Dialogo con Roberto Maragliano
Roberto Maragliano, pedagogista, ha insegnato all’Università Roma Tre. Buona parte del suo insegnamento e dei suoi studi sono stati incentrati sul tema della digitalizzazione dei percorsi formativi (trovate un grossa dose della sua produzione, dagli anni Settanta ad oggi, nella cartella web ad accesso libero Scaffale Maragliano, il cui indirizzo sintetico è bit.do/MARAGLIANO). Roberto, amico e antico e assiduo collaboratore di Psychiatry on line Italia è, probabilmente, una delle persone più qualificate in Italia a parlare con cognizione di causa del tema dello Smart Working che la pandemia da Coronavirus ha fatto venire prepotentemente “di moda” oggi.
Bollorino: Il concetto e la pratica dello “Smart Working” in ambito lavorativo e nei contesti di apprendimento non nasce certo oggi col Coronavirus. Vuoi darne una definizione ed inquadrarlo storicamente?”
Maragliano: Rispondo alla tua domanda riferendomi al contesto scolastico e universitario, che è quello che ho praticato, ma anche al contesto editoriale, che continuo a praticare. In termini generali, si tratta di una forma di lavoro che prevede, in base ad una pattuizione tra le parti (datore di lavoro e lavoratore) e la disponibilità di un adeguato supporto tecnologico, un’organizzazione flessibile e integrata delle mansioni professionali quanto ai tempi, i modi, i luoghi del loro esercizio. Se pensiamo alla scuola e pure all’università e proviamo a ragionare di quel che sta avvenendo, per via del Covid-19, dobbiamo dire subito che è improprio, a questo proposito, parlare di Smart Working. Lo è per la situazione eccezionale dell’oggi, come lo era per la normalità dello ieri. Con la differenza che oggi c’è il vincolo ad usare la tecnologia, e questo è un dato di fatto. Ma manca tutto il resto, come mancava prima, del resto. Mi auguro che nel futuro, sulla base di questa esperienza, quando ne saremo fuori, si maturi un po’ di consapevolezza su ciò che comporta lo Smart Working, per l’organizzazione del lavoro nel suo complesso e per i soggetti che vi sono implicati. Già dalla tua domanda, per come l’hai formulata, si intuisce l’insidia che sta sotto l’intera problematica, una volta che la si porti all’interno delle istituzioni educative, dove tutta l’economia, in senso stretto e in senso lato, gravita attorno al centro dell’insegnamento, e al suo rapporto di lavoro (definito secondo parametri e regole di un mondo che non c’è più), quando invece chiunque abbia a che fare con il digitale e la rete, in chiave educativa, sa che il centro è nell’apprendimento (che, però, acquista paradossalmente un valore economico, in campo educativo, solo se è positivo, come avviene nella scuola, con il titolo di studio, o nella disastrata accademia italiana, finanziata anche in base alla regolarità dei curricoli…). Insomma, se volgiamo parlare seriamente di Smart Working dobbiamo affrontare il problema di una ridefinizione delle mansioni, insomma dobbiamo rivedere la scuola in tutto e per tutto. Quanto all’editoria si potrebbe fare un analogo ragionamento. Smart Working sì, ma tra chi? Chi è il datore di lavoro e chi l’esecutore? L’autore è datore di lavoro dell’editore? In parte sì, questo andrebbe riconosciuto. Ma la tradizione e la poca chiarezza dei rapporti attuali fa sì che buona parte dello Smart Working editoriale, oggi, sia completamente a carico dell’autore, il quale oltre che redigere il testo del ‘suo’ libro (questo è pacifico) deve anche allestirlo, correggerne le bozze, promuoverne la vendita, il più delle volte senza ricevere compenso alcuno (se non la certificazione dell’avvenuta pubblicazione), anzi pagando l’operazione di tasca sua, o attingendo ai fondi universitari. Tutto questo, ovviamente con il supporto della rete e digitale: casomai (e non è un caso estremo, in ambito pedagogico) per avere pubblicato un testo che tratta dei danni che il digitale arrecherebbe all’apprendimento. Come diceva quel tale, ad un certo punto scoppiano le contraddizioni tra le forze produttive e le forme delle relazioni. Potremmo esserci vicini.
Bollorino: “In ambito scolastico l’emergenza della pandemia ha portato ad attivare forme credo a volte improvvisate di teledidattica. Quali sono le “buone pratiche” da seguire in questo ambito?”
