecnologia applicata al telefono consente quindi di controllare l'altro in una forma così condivisa e penetrante che un'assenza o lontananza non è più così tanto giustificabile e scontata. L'oggetto-Rete si pone allora a garanzia e fornisce gli strumenti in base ai quali non sia possibile un'esperienza che contempli il vuoto, la mancanza e, in ultimo, la percezione di separazione; l'oggetto-Rete, quindi, con i suoi mezzi ed applicazioni, si esibisce quale veicolo rassicurante sempre più specializzato nel consentire all'utente di regolare quelle contingenze i cui lineamenti ricordano un distacco, un allontanamento, un'esclusione relazionale. Ciò che principalmente l'uso degli smartphone mette in luce è che, di fatto, l'utente ha sempre a disposizione una connessione-relazione su cui contare ed appoggiarsi, un fedele contatto che permette un costante aggancio sia con l'altro relazionale che con la Rete stessa la quale, sempre-presente, mette al riparo il soggetto utente dall'incombenza di imbattersi in stati emozionali frustranti, riconducibili alla sfera della disunione. Il rapporto utente-Rete è tale per cui, per quanto egli possa muoversi, allontanarsi, distrarsi o perdersi, include una garanzia di continuità tale per cui la Rete non abbandona e l'utente non è abbandonato, anzi egli manipola, è padrone e detiene questa connessione-relazione sempre con sé, finanche in tasca.

L'idea di fondo, al di là di esigenze pratiche e abitudinarie che ci vedono ormai connessi per i più disparati motivi o passatempi, vuole marcare che un sistema così siffatto ha come fulcro la dinamica della separazione, il controllo confortante sulla prossimità dell'altro significativo e l'onnipotenza di cui è oggetto e rivestita la Rete ad opera del soggetto utente. Soprattutto rilevare quanto, la portabilità di una tale connessione-relazione possa inconsciamente mistificare e compiacere l'utente che un distacco o allontanamento dall'oggetto non implichi quale conseguenza e contraltare una condizione frustrante legata all'attesa per l'assenza dell'oggetto, al doverne fare a meno, al vuoto, alla separazione e infine alla perdita di quegli attributi relazionali e narcisistici di cui la connessione-relazione è intrisa.

Dove allora collocare, da un punto di vista psicologico, una dinamica che presenti questa fisionomia? L'essere-sempre-connesso ad un oggetto-sempre-presente a quale bisogno psichico-relazionale può essere ascritto?

Come sembrerebbe opportuno supporre, tenendo presente le tappe in cui si sviluppa la processualità evolutiva dell'individuo, si dovrebbe concentrare l'attenzione nel periodo preedipico.

Questa considerazione nasce dalla nota, che non ha comunque l'ambizione di volersi equiparare ad argomentazioni poggianti su comprovati dati sperimentali, che qualora si possa considerare la diffusione dell'uso della Rete grazie all'intercessione di determinate dinamiche intrapsichiche, queste debbano essere ricercate a monte del progresso evolutivo dell'individuo. Il gran numero di persone coinvolte da questo fenomeno può lasciar pensare che le eventuali determinanti psichiche coinvolte debbano essere riconducibili ad un'area di sviluppo che possa essere stata comune alla linea di sviluppo della maggior parte degli individui. Quest'area si può quindi circoscrivere a quella preedipica proprio perché iniziale, originaria e primordiale; in questo frangente il bambino si trova ad affrontare delle fondamentali concatenazioni psicologiche ed oggettuali che, dall'esordiente simbiosi con l'oggetto primario, lo condurranno alla strutturazione dell'oggetto interno. Nella fase edipica invece sono richieste al bambino competenze più articolate e una padronanza relazionale con l'oggetto più matura, fasi maturative più avanzate che per conformazione non sono presenti nella relazione-connessione ipotizzata tra soggetto ed oggetto-Rete.

Si vuole allora anticipare lo sguardo prima del periodo maturativo più inoltrato quale quello dell'Edipo dato che l'accesso a questo stadio è già una conferma su quanto e come il bambino sia stato in grado di affrontare e lasciarsi alle spalle questioni più marcatamente arcaiche ed originarie; il conflitto edipico, data la portata dei mutamenti e differenze che introduce e visto che “partecipa anche alla costituzione della realtà dell'oggetto, che si autentica come oggetto globale, intero e sessuato, sostituendosi all'oggetto parziale delle pulsioni pregenitali” (Bergeret, 2009), rappresenta un importante snodo evolutivo che ha luogo qualora le vettoriali psicodinamiche antecedenti abbiano assopito le loro istanze onnipotenti e fusionali. Il preedipico di contro, trattandosi di uno stadio della vita in cui il bambino è chiamato a misurasi con i primi eventi legati ad esperienze di assenza e separazione dell'oggetto, mostra caratteristiche che meglio si confanno a quelle ipoteticamente abbozzate per quanto riguarda il rapporto tra soggetto e oggetto-Rete.

Nel periodo preedipico quindi, sebbene il bambino scopra e si cimenti nelle primissime competenze e distanze consentite dall'autonomia, vige comunque una relazione anaclitica con l'oggetto, laddove il conflitto edipico, che pure confronta il bambino con la dimensione della perdita e del distacco, ne accorda con il suo esito una soluzione articolata e relativamente definitiva. L'oggetto-Rete sempre-presente, nei confronti del soggetto utente, allora potrebbe essere assimilato al medesimo status che l'oggetto primario ricopre in relazione al bambino, una presenza quindi irrinunciabile, fondamentale, di appoggio, su cui si consuma una forte aspirazione dedita a trovare l'oggetto sempre a disposizione, esattamente dove lo si era lasciato.

