Il tema del rapporto fra mass media e pedofilia è estremamente complesso in quanto implica immediatamente una riflessione preliminare su tutti i condizionamenti culturali che determinano le nostre scelte e i nostri comportamenti sociali e individuali, per cui un’analisi completa del fenomeno andrebbe fatta comprendendo per esempio anche il ruolo che assumono la pubblicità, la fotografia, il cinema, l’arte e, più recentemente, Internet. Nella relazione verranno affrontati soltanto alcuni temi riguardanti la televisione e i mass media. Queste riflessioni, vista la vastità delle implicazioni, vanno considerate come un’offerta di stimoli alla discussione, piuttosto che come ricerche concluse.
LA TELEVISIONE
In molte famiglie è sempre più frequente osservare che il televisore resta acceso tutto il giorno. Non viene visto se non saltuariamente e distrattamente, ma fa da colonna sonora dell’incomunicabilità, funge da riempitivo di un vuoto esistenziale e di un'assenza di scambi affettivi all'interno di tutto il gruppo familiare.
L’assenza comunicativa e la passività rispetto ai messaggi televisivi possono proporsi indirettamente come modello di relazione, anzi di non relazione, cioè di transazione unilaterale in cui si assorbe senza rendere nulla, sui bambini, che da subito imparano a coesistere con il terzo estraneo e passivizzante, la televisione, che può compromettere le loro capacità di attenzione e di concentrazione.
In alcune esperienze di infant e baby observation, alla cui discussione in gruppo ho avuto modo di partecipare, l’osservatore ha riferito di avere notato forti correlazioni tra la depressione della madre, il televisore acceso e la passività del bambino. La depressione della madre veniva spesso connotata da trasandatezza (restare in pigiama, tenere i bigodini, non truccarsi), da noia, apatia e da continui, quasi compulsivi, ricorsi al cibo, mentre il televisore restava acceso a volume elevato per tutto il tempo della visita, anche se nessuno ne guardava le immagini, né tantomeno ne ascoltava i suoni. Il bambino, a sua volta, passava da sforzi non giunti a buon fine di attirare in qualunque modo su di sé l’attenzione materna ad atteggiamenti apparentemente autocurativi, sostanzialmente di marca autistica, quali lo spostamento dell’attenzione verso giochi ripetitivi e monotoni, probabilmente utilizzati come una sorta di precursori della televisione, nel tentativo di lenire la solitudine e la delusione per la mancanza di risposte materne, positive o negative che fossero, alle proprie richieste.
Anche i bambini, crescendo, cominciano a stare molte ore, come ipnotizzati, di fronte al televisore, imbottendo spesso le loro menti delle gesta e delle grida di quei violenti cartoni animati giapponesi (l'effetto ipnotico della TV era già stato segnalato da uno dei grandi del cinema: il regista Ejsenstejn).
D’altronde, quando la cena è pronta e tutta la famiglia è a tavola, anche il padre chiede di fare silenzio per "godersi in santa pace" il telegiornale, dando all'avvenimento la sacralità di un rito che si ripete tutti i giorni e togliendo in tal guisa ogni valore rituale e comunicativo allo stare insieme a cena. Viene escluso, quindi, il piacere della convivialità e negato il soddisfacimento dei bisogni di attenzione dei bambini che, spinti dalla mancata risposta paterna, tendono ad indirizzare i loro interessi e la loro curiosità in modo pressoché obbligato verso il potente mezzo televisivo. Circa l’espressione da parte dei bambini di richieste fiduciose ai loro genitori, così Freud (1890) si esprimeva:
"Una credulità quale quella che l’ipnotizzato riserva al suo ipnotizzatore, fuori dell’ipnosi, si trova nella vita reale soltanto nel bambino rispetto agli amati genitori."(p. 105)
All'ora di cena passano le immagini più truci: eccidi, assassinii, incidenti automobilistici, esecuzioni capitali, mescolate a donnine spogliate, a telegiornalisti urlanti e sboccati, a stupidi quiz, alle immagini di capi di stato che hanno appena deciso del nostro futuro. Sono incredibilmente alti i dati che provengono da statistiche riguardanti il numero di crimini a cui i nostri figli assistono ogni giorno guardando la televisione.