Maragliano: Le ragioni dell’improvvisazione, che è un dato di fatto sotto gli occhi di tutti, sono molteplici. Basti riflettere a quanti e quali sono i soggetti sociali e istituzionali che convergono attivamente sull’immobilismo della scuola, oggi come oggi, e da quanto tempo lo fanno. L’elenco non è breve, direi che ci sono un po’ tutti. Basti ricordare l’amministrazione centrale (che si compiace di parole d’ordine innovative, ora è la riesumata Didattica a Distanza, puntando sempre sul loro essere solo parole e sull’obiettivo di mantenere, comunque, l’ordine di sempre), l’editoria (che utilizza la scuola per sostentarsi, col piazzare risme di carta, l’unica risorsa rimunerativa, e facendo guerra al digitale, inteso come pericoloso concorrente), il sindacato (che non se la passa bene, nemmeno nel pubblico impiego, questa della scuola restandogli come riserva preziosa, da non mettere in gioco, ma da sostenere con una strategia politica di tipo egualitario che garantisca comunque quantità più che qualità di impiego), l’università (che ha considerato fin dall’inizio e continua a considerare la formazione iniziale e in servizio dei docenti scolastici come una risorsa sicura, economicamente e culturalmente, da non mettere in discussione, e da utilizzare con il minore degli sforzi), per non dire dell’intellettualità diffusa (quella degli opinionisti dei giornali e della tv, da anni impegnati, sia da destra sia da sinistra, a sostenere la tesi di una scuola distrutta, di una istituzione che non è più quella di una volta, cosa che non si sognerebbero di dire a proposito dei trasporti). Tutti a far guerra, da anni, al digitale, tutti pronti a delegittimarlo, anche (e soprattutto) non conoscendolo o non praticandolo o praticandolo senza impegno a concettualizzare e dunque a capire il senso di quell’esperienza. Ecco allora che, costretti improvvisamente a stare nel digitale, in quel mondo che bollavano dell’accusa di essere virtuale (ignorando che pure il sogno è virtuale e non è fuori ma anzi dentro alla realtà di ognuno di noi, la inscrive e la definisce molto più di tante cose che consideriamo realtà) si trovano, quando va bene, smarriti, imbarazzati, scoperti. Si consolano pensando che questa fase passerà e che dopo si tornerà alla normalità della scuola fisica. Chi sa, non è detto. Certo, è più che evidente già adesso che chi ha provveduto prima a pensare a queste cose, dunque ad accogliere positivamente il digitale nella scuola, ora si trova più coinvolto e partecipe nell’esperienza. Lo dico dei dirigenti, dei docenti, degli allievi e delle loro famiglie. Lì stanno le “buone pratiche”, in contesti in cui la questione di fondo non consiste nel piegare l’uso della tecnologia digitale alle esigenze della scuola (di una scuola libresca) ma nel cogliere il valore educativo di una tecnologia diversa da quella consueta (il libro stampato) per quanto riguarda l’apertura ai linguaggi, la partecipazione, la logica connessiva, soprattutto la sollecitazione a produrre, a fare, più che a riprodurre. Sono pochi casi, ma hanno un importante valore. Pochi mesi fa ho dedicato loro, alla cornice di pensiero che li potrebbe qualificare, un saggio, dal titolo Zona franca. Per una scuola inclusiva del digitale. È uscito presso l’Editore Armando, bada bene: su carta e in digitale.
Bollorino: “Mi pare che, al di là di isole felici più derivanti dalla volontà dei singoli che da progetti strutturati e diffusi, l’utilizzo del supporto informatico nella didattica non si sia sviluppato quanto la tecnologia avrebbe consentito. Perché?”
Maragliano: La ragione principale è quella che ho indicato alla risposta precedente. È perché il digitale fa saltare lo status quo. Ma ce n’è una più profonda e insidiosa. Perché il digitale indica una diversa via per lo sviluppo del sapere, diversa da quella che poggia sui meccanismi della riproduzione, ed orientata invece a far agire soprattutto i meccanismi della produzione. Una cosa è lo studio come esperienza testuale: da pagina a pagina di quel libro di testo, di quella data disciplina, per quel prof, in vista di quell’esame su quelle pagine di quel testo ecc., e così via, in modalità tardo-tayloristica. Altra e ben diversa cosa è lo studio come esperienza reticolare: produrre un qualcosa partendo da un insieme (o un universo) di elementi, selezionando, adattando, collegando, integrando. Da una parte il sapere come rispecchiamento di informazioni già date nel loro ordinamento ufficiale, dall’altra il sapere come modo di produzione attiva di un oggetto (testo o altro che sia) comunque originale, comunque non previsto, poco importa se individuale o di gruppo. Non a caso nel segnare questo secondo e diverso modello ho usato l’aggettivo ‘attivo’, a significare il richiamo ad una nobile tradizione pedagogica novecentesca e occidentale, che il digitale potrebbe/dovrebbe valorizzare, e potrebbe anche farlo, se quella tradizione non fosse diventata un banale elenco di parole sprovviste di potere concettualizzante (creatività, interesse, partecipazione). Ma i lavori forzati con la palla al piede cui sono attualmente costretti tanti insegnanti impreparati al digitale potrebbero sortire un positivo cambiamento. Sono costretto ad essere ottimista. Quando vanno bene, quando funzionano, le attività di rete sono espressione di creatività, interesse, partecipazione collettive. Fuori delle istituzioni educative, anche nei tanto vituperati social, quelle cose lì albergano.