Nell'ambito quindi di una relazione anaclitica, la prossimità fisica e psichica con l'oggetto primario è ancora una necessità, è ciò che si dimostra l'elemento portante per la vita relazionale dei soggetti coinvolti laddove, successivamente, l'individuo potrà fare affidamento al paracadute rassicurante della rappresentazione interna dell'oggetto a garanzia del modello relazionale stesso. Se infatti l'articolazione dell'oggetto interno, qualificato come rassicurante e costante, segna la conclusione di un processo avviatosi sufficientemente bene e dischiude allo stesso tempo verso le successive istanze del reale, la stagione evolutiva appena trascorsa si qualifica nel confrontare la diade elementare, bambino ed oggetto primario, verso le implicazioni relative ad una iniziale e necessaria breccia nella relazione che possa insinuare un'altrettanta essenziale divergenza e distinzione.

Nell'accennare le ragioni di base della fase preedipica, considero brevemente il contributo di Paul-Claude Racamier nel svelarne le tensioni e i rischi che vi sono insiti.

L'ante-Edipo, perché appunto si verifica prima della risoluzione di tale fase, e l'anti-Edipo, perché vuole contrastare l'Edipo stesso, è quella modalità relazionale che imbriglia madre e bambino in una seduzione reciproca che “mira a preservare un mondo al riparo dalle eccitazioni interne ed esterne, costante, stazionario ed indefinito” (Racamier, 1983). A questo scopo la diade prende la forma di un'unità indistinta che, per favorire la sua esclusività, non tollera che alcun segno possa minacciarne il collante. “La seduzione narcisistica non tollera né il desiderio né il pensiero, che sono prove di insubordinazione” (Racamier, 1983)). Viene allora tagliata fuori l'alterità e la legge, la funzione del padre, lo spazio e il tempo per l'incertezza, la competenza alla rappresentazione, la capacità di tollerare la frustrazione; viene sacrificato quindi tutto ciò che nel suo divenire confronterebbe quest'unità con il distacco, il lutto ovvero con l'urgenza di dovere fare a meno di qualcosa, l'uno dell'altro, evitando di rivisitare quella reciprocità che fino a quel momento era così tanto condivisa e collaudata.

Il preedipico, essendo allora quel periodo, come sottolinea Racamier anche nelle sue sembianze patologiche, in cui il bambino dipende dall'oggetto primario, rischiando un'assimilazione psichica gravosa per la sua nascita psicologica, è quello che più potrebbe ospitare l'equazione in cui il soggetto utente è sempre rivolto e connesso con l'oggetto-Rete primario da cui si aspetta, magicamente, che sia sempre acceso, presente e responsivo nei suoi confronti.

Un modello di riferimento adeguato, che possa scandire ulteriormente il raggio d'azione degli accadimenti tipici del periodo preso in esame, è il processo di separazione-individuazione proposto dalla psicoanalista Margaret Mahler (1978).

Questo processo, come sappiamo, discerne la nascita fisica del bambino da quella psicologica e traduce quest'ultima in diverse fasi in cui, sostanzialmente, “il bambino emerge dal guscio autistico” (Mitchell, Black; 1996) per approdare appunto alla costanza oggettuale; questa condizione di distinzione ed identità psico-fisica vede “una integrazione graduale e più realistica di rappresentazioni buone e cattive del Sè e nella parallela integrazione di rappresentazioni buone e cattive dell'oggetto” (Kernberg; 1985).

L'intero sviluppo prevede quindi un tipico procedere per fasi e, in rapporto all'età del bambino, l'autrice ne delinea inizio, esito normale e rischi. Così in sintesi la parabola evolutiva: autismo infantile, simbiosi, processo di separazione-individuazione; quest'ultimo prevede quattro sotto fasi: differenziazione, sperimentazione, riavvicinamento, costanza oggettuale. Queste sottofasi rappresentano ciascuna dei momenti cruciali nella formazione ed identità psicologica del bambino ma, in considerazione del tema di fondo del presente contributo, sarà spunto di indagine la sottofase di riavvicinamento.

Il riavvicinamento è una sottofase molto delicata perché fa da leva ad uno scarto d'evoluzione ben preciso che si coniuga con la sottofase appena antecedente e quella successiva.

La sottofase antecedente, quella della sperimentazione, vede il bambino provare ed inorgoglirsi di una inedita deambulazione eretta e collauda “un crescente investimento narcisistico nel proprio corpo e delle funzioni che va acquisendo, sperimenta gioiosamente l'ampliamento del suo mondo e la padronanza delle proprie capacità autonome” (Bonino, 2002). Il bambino quindi si allontana fisicamente dalla madre, esplora l'ambiente a lui più prossimo, ma ad un certo punto sente di doversi ricongiungere con lei. Mette in atto quindi degli spostamenti, delle inaugurali prove di decentramento, che però trovano ancora nel ritorno alla presenza fisica della madre una necessaria funzione esterna di conforto e conferma quale zona sicura di approdo affettivo.

La sottofase successiva, quella inerente la definizione di una costanza oggettuale, ha luogo nel momento in cui il bambino, incamerate in prevalenza o con maggiore intensità esperienze di fiducia e sostegno, sa di poter fare a meno in certa misura della presenza fisica materna e porre se stesso quale agente in grado di filtrare stati di tensione avviati dall'interno e dall'esterno; è evidente quindi “una maggiore capacità infantile di giocare da solo senza la madre, e manifestazioni che consentono di constatare che il bambino, anche in assenza della madre, ne conserva la rappresentazione ed immagine interna” (Bonino, 2002).

Il passaggio fondamentale, che lega in successione queste due sottofasi, e che è presente appunto in prevalenza nella sottofase di riavvicinamento, è ancorato alla capacità del bambino di sopportare e far fronte alla sottostante angoscia di separazione.