Negli ultimi tempi la televisione, con modalità sempre più intrusive e volgari, sta cercando di spettacolarizzare le contraddizioni e i conflitti presenti nelle relazioni interpersonali, depauperandoli del necessario riserbo e della fragile intimità e, in tal modo, privandoli di qualsiasi attitudine comunicativa. Ne risultano deprimenti spogliarelli psicologici, in cui ogni sentimento, ogni emozione perdono la propria connotazione originaria per trasformarsi in una mesta e sgradevole esibizione di quell’intimità, il cui tenue linguaggio, invece che stravolto, andrebbe pietosamente protetto, difeso da ogni intrusione mediatica.
Il confine fra animato ed inanimato, una volta contraddistinto dall'antica pietas, viene a mancare; il dolore non viene percepito nella sua essenza, la morte non ha più nulla di sacro e di tremendo, ma appartiene soltanto all’ordine del pornografico.
L'epopea del macabro si sviluppa tra patetismo e cinismo; il tutto viene omologato in una circolarità discorsiva senza rilevanza, dove ogni cosa diviene equivalente e resta indifferente in presenza di un flusso continuo e interminabile di stimoli insensati o, quanto meno, tra loro intercambiabili. Si viene a creare una forma speciale di violenza: l’indifferenza, che deriva dall’assuefazione.
Si pensi alla commistione fra il videoschermo, un oggetto concreto, familiare (Eduardo De Filippo lo definiva un elettrodomestico come il frigorifero o la lavatrice) e lo scenario fantascientifico, per esempio, della Guerra del Golfo; si trattava di una tragedia che, nella sua astrazione tecnologica quasi da fumetto, poteva apparire forse a qualche adulto, ma certamente a quasi tutti i bambini, come un videogame; un gioco, quindi, in cui si può distruggere, uccidere senza provare sentimenti, dove la mancanza di confini o di differenziazione tra l'orrore vero e la finzione viene introiettata con una crescente indifferenza, che con il tempo può trasformarsi in assenza di compassione e in deflessione del senso di responsabilità.
Le più recenti immagini della guerra in Serbia rafforzano le precedenti affermazioni con l’aggiunta di una notevole quota di disincanto tecnologico; tutti sanno che le bombe intelligenti, capaci di colpire chirurgicamente l’obbiettivo strategico senza mietere vittime, non esistono, che il termine tecnico "difesa integrata" è in realtà il modo diplomaticamente subdolo per definire un attacco, che le vittime civili sono purtroppo l’aspetto più vero della guerra, eppure la sensazione di assuefazione alle immagini addomesticate dal mezzo televisivo diventa prevalente, quasi ubiquitaria. (Schinaia, 1999)
Roccato (1998) parla di analfabetismo emozionale e di inadeguata percezione di sé in molti pazienti che oggi richiedono un trattamento analitico. Li descrive come "ex bambini distaccati da tutto, perché distaccati da sé,… spaventati dagli incontri veri,…dove gli altri rischiano di esistere davvero" (p. 227).
Mc Dougall (1982) ha introdotto in psicoanalisi il termine di derivazione greca "alessitimia" che significa "assenza di parole per le emozioni" e contraddistingue la difficoltà a descrivere i propri sentimenti e le proprie emozioni e a discriminarli, differenziandoli gli uni dagli altri.
Questa difficoltà, ci ricorda Speziale Bagliacca (1997), si ripercuote ovviamente anche sulla capacità di descrizione, comprensione e discriminazione dei sentimenti e delle emozioni degli altri. Ne deriva che il primo compito che lo psicoanalista o lo psichiatra, ciascuno per la sua parte, devono assumersi è quello di costruire le basi relazionali per una vera e propria educazione sentimentale, che permetta di riconoscere e separare i diversi sentimenti, affinché possano essere vissuti nella loro autonomia e originalità.
Magris (1999), rifacendosi a Gianni Vattimo, descrive la costituzione di una nuova forma dell’Io, non più compatto e unitario, bensì costituito da una molteplicità di nuclei psichici e di pulsioni non più imprigionate nella rigida corazza dell’individualità e della coscienza.