Bollorino: “Lo Smart Working, la teledidattica l’utilizzo ad alto livello dell’informatica di rete implicano anche processi di apprendimento da parte di tutti i soggetti coinvolti. A che punto siamo in Italia?”
Maragliano: Molto indietro, se penso all’Università, che forse se la passa peggio della scuola. Questo anche per una ragione specifica, ossia l’esperienza a dir poco imbarazzante delle Università telematiche, nate male e cresciute peggio, e recentemente oggetto di contesa normativa proprio negli ambiti psicologici e pedagogici. Prima osteggiate dagli accademici classici, poi guardate con curiosità, diventate degne di interesse attivo man mano che si sviluppava il mercato dei CFU e delle cattedre, le telematiche sono state rincorse, blandite, infine imitate in ragione del loro successo sul campo. Una cosa è certa: in questa faccenda l’Università nel suo complesso non sta facendo una bella figura. E nemmeno la fa la tecnologia, utilizzata lì al livello più basso, e intesa, sia dal docente sia dallo studente, come risorsa per rendere il meno gravoso possibile il proprio impegno.
Bollorino: “Questa occasione drammatica può divenire un punto di partenza definitivo nell’ambito dello Smart Working e dell’evoluzione dei modelli didattici?”
Maragliano: Se non ora, lo dovrà diventare dopo, quando si farà un bilancio, e quando, come spero, vi prenderanno parte tutti, non ultimi i destinatari di questa azione. I giovani hanno un rapporto particolare di confidenza non con la tecnologia di rete ma con la sensibilità che essa sostiene, con l’approccio operativo, partecipativo, multimediale al sapere che il digitale media e codifica. Se nell’esperienza che il MIUR chiama anacronisticamente Didattica a Distanza (ma che distanza? Mai come ora la rete è presenza!) i giovani si saranno trovati accolti e valorizzati per questa parte ‘mondana’ della loro identità saranno disposti a cambiare il loro atteggiamento di fronte alla scuola (che al momento è simile a quello che noi vecchietti avevamo nei confronti del servizio militare) e a parteciparla più attivamente. Se no, tutto tornerà come prima. Ma ne dubito. Il tasso di mortalità di questo coronavirus è elevato, anche nei confronti delle idee!
Bollorino: “Non è mai tutto oro quel che luccica quali sono i downsides, i limiti dello Smart Working?”
Maragliano: Uno solo mi sembra particolarmente pericoloso, quello di pensare che così si risolvano tutti i problemi. No, il digitale è un’occasione per vederli meglio e affrontarli meglio, i problemi. Faccio un solo esempio di scuola. La letteratura è al centro della formazione istituzionale, nessuno vuole negarlo, casomai c’è chi insiste nel parlare di letteratura, cioè di lettura diretta e partecipata di testi letterari, e non di studio passivo e in funzione riproduttiva del manuale di storia della letteratura. Non è certo da mettere in discussione un caposaldo della cultura scolastica nazionale da De Sanctis a oggi. Però è legittimo chiedersi: perché la musica, perché l’arte non stanno anch’esse al centro, assieme alla letteratura? Tra l’altro nella prospettiva della globalizzazione le arti visive e sonore (ma anche l’artigianato) hanno un valore tutt’altro che trascurabile e, nel nostro territorio, europeo e nazionale, una presenza non da poco. Perché non accoglierle? Viene da pensare male (e forse ci si azzecca), cioè che tutto dipenda dall’atto di nascita della scuola nazionale, a metà Ottocento, proprio di un tempo in cui riproducibile era solo la scrittura, non il suono, non l’immagine dinamica, ed anzi la musica, per il suo valore immersivo ed emotivo, era guardata con sospetto, esattamente come si guardava con sospetto alle immagini, perché non vincolate alla e dalla parola. Certo, si dovevano fare gli italiani, e dare loro una lingua. Ma, pensiamo bene a questo paradosso illuminante, l’obiettivo è stato raggiunto (a sostenerlo è stato il più illustre linguista italiano) non dal libro, non dalla scuola, non dalla letteratura, ma da uno strumento audiovisuale, la televisione, dove la parola è non solo scritta ma viaggia assieme all’immagine e al suono. Ecco, il problema forte posto dal digitale è la necessità di rivedere gli oggetti dell’insegnamento. Si va a scuola per imparare cosa? Che idea di italiano, per dire, è inscritta nei Promessi sposi, quale nel Rigoletto, quale ne Il bacio di Hayez? Ci può essere l’uno senza gli altri due? Oggi non più.