Nel riavvicinamento, “contraddistinto dalla ricerca deliberata e dal rifiuto deliberato di un contatto corporeo intimo che simboleggiano il desiderio di riunione con l'oggetto d'amore e insieme il timore di esserne fagocitato” (Bonino, 2002), il bambino fa diretta esperienza di una particolare stima della sua autonomia: l'essere separati implica necessariamente una divisione e una differenza. Questa condizione anima quindi fantasmi di perdita ed abbandono dell'oggetto primario che possono minacciare non solo il modo in cui il bambino possa approcciare questa fase ma anche, qualora si incrinino le garanzie affettive necessarie, pregiudicare o interferire con il proseguo della separazione ed individuazione. In questo momento il bambino si orienta verso il vuoto, l'assenza, in una vertiginosa sensazione che convoglia potere ed autonomia da una parte ed angoscia e smarrimento dall'altra. Il bambino sente di poter fare a meno della madre, di sottrarsi dalla sua orbita, consapevole che “è proprio la mobilità a dimostrare la separatezza psichica dall'unione simbiotica con la madre”(Mitchell, Black, 1996).

Quale conferma della delicata alchimia tra mondo interno e realtà esterna in cui il bambino si viene a trovare durante la fase di riavvicinamento, troviamo alcune riflessioni di Otto Kernberg (1985) in merito allo spettro borderline; egli, in linea con il pensiero della Mahler, afferma quanto “la maggioranza dei pazienti con organizzazione della personalità al limite presenta una organizzazione strutturale intrapsichica e conflitti correlati a quelli della sottofase di riavvicinamento”. Questo dato può interessare al fine di mettere in luce qual'è la posta in gioco in questa fase e, attraverso la lente di ingrandimento della psicopatologia, portare in vista importanti tasselli dello sviluppo psichico. Glenn O. Gabbard (2002), a commento dell'eziologia del disturbo borderline supportata da Kernberg, riporta che “i pazienti borderline possono essere visti come persone che rivivono continuamente una crisi infantile precoce in cui temono che i tentativi di separarsi dalla madre provocheranno la sua scomparsa”. Allora “nella riedizione adulta di questa crisi infantile”(Gabbard, 2002) è possibile intravedere non solo tutto il potenziale dramma a cui va incontro il bambino ma anche quanto egli debba misurarsi con una temibile equazione: il suo distacco equivale a far scomparire la madre e così farlo precipitare nell'abbandono.

In rapporto quindi a questa peculiarità della fase di riavvicinamento, in cui è così alta la tensione che si protende lungo l'asse presenza-assenza-prossimità dell'oggetto primario, e di fronte allora ad una separazione verso la quale il bambino può realmente trovarsi immobilizzato in una ingestibile soggezione, possono essere necessarie soluzioni finanche di tipo involutive. D'altronde in questo momento il bambino ancora non ha creato un oggetto transizionale ovvero un mezzo che, come sottolinea Gillèron (2007) gli permette di accedere alla fantasmatizzazione primaria; grazie a questa “è come se il bambino, a causa della sua situazione critica, inventasse un modo di conservare la madre presso di sé, anche quando lei non c'è” (Gillèron, 2007). E proprio in virtù della criticità relazionale di questa sottofase che potrebbe verificarsi una permanenza difensiva in cui il bambino non crea un'alternativa simbolica della madre ma rimane incompiuto, circondato da preogetti (Gillèron, 2007) che non animano però il loro potenziale transizionale.

Una frontiera elastica e tollerante, che contempli solo la parvenza di un distacco senza dover prendere davvero in considerazione la dolorosa eventualità di rinunciare ad una vicinanza dall'oggetto così narcisisticamente vitale, può delinearsi quale soluzione che non risolva mai definitivamente la distanza tra sé e l'oggetto. Un limbo, una terra di mezzo, che permetta al soggetto di stazionare in una perpetua pre-separazione dall'oggetto che preveda solo l'intervallo tra il perdere di vista l'oggetto e il sopraggiungere di un'angoscia troppo acuta. Questo stato di pre-separazione dall'oggetto realizzerebbe allora qualcosa di estremamente comodo e salvifico, ovvero da una parte negherebbe l'eventualità che un'assenza, una rottura o separazione sia un dato di realtà che possa davvero verificarsi, rischiando di intaccare la relazione soggetto-oggetto, e dall'altra evocherebbe un espediente che non contempli quelle ripercussioni emotive conseguenti il verificarsi di un eventuale distaccamento. In questa fattispecie il soggetto sarebbe indotto a credere che il distacco sia senz'altro possibile senza incorrere nel fastidio di un abbandono grazie ad un oggetto che comunque rimane sempre-presente.

Si tratta quindi di una pre-separazione che apre ad un come se posto sul filo del paradosso. Il soggetto agirebbe come se fosse separato, come se potesse godere dell'euforia della propria autonomia, lontana da una dipendenza vincolante con l'oggetto, potendo contare però allo stesso tempo sulla relazione stessa con l'oggetto che gli eviterebbe la contropartita di un'angoscia insopportabile. In questa pre-separazione il soggetto non ritorna, difensivamente, al riparo della fase di sperimentazione e neanche si arrischia a giocare a far da solo, ma permane in questo stadio intermedio in cui è presente il miraggio di una emancipazione al riparo dagli scossoni intersoggettivi della separazione.

E' in questa specifica nicchia che l'oggetto-Rete può trovare la sua collocazione nelle aspettative e fantasie dell'individuo. Un oggetto che per sua natura è sempre-presente, e non minaccia di abbandonare il soggetto per un suo ritiro-disconnessione, va ad attecchirsi lungo quel varco che vede soggetto ed oggetto confrontarsi in una sopita e soggiacente questione del distacco.