Barale e Ferruta (1997) parlano di "maschere iperboliche di una soggettività instabile e disseminata, all’interno della quale non è più riconoscibile alcun "nucleo" e di conseguenza alcuna distinzione tra vero e falso sé; ma solo sé aperti, che prendono forma e si organizzano, disorganizzano nelle relazioni in atto; identità provvisorie". (p. 375)
In una società in cui le figure del post-moderno, quali il vuoto costitutivo e la decostruibilità di ogni identità, si sposano con l’assenza del limite, fortemente determinata dalla virtualità delle esperienze comunicative, si rende necessario rimettere in discussione i nostri modelli teorici sullo sviluppo psicosessuale in cui prevalgono "sequenze lineari e necessarie invece di reticoli percorsi da movimenti plurali di "va e vieni" in cui si compongono e scompongono organizzazioni esposte a continue riorganizzazioni." (Barale, Ferruta, 1997, p. 375)
"Oggi la realtà, sempre più "virtuale", è lo scenario di questa possibile mutazione dell’Io." (Magris, 1999, pag. 8)
Lanciare una palla di bowling o un sasso dal cavalcavia per alcuni adolescenti possono diventare gesti equivalenti; in entrambi i casi pare che non vengano avvertite differenze fra il birillo che cade e l'auto che contiene uomini in carne e ossa. La televisione, che pure è un formidabile strumento di conoscenza e di intrattenimento, rischia di portare alle estreme conseguenze il processo di deanimazione dell'uomo e di desimbolizzazione degli avvenimenti che lo riguardano, mediante modalità di equazione simbolica sovrapponibili a quelle descritte da Hanna Segal per il pensiero psicotico.
La difficoltà a discriminare l’animato dall’inanimato, il reale dal virtuale, il blocco comunicativo all'interno del nucleo familiare, il dominio del computer o del videogioco come allenamento al controllo dell'altro, vissuto come devitalizzato, incapace cioè di emozioni e sentimenti, se non quelli che narcisisticamente gli vengono attribuiti, possono costituirsi come elementi forieri di un ritiro autisticamente onnipotente e, successivamente di comportamenti francamente aggressivi. Una recente ricerca americana compiuta su un campione di 707 individui, apparsa su Science (Johnson e coll., 2002), mette in relazione il tempo passato a guardare la televisione durante l’adolescenza e la prima giovinezza e la successiva presenza in età adulta di atti aggressivi rivolti ad altri.
E' per questo motivo che parlare del suicidio degli adolescenti in televisione, soprattutto far vedere i loro corpi senza vita, rischia non di ridurre il fenomeno sociale, ma anzi di potenziarlo, a causa delle spinte imitative che il mezzo televisivo può produrre; così come il continuare a parlare delle bravate dei lanciatori di sassi o delle gesta del mostro pedofilo di turno può indurre fenomeni di emulazione, invece che possedere una funzione educativa e preventiva.
Nessuna richiesta di censura da parte mia, anche perché sono convinto che non porterebbe ad alcun risultato utile, ma una richiesta di riflessione collettiva sul rischio che un uso così massiccio e spesso distorto del mezzo televisivo comporta sulla capacità di discriminazione tra fantasie infantili e elementi della realtà attuale, sulla possibilità di differenziare l'animato dall'inanimato, sulla capacità di distinguere il reale dal virtuale.
E' un problema che devono porsi tutte le agenzie educative, famiglia, scuola, istituzioni religiose, associazioni culturali, partiti politici, senza demonizzazioni antistoriche, ma anche senza concessioni a uno pseudomodernismo à la page.
I GIORNALI
L’eccessiva enfasi data dai giornali ai comportamenti pedofili, può contribuire all’insorgenza e all’affermazione di condotte di tipo pedofobo. Sono già presenti nella società attuale tendenze a ridurre i contatti sessuali per paura del contagio attraverso il virus dell’AIDS e più in generale a privilegiare le relazioni virtuali, facilitate dall’espansione di Internet; a queste tendenze bisogna aggiungere il ridotto tempo di contatto con i bambini da parte delle madri lavoratrici, il frequente abbandono o la riduzione dei tempi dell'allattamento materno, la svalorizzazione culturale di forme di contatto fisico tra madre e bambino, come il baciare il neonato in tutte le parti del corpo, dopo averlo lavato e incipriato. La paura di accuse di pedofilia, siano queste interne o esterne, può ulteriormente favorire, innescando una vera e propria formazione reattiva, lo sviluppo di tendenze pedofobe, che invece andrebbero contrastate in nome di contatti fisici che possono favorire un sano sviluppo infantile. A questo proposito vale la pena segnalare il notevole incremento di accuse di abuso sessuale infantile che i genitori nelle cause di divorzio rivolgono l’uno all’altro, molto spesso senza sostanza, ma gravemente minanti il rapporto del genitore accusato con il minore e l’accresciuta tendenza di molti padri a ridurre i momenti di contatto con la nudità dei figli, soprattutto delle bambine.
Scrive Miriam Mafai (2000, p. 15): "Ogni mano allungata sulla testa di un bambino, in un istintivo moto di tenerezza, rischia, anche per la strada o ai giardini pubblici, di essere scambiata per una manifestazione di pedofilia".