Bollorino: “La virtualizzazione dell’esistenza o almeno di buona parte di essa è un dato di fatto ineludibile e ineluttabile. Favorire la virtualizzazione dell’apprendimento è un processo che andrebbe studiato e regolato anche per ragioni educative secondo me. Lungi dall’essere un luddista, anche perché occorre in realtà “insegnare” ad usare gli strumenti dell’ICT in maniera corretta e la scuola lo dovrebbe fare off e on line, mi pongo problemi etici e psicologici rispetto specialmente ai bambini della scuola dell’obbligo. Quale è la tua opinione al riguardo?”
Maragliano: Io sto con Seymour Papert, una figura nobile e molto attuale (anche se poco nota) di matematico, psicologo, epistemologo, didatta, ricercatore, pioniere del digitale. Il suo libro più importante, del 1993, recava come titolo, nella versione originale, La macchina del bambino. Ripensare la scuola nell’era del computer. Il primo problema etico e psicologico riguarda l’adulto, il genitore o l’insegnante che non sanno effettuare, peggio che non vogliono mettere in atto questo ripensamento. Si danno invece da fare per contenere una cosa che essi stessi non sanno e non vogliono più contenere, cioè il fatto che tutti e tutto oggi poggia su un’unica infrastruttura, quella di rete. Parliamo col frigorifero di qui a poco, anzi sarà lui a parlarci, come ci parla il navigatore dell’auto. Dobbiamo essere all’altezza di quel dialogo. Ora non lo siamo, e infatti spesso con il navigatore ci disorientiamo: non lo sappiamo usare, non lo sappiamo educare, non sappiamo educarci al compito di educarlo, diciamo semplicemente che sbaglia, quando il più delle volte siamo noi a errare. Dunque, hai un bel chiedere al bambino di depositare il cellulare prima di entrare in classe, hai un bel regolamentare l’uso del cellulare al casa, dopo che di quel bambino tu hai iniziato a fare foto e video fin dalla nascita, anzi prima. La tesi di Papert è che il digitale lui, il bambino, lo vive meglio di te adulto, perché gli permette di fare, di fare per conoscere, di fare per capire, di fare per essere. Di qui a poco il virus informatico sarà pienamente dentro di noi e dentro le cose, non avrà bisogno di interfacce, del tipo del cellulare. E allora con chi ce la prenderemo?
Bollorino: “Noi siamo animali sociali e off e on line cerchiamo soprattutto il contatto e lo scambio. E’ anche vero che è noto come le grandi idee non sono mai nate sentendo una conferenza ma durante le pause caffè dove le persone si incontrano. Guardando al futuro al di là dell’emergenza attuale quale prospettiva realistica vedi per un equilibrio tra virtualizzazione dell’esistenza e necessità di mantenere in piedi la fisicità produttiva e vorrei dire affettiva dello scambio fisico tra le persone?”
Maragliano: Lo scambio fisico è di qualità tanto più elevata quanto più è governato dalla cultura, quella cosa che ci permette di nobilitare e sublimare gli istinti che altrimenti avremmo e vivremmo e subiremmo per loro carica aggressiva e predatoria. Senza cultura, intesa in senso lato, ossia quel quid che mettiamo in campo ogni volta che ci troviamo stretti corpo a corpo in un bus o davanti alle nudità di una spiaggia, senza tutto ciò che ci fa civili (il rispetto, la morale, l’estetica, la letteratura, la musica, la matematica, ecc.) ci estingueremmo. Ieri per imparare a diventare civili avevamo solo la parola parlata associata al gesto, poi è arrivata la scrittura, poi c’è stato il libro, poi la televisione, ora tocca al digitale: tutti passi di ‘virtualizzazione dell’esistenza’ per riprendere la tua espressione. Ho l’impressione che non stiamo fermi, né che indietreggiamo: siamo invece impegnati a percorrere, con inevitabili difficoltà, ma anche con grandi risultati, la lunga, tortuosa e forse infinita via che ci porterà fuori della caverna di Platone.
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