La leva seducente che decreta, da un punto di vista psicologico, il successo e permeabilità della Rete trova, nel desiderio magico ed assolutistico di scavalcare l'evenienza di una disunione, una risposta consolatoria e contro-frustrante all'angoscia di separazione. La condizione di soggetto sempre-connesso, che implica la prossimità con l'oggetto-Rete, saperla sempre-presente e veicolata da vari dispositivi di cui lo smartphone ne è il rappresentante più portatile, non si intende quindi quale rimedio ad effettivi e concreti episodi separativi, quanto l'espressione di un anelito, per caratteristiche infantili corrispondente alla fase di riavvicinamento fin qui considerata, che vorrebbe che l'individuo, parimenti al bambino in lotta tra individuazione e separazione, soggiacesse in una ulteriore fase interstiziale di perpetua non-separazione per non incombere nella conseguente angoscia abbandonica e separativa.

Facendo eco alle parole di Racamier intorno all'Edipo, e prima esposte, questa intermedia supposta fase, che ulteriormente scinde e sospende la fase di riavvicinamento, potrebbe definirsi sia di ante-separazione, in quanto si posiziona prima che la separazione psichica avvenga, sia di anti-separazione perchè, in quanto ipotesi difensiva, marcia contro la separazione e i contraccolpi psico-relazionali che ne deriverebbero. Questa presunta fase vede l'oggetto-Rete assumere per il soggetto, in termini fantasmatici, la funzione surrogata di un oggetto la cui relazione precede e non include un allontanamento/differenziazione (ante) e allo stesso tempo mantiene i due attori stabili secondo una prossimità in cui la separazione non è sperimentabile (anti).

 

Lo schermo quale specchio di Narciso-utente

Il rapporto tra soggetto-utente ed oggetto-Rete fino a qui considerato può testimoniare la sua radicalità ad un livello in cui la questione della separazione è allo stesso tempo centrale ma anche fortemente controllata. L'oggetto-Rete allora promette di essere-sempre-presente e la sua costante disponibilità scongiura che il soggetto-utente possa confrontarsi con frustranti stati abbandonici. Eppure l'oggetto virtuale non esaurisce qui i suoi richiami seducenti.

Come accennato all'inizio, i social media consentono lo scambio di contenuti, in prevalenza fotografie e video, e permettono senz'altro uno scambio di comunicazioni, ovvero un avvicendamento di informazioni. Eppure il loro funzionamento mette in risalto proprio ciò a cui il soggetto-utente aspira.

La messa in visione di contenuti sulle piattaforme social se da un lato consente di esporre determinati contenuti dall'altra pretende però che questi siano condivisi; eppure, considerando che il soggetto-utente si interfaccia con un dispositivo artificiale, che consente l'accesso ad una realtà virtuale, si può davvero parlare di con-divisione dei contenuti? Un sistema così siffatto permette di equiparare la messa in vista di contenuti con un atto di inclusione dell'altro, un momento in cui si chiama l'altro ad associarsi ad una esperienza o coinvolgerlo nella partecipazione ad un comune fenomeno? L'inserimento di un contenuto nei social media ricorda quando, in specifiche condizioni ambientali, si gioca con la eco a far tornare indietro il suono della propria voce; nelle piattaforme social avviene qualcosa di simile, si fa vedere qualcosa allo scopo di ottenere qualcosa indietro. Ci si confronta quindi con un uso strumentale e manipolatorio dell'oggetto-Rete in cui l'altro, un altro soggetto-utente, è smaterializzato e ridotto nel ruolo di una eco che può restituire la sua voce solo sotto forma di like, visualizzazioni o come amicizia aggiunta o suggerita. Un richiamo quindi seducente dove l'oggetto virtuale si fa nuovamente garante di qualcosa di prezioso: fornire un riscontro pressoché istantaneo sui contenuti esposti, conservare per il soggetto-utente la sua storia e salvaguardarne il valore identitario, contabilizzare ed accrescere la risonanza in entrata dei contenuti stessi.

Ecco che l'oggetto virtuale, soprattutto nella veste dei social media, è incaricato di una funzione ausiliaria rilevante, ovvero veicolare tutto ciò che può risiedere all'ombra dei significanti conferma-gratificazione-convalidazione. Sotto questa categoria trova allora posto una modalità relazionale soggetto-utente e oggetto-Rete in cui il nesso sostanziale tra le parti è retto da quanto l'una è in grado di accreditare l'altra. Nel contesto dei social media il soggetto-utente si espone quel tanto che basta al fine di mostrare qualcosa dalla cui esposizione si aspetta di ricevere un premio, un'attenzione, il segno di una considerazione ricevuta dall'altro che, seppure determinante in quanto dispensatore di like e visualizzazioni, è allo stesso tempo tenuto a debita distanza. Si scandisce con la Rete la medesima dinamica ambivalente, tipica dello spettro narcisistico in cui l’individuo, pur cercando di livellare l’altro e prenderne le distanze per non incorrere nel suo mortale giudizio, ne fa il suo “muto oggetto del desiderio”, di cui anela segretamente la parola e lo sguardo, in grado quindi di veicolare ciò di cui egli ha un bisogno vitale: il riconoscimento della propria esistenza” (Ronco, Spaccaroltella, 2020).

Lo schermo del dispositivo è assuefatto ad uno specchio in cui esiste il soggetto-utente e quanto egli stesso può pretendere dalla Rete. Questo gioco che sposta “all'esterno” il fulcro che assegna valore al soggetto, sembrerebbe ricalcare e allo stesso tempo tradire il ruolo di quell'ambiente evolutivo in cui, secondo il modello di Heinz Kohut, si svilupperebbero le esperienze di oggetto-Sè così indispensabili per un Sè sano.

L'ambiente Rete, infatti, seppure così responsivo ed attento ad elargire conferme, sembra essere una versione rivisitata ed accomodante dell'ambiente evolutivo kohutiano dal momento che funziona in maggior parte quale cassa di risonanza per il soggetto-utente. È come se l'ambiente Rete fosse privo da statuto di quelle frustrazioni ottimali così importanti nel modellare un Sè sano in armonia col principio di realtà. Un ambiente così siffatto lavora quindi a favore esclusivo di una incessante valorizzazione ed esaltazione della visibilità dei grandi numeri, della quantità delle “condivisioni”. Del resto la Rete si nutre di contenuti da immettere e procede con il soggetto-utente secondo un patto in cui più contenuti si iniettano tanto più è mantenuta la promessa di visibilità.

Il rispecchiamento che ne consegue vede il soggetto-utente ricercare le sue sembianze nei pixel di uno schermo digitale; il “piegarsi verso” la propria immagine restituita dalla Rete seppure non comporta come conseguenze quelle riportate dalle versioni del mito di Narciso, in cui egli muore cadendo nell'acqua per prendere il suo riflesso oppure sopraggiunge una morte per inedia per aver contemplato il proprio ritratto specchiato, imbriglia il soggetto-utente ad incantarsi di fronte lo schermo, cercando di ricomporre la sua immagine a partire dai riverberi che la Rete gli restituisce: la slide numero 40 del Digital report 2019 ci informa che la media mondiale procapite al giorno di ore spese su internet è di 6 ore e 42 minuti; il picco se lo aggiudica le Filippine con più di 10 ore procapite al giorno.

Coerentemente quindi con una lettura che vede il soggetto-utente difensivamente sempre-connesso all'oggetto-Rete, per idealizzare una relazione non-soggetta alla separazione, allo stesso modo è presente una tendenza che congela la connessione-relazione ad uno stadio in cui conservare le qualità narcisistiche di onnipotenza, grandiosità ed esibizionismo senza includere la previsione frustrante di un loro ridimensionamento. In questo sistema, connessione-relazione tra soggetto-utente ed oggetto-Rete, prende forma un'area confortevole, indolore e virtuale, quindi impalpabile eppure tangibile, dove il soggetto da una parte è affascinato dal poter controllare la relazione, eludendo il pensiero legato alla perdita/separazione dell'oggetto, dall'altra non teme che possano sopraggiungere limitazioni a quelle esposizioni, o condivisioni, dalle quali trarre il più ampio bottino possibile di visualizzazioni. In questo senso la connessione-relazione con la Rete consente una salvifica prossimità, lontana da mortiferi timori di perdita, ma anche la garanzia di poter contare su un'instancabile emittente di conferme.

 

Fascinazione corporea

Un'esame che consideri il fenomeno digitale non può lasciare inesplorato nella discussione un elemento apparentemente silente eppure centrale della questione, ovvero il corpo. Nonostante le apparenze, in cui lo schermo del dispositivo in uso sembrerebbe essere l'unico sfavillante protagonista con i suoi colori, suoni, narrazioni, il corpo agisce quale substrato ineludibile nell'apprezzare l'esperienza digitale, qualunque essa sia.

In particolare prendo in considerazione la vista e il tatto dato che, coerentemente con quanto fino ad ora esposto, e con gradi differenti di coinvolgimento, sono capacità percettive che giocano a pieno titolo un ruolo nel contribuire ad apprezzare l'esperienza virtuale.

Nella fase di riavvicinamento la fisicità è un dato molto importante. E' proprio attraverso la madre in carne e ossa che il bambino misura una distanza tangibile a partire dalla quale potrà poi elaborare quella psichica, ovvero cominciare a preparare il terreno per accogliere un pensiero prototipico di separazione; questa distanza fisica, oltre ad essere misurata, vagliata, accettata o respinta dal contatto vero e proprio, è mediata anche dalla capacità del bambino di mantenere la madre nel suo campo visivo. Se nella fase precedente, quella della sperimentazione, il bambino poteva essere particolarmente disinvolto, ora “può diventare esitante, e desiderare che la madre rimanga nel suo campo visivo, in modo da riuscire a regolare questa nuova esperienza di separatezza attraverso l'azione e il contatto visivo” (Mitchell, Black, 1996).

Toccare e vedere sono quindi due modalità percettive ed azioni concrete che il bambino può mettere in atto per cominciare a calibrare il rapporto prossimità/distacco dall'oggetto; e il fatto che il bambino, in una condizione di incertezza, possa contare primariamente proprio su queste abilità sottolinea quanto egli ne sia titolare a tutti gli effetti. Toccare e vedere sono del resto abilità che compaiono nel bambino già al momento della nascita; vita intrauterina e vita post-natale sono infatti da considerarsi in linea di continuità “non solo per poter spiegare le competenze del neonato ma anche e, soprattutto, per poter dire che oltre ad un neonato competente si deve parlare anche di feto competente”(D'Alessio, 2001).

L'attenzione verso queste due modalità del percepire, in particolare quella tattile e visiva, è data dal fatto che le attività che tramite la Rete si possono spendere sono praticabili se tocchiamo il dispositivo e se guardiamo lo schermo. La riuscita quindi della diffusione della Rete, se è ipotizzabile che avvenga perché da un punto di vista psicologico è facilitata da alcuni pregressi riconducibili alle dinamiche caratterizzanti la fase di riavvicinamento, si basa anche sul fatto che fa leva su abilità innate, che appartengono all'individuo sin dalla nascita, e verso le quali l'utente pone bassi gradi di resistenza.

L'evoluzione tecnologica ha chiaramente indicato qual'è la direzione che dovevano percorrere questi strumenti perché potessero essere graditi: presentare nella struttura forme arrotondate, schermi grandi e pieni di colori, fruibili attraverso l'uso delle dita. L'accesso che materialmente consente all'utente di connettersi non può che passare per l'appoggio della vista e del tatto; il soggetto quindi è chiamato a prendere parte alla Rete servendosi di mezzi che conosce molto bene, di cui si serve da moltissimo tempo, e che sono stati tra i primi canali che gli hanno permesso di interfacciarsi con l'ambiente circostante e, soprattutto, con le prime figure significative.

Ciò che si vuole sottolineare è che se da un punto di vista psicologico si intende interpretare il rapporto soggetto oggetto-Rete contestualizzandolo all'interno della dinamica che ha caratterizzato il rapporto madre-bambino nel contesto della fase di riavvicinamento, il toccare e il vedere ne sono l'inevitabile contrappunto secondo una prospettiva corporea. Da una parte perché il tatto e la vista ricorrono tra i primordiali mezzi di percezione del mondo che il bambino ha sin da subito a disposizione e dall'altra perché, nella fattispecie nella fase di riavvicinamento, il mantenere la madre nel campo visivo e a portata di contatto consente al bambino di avere garanzie sufficienti per mantenersi al riparo dall'angoscia di separazione.

Se allora lo stare sempre-connesso del soggetto all'oggetto-Rete rappresenta un precipitato, aggiornato e rivisitato, di un accomodamento che il bambino potrebbe desiderare per mantenersi all'interno di un rassicurante stadio di pre-separazione dall'oggetto, allora il coinvolgimento tattile e visivo ne è il corrispettivo che, da un punto di vista fisico, cerca di veicolarne il medesimo sforzo. L'attrazione, insita nel tatto e nella vista, che affascina e facilita l'utente nell'aver dimestichezza con i dispositivi portatili può risiedere nella confortante e contenitiva sensazione di potere e controllo sull'oggetto-Rete derivante da un dominio che permette di disporne a piacimento, lo stesso potere e controllo che, nella fase di riavvicinamento, il bambino potrebbe auspicare per sé quale fonte di una perpetua congiuntura con l'oggetto primario, al sicuro dai drammi individuativi e separativi.

In questa direzione, l'osservare e il toccare si inseriscono in un ulteriore indagine sulla centralità del corpo alla luce di alcune indicazioni inerenti le neuroscienze.

In particolare faccio riferimento al concetto di simulazione incarnata un modello che, basato sul substrato funzionale dei neuroni specchio, ha alimentato con la loro scoperta un continuo fiorire di rivisitazioni all'interno di molte teorie, fino a quel punto sviluppate, nelle più diversificate aree delle scienze.

La simulazione incarnata è quel particolare sistema neuro-motorio grazie al quale “l'osservazione di un'azione induce l'attivazione dello stesso circuito nervoso deputato a controllarne l'esecuzione, quindi l'automatica simulazione della stessa azione nel cervello dell'osservatore” (Gallese, Migone, Eagle, 2006).

Secondo questo modello, così come viene espresso dallo stesso Gallese in un'intervista inoltrata sul canale Youtube dalla Società Psicoanalitica Italiana dal titolo “Una visione neuroscientifica dell'intersoggettività”, la simulazione incarnata non vuole descrivere solamente l'intersoggettività tramite l'intercorporeità ma anche quanto “la simulazione motoria è parte integrante dei meccanismi che mi consentono di attribuire un significato a quell'oggetto”. La simulazione incarnata è quindi un modello che permette di comprendere il soggetto nell'essere-nel-mondo, “un livello implicito del modo con cui noi ci relazioniamo col mondo, non solo dell'intersoggettività ma anche con il mondo degli oggetti, con il mondo dello spazio” (Gallese, intervista1).

L'attivazione di questo sistema è automatica, non volontaria; nella simulazione incarnata non c'è “alcuna inferenza o introspezione, ma semplicemente una riproduzione automatica, non consapevole e pre-riflessiva, degli stati mentali dell'altro (Gallese, 2003a, 2003b, 2005b, 2006) e ancora “le intenzioni dell'altro sono insomma direttamente comprese perché sono condivise ad un livello neurale”(ibidem).

Grazie a queste caratteristiche l'osservatore non è un semplice spettatore che guarda l'altrui azione in maniera inerte ma “vengono generate delle rappresentazioni interne degli stati corporei associati a quelle stesse azioni, emozioni e sensazioni, 'come se' stesse compiendo un'azione simile o provando una simile emozione o sensazione” (Gallese, Migone, Eagle, 2006).

Ciò che quindi emerge è quanto la simulazione incarnata depositi ad un livello neuro-motorio, quindi ad un livello condiviso e condivisibile, un alto potenziale relazionale in cui le azioni, gesti, comportamenti che ciascuno osservatore esplora hanno una pressoché immediata risonanza, il cui valore è altamente regolatore e preparatorio per significare ciò che si manifesta, avviene, nel suo stesso spazio intersoggettivo.

L'osservare quindi assume non solo la funzione relativa al mero guardare l'altro perché, secondo l'accezione relazionale della simulazione incarnata, il soggetto-osservatore è con sé ma è anche con l'altro. Vige quindi nell'osservare l'altro anche un'accezione secondo cui con lo sguardo si contatta l'altro, si entra in relazione con lui, si prendono e si assume su di sé quegli stessi stimoli che promuoveranno nell'osservatore la simulazione.

Questa valenza intesoggettiva della vista e del tatto è bene messa in luce dal filosofo e ricercatore Marcello Ghilardi nel cui lavoro Derrida e la questione dello sguardo ripercorre alcuni principi del filosofo Jacques Derrida inerenti appunto lo sguardo, il visibile e non visibile, il guardare quale forma del toccare, la cecità.

In particolare l'autore presenta nella discussione non solo il potenziale relazionale dello sguardo ma anche la capacità aptica della vista. L'autore scrive “L'ambizione dell'occhio umano non è tanto vedere un altro occhio, ma incrociare un altro sguardo. L'occhio, da cui si proietta lo sguardo, vuole incontrarne un altro -non un altro occhio, ma un altro sguardo- ed essere incontrato da esso” (Ghilardi, 2011). Due soggetti, in quanto osservatori reciproci, entrano allora in risonanza automatica e si conoscono e danno un significato al loro spazio condiviso, fisico ed emotivo-esperienziale, attraverso lo sguardo dell'uno sull'altro; sguardo che rafforza la sua valenza di vicinanza e contatto con l'altro. “Il con-tatto degli occhi si dà come condizione non soltanto perché vi sia sguardo, ma perché vi sia incontro con l'altro; […] Non si tratta soltanto dello statuto e della condizione di possibilità di uno sguardo […] si tratta dell'incontro tra un io e un tu” (ibidem). In questi termini lo sguardo in quanto contatto con l'altro riesamina la condizione di vicinanza e prossimità; lo sguardo si pone allora come un ponte che va al di là di una distanza fisica, e anche di una presenza fisica dell'altro, perché quest'ultimo è raggiunto dallo sguardo dell'osservatore. Concordemente infatti alla dimensione incarnata della simulazione, l'avvio dei neuroni preposti al suo funzionamento è di natura visivo, l'osservatore quindi si vede coinvolto non solo nel rispecchiare, nel rispetto della sua unicità psico-fisica, le azioni finalizzate osservate, ma ne ri-conosce le implicazioni spaziali e potenziali; entra quindi in contatto con l'altro e ne ripercorre e ne incarna l'attivazione seppure in una forma modificata. L'osservatore quindi prende, fa suo soggettivamente, il corrispettivo neuro-motorio dell'altro grazie alla funzione dell'occhio “che può vedere da lontano, diventa un organo tattile […] La sua funzione diventa quasi 'digitale', non più ottica, ma aptica” (ibidem).

Nel presente lavoro, discutendo allora circa le vicende che legano soggetto-oggetto con l'oggetto-Rete, la funzione prensile e tattile dello sguardo è centrale dato che l'attivazione della risonanza neuro-motoria si innesca con lo sguardo dell'osservatore il quale osserva azioni dal vivo ma anche virtuali, davanti ad uno schermo.

Prima però di entrare nel merito è bene introdurre un altro tipo di simulazione a cui si è interessato il neuroscienziato italiano, ovvero la simulazione liberata.

Quest'ultima è legata all'apprezzamento estetico derivante da un'opera d'arte, la lettura di un libro, la visione di un film; in questa diversa coniugazione della simulazione incarnata nel momento in cui apprezziamo un prodotto artistico “siamo costretti a sospendere temporaneamente la nostra presa sul mondo, liberando energie fino a quel momento indisponibili, mettendole al servizio di una nuova ontologia regionale che può rivelarci nuovi aspetti di noi stessi” (Gallese, 2013). Questa simulazione è liberata in quanto si abbandonano momentaneamente le barriere difensive nei confronti della realtà e grazie alla fruizione di un'opera artistica “la nostra inerenza all'oggetto è totalmente libera dai normali coinvolgimenti personali diretti con la realtà quotidiana” (ibidem).

A questo punto, come potrebbe essere logico pensare, si potrebbe equiparare la visione dei contenuti messi in visione sulla Rete, a una qualche forma di apprezzamento estetico. Infatti, attraverso lo schermo di un dispositivo l'osservatore osserva, “entra in contatto” ed afferra con la vista contenuti che, di fatto trattandosi di video, fotografie o contenuti scritti, come testi, citazioni ecc.ecc., potrebbero rientrare a vario e vago titolo all'interno della categoria “prodotto artistico”; si potrebbe essere indotti a sostenere quindi che la loro fruizione sia equiparabile al confronto con un'opera d'arte e quindi liquidare la questione nell'ottica della simulazione liberata: in questo senso si potrebbe dire che il compiacimento con il quale l'osservatore è “tirato dentro” lo schermo di un dispositivo sia incentrato sulla possibilità che egli avrebbe di liberarsi, appunto, abbandonare, staccarsi dalle pressioni del reale e godere di una dimensione altra, più ampia, ricca.

In realtà, secondo quanto fin qui riportato, se la connessione-relazione tra soggetto-utente e oggetto-Rete si caratterizza per una natura conservatrice, difensiva, in cui il soggetto tiene a sé l'oggetto-Rete quale garanzia di un ambiente privo di scossoni, in cui quel che è cercato e perpetuato ha a che fare con una rassicurazione prossimale-oggettuale e narcisistica, allora verrebbe meno l'accezione “liberata” in favore forse di un'altra derivazione di simulazione.

Che cosa allora può portare il soggetto-osservatore ad insistere nello stare in-Rete? Quale l'alchimia, il vantaggio, la risonanza? Con che cosa l'osservatore entra in contatto?

Nell'articolo di Gallese, Migone e Eagle “La simulazione incarnata: i neuroni specchio” gli autori “calano” il ruolo della simulazione all'interno della relazione clinica terapeuta-paziente. Sostanzialmente viene ritenuto maturativo e terapeutico per il paziente non tanto un rispecchiamento fedele, punto a punto, degli stati emotivi del primo da parte del terapeuta piuttosto quanto quest'ultimo “gli restituisca qualcosa di simile a quello che lui prova, qualcosa in realtà di modificato, di diverso” (Gallese, Migone, Eagle, 2006). All'interno quindi del rapporto terapeuta-paziente la simulazione incarnata è funzionale nel momento in cui, pur in una condizione di congruenza empatica dei partecipanti alla relazione, la simulazione del terapeuta, avviata in risposta ad un primo stato mentale del paziente, introduca delle differenze terapeutiche ovvero quelle modificazioni che possano avviare nel paziente una simulazione che contenga una discordanza sostenibile rispetto alle sue abituali narrazioni corporee, rappresentazionali, emotive.

D'altro canto una simulazione fin troppo congruente, un rispecchiamento in quanto tale, così come la restituzione da parte del terapeuta, al paziente, di un contenitore non congruente con gli stati mentali appena presentati nella relazione, stimola il paziente ad osservare una reazione che aggiunge discordanza; di conseguenza il paziente può trovarsi ad osservare una reazione, sulla quale si innesta e si modella in automatico la sua stessa simulazione, che lo porta a internalizzare non una differenza tollerabile rispetto ad organizzatori emotivi-esperienziali pregressi ma una ulteriore disregolazione degli stessi.

Piuttosto, allora, sarei più incline a sostenere che il soggetto-osservatore, il cui sguardo è rivolto a con-tattare l'oggetto-Rete per il tramite di uno schermo, e comunque coinvolto automaticamente nella simulazione di ciò che osserva, sia affascinato dal poter contare su un continuo stato di congruenza con l'oggetto-Rete stesso.

Da un punto di vista clinico è come se paziente e terapeuta si trovassero di fronte ad un vis a vis che non preveda rischi, una relazione ridondante, in cui il terapeuta è solamente congruente con il paziente in una simulazione reciproca stereotipata incapace di interporsi nella cronicità del paziente ed introdurre quella essenziale differenza terapeutica tra come il paziente si racconta e quale versione modificata il terapeuta è in grado di proporre. Nell'ipotesi in cui “la sensibilità e la consapevolezza dell'analista dei propri pensieri spontanei e stati mentali sia una importante fonte di informazione su quello che accade nella testa del paziente” (Gallese, Migone, Eagle, 2006) allora lo schermo-specchio potrebbe equivalere ad un analista il cui controtransfert è muto piuttosto che funzionale nell'introdurre il rischio di una disconferma modulata nella perpetuità del paziente.

In questo senso ciò che potrebbe spiegare la ripetitività e ricorsività con la quale il soggetto-osservatore indugia il suo sguardo nella Rete attraverso lo schermo può risiedere proprio nella certezza di poter incontrare un modello la cui simulazione sia stabilmente consonante. In questo senso il soggetto-osservatore, permanendo al di qua dello schermo, si trova comodamente in una virtualità lontana da quel reale che la simulazione incarnata così pragmaticamente intende discutere.

Se la simulazione incarnata, come detto, è un modello che spiega il soggetto in relazione con il mondo, il soggetto-osservatore in questa fattispecie resta tagliato fuori dal reale-relazionale e permane in un al-di-qua dello schermo che restituisce il suo stesso sguardo, ripetitivo, conosciuto.

Il soggetto-osservatore, per quanto possa replicare/simulare a livello neuronale ciò che può afferrare con la vista, rimane quindi al di qua di qualcosa, di uno schermo, di una chat, di un video, in un “come se” incastonato, ridondante, rassicurante e sotto controllo, incapace di “bucare” lo schermo del virtuale ed entrare nel reale-relazionale. Si tratterebbe di una simulazione che va a perdere il suo valore spaziale-sociale-relazionale, preparatorio, regolatore, divenendo una prova infeconda in cui va perduto il suo stesso potenziale di significazione.

Lo sguardo allora pretenderebbe di contattare un oggetto schermo-specchio in cui l'osservatore si guarda e si tocca ed incontra se stesso piuttosto che incontrare lo sguardo dell'altro; in questo incontro con lo schermo-specchio la simulazione in cui è coinvolto l'osservatore, grazie ai contenuti presenti nella Rete, non libera una visione più ampia sul proprio vivere e neanche mette l'osservatore in condizione di conoscere il suo spazio interpersonale ma mette in scena una compiacente separazione del soggetto-osservatore dall'essere-nel-mondo.

C'è quindi l'osservatore che si incanta nel vedersi restituito dall'oggetto schermo-specchio il suo stesso sguardo e vedersi tornare indietro il suo stesso contatto in una relazione dove il soggetto-osservatore fa da eco a stesso e dove la vitalità adattiva della simulazione inizia da ciò che quest'ultimo guarda dallo schermo per finire però nel corpo, senza oltre passarlo, quale segnale autoreferenziale e non etero-modulatorio.

Giungono in mente alcune parole di Jean-Luc Nancy a proposito dello sguardo, del dipingere-far vedere, e dell'auto-riferimento.

L'autoritratto si caratterizza per l'esposizione ovvero “la messa in opera dell'autos o del sé, dell'essere-a-sè” (Nancy, 2002), autoritratto che deriva dal ritratto nel momento in cui quest'ultimo “compie il tratto dell'auto: il rapporto con sé o il rapporto con (un) 'io'” (ibidem).

L'oggetto-Rete, nelle sue articolazioni e sfaccettature, probabilmente mette in opera, anzi permette che si metta in opera, quello che più schiettamente una tela permette di fare: mostrare la costante possibilità di auto-ritrarre una personale e immutevole rappresentazione, in grado magari di fermare il tempo e dalla quale possibilmente procurarsi un consenso.

 

 

 

 

 

 

 

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Una visione neuroscientifica dell'intersoggettività, Youtube; https://m.youtube.com/watch?feature=youtu.be&v=Q6LziN2u3Lk (Intervista1)

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