Sohn (1989) rileva che in alcune pratiche legali, per la maggior parte anteriori al 1900, politica e sessualità si intrecciavano, come succede anche oggi, per cui in presenza di dispute elettorali sindaci, ma anche maestri e parroci venivano denunciati dagli avversari politici con l’infamante accusa di pedofilia.
Bisogna infine tenere presente che un’enfasi eccessiva posta sul rischio di incontri pedofili, quando manca l’equilibrio nella comunicazione con il bambino, può facilitare la perdita di fiducia nell’adulto, che rischia di essere vissuto come il nemico da cui proteggersi. Sono stati segnalati casi in cui bambini, suggestionati dalle informazioni televisive, hanno inventato di sana pianta aggressioni pedofile, trasferendo nella realtà fantasie di seduzione, talvolta sostitutive della disattenzione e della carenza di cure da parte dei genitori.
Non sappiamo con certezza se la pedofilia sia un fenomeno in aumento, ma sicuramente si tratta di un fenomeno oggi più descritto. Una ricerca citata da Alice Miller (1988, p. 61) dimostra che per ogni caso segnalato, cinquanta rimangono non conosciuti e che più spesso i pedofili sono persone conosciute dal bambino e non estranei ignoti. In ogni caso il problema è più avvertito in termini di sicurezza a livello collettivo come dimostra un sondaggio pubblicato da Le Monde nel 2001, secondo cui la pedofilia rappresenta il principale tema di inquietudine dei francesi.
La cronaca di questi ultimi anni, entrate in crisi le visioni sessuofobiche del passato, segna un radicale cambiamento nel modo in cui il problema viene presentato: dal tabù, qualcosa di cui si tace, (il termine pedofilia non compariva nell’archivio ANSA fino al 1987, come ci ricordano Iaria e coll., 1990) allo scandalo, qualcosa di cui si parla troppo e male, dall'indifferenza al pregiudizio talora isterico. Possiamo notare negli ultimi tempi un incremento di film e di romanzi che hanno come soggetto la pedofilia, che fa pensare alla scelta calcolata dell'argomento "che tira", piuttosto che a una motivazione artistica e sociale autentica. Il cinema e la letteratura in questi casi, enfatizzando l'estensione di un problema, finiscono per attribuirgli una valenza epidemica e, quindi, per aggravarlo. (Schinaia, 1999)
" Tra il polo del silenzio e del menefreghismo e quello dell’invocazione repressiva di tipo distruttivo nei confronti degli autori di abusi c’è un’oscillazione pendolare, c’è una continuità mentale e comportamentale, fondate sulla comune esigenza di allontanare la percezione della violenza e del "male" e di mantenere a tutti i costi un’immagine idealizzata del mondo adulto, sulla comune incapacità di percepire in modo adeguato e responsabile il fenomeno dell’abuso sessuale ai danni dei bambini, sul comune rifiuto a riconoscere e ad elaborare l’ambivalenza emotiva nei confronti dell’infanzia, presente, in varie forme, in tutte le componenti della società adulta, e non solo nei pedofili. " (Foti, 1999, pp. 13-14)
L’attenzione spasmodica che caratterizza il tema degli abusi all’infanzia inasprisce lo stupore e lo scandalo sui singoli casi, ma — in realtà — autorizza alla disattenzione nei riguardi dei comportamenti della vita quotidiana. (Resta, 1999)
Calandra, Monteleone e Di Rosa (1998) hanno raccolto per circa un anno, tra il 1994 e il 1995, una serie di articoli pubblicati su quotidiani nazionali e regionali (siciliani) riguardanti casi di maltrattamenti su bambini, anche di tipo sessuale, sottolineando una mancanza di riflessione sull’informazione giornalistica dal punto di vista educativo e preventivo.
Un approccio sensazionalistico ai temi della violenza sessuale sui minori può stimolare l’aggressività del lettore, tanto più quanto più è giovane, allontanandolo da una realistica presa di coscienza dei propri limiti e dei principi che regolano le relazioni sociali. Il lettore è sempre più indotto ad isolare e a cogliere solo frammenti decontestualizzati di un fenomeno che ha dinamiche complesse, aumentando in questo modo la probabilità non solo di accettare passivamente la violenza, ma anche di agirla. (Calandrae coll., 1998)
Marchiori, Simioni e Colombo (2000) in una ricerca su articoli riguardanti la violenza sessuale apparsi su alcuni quotidiani nazionali "La Repubblica", "L’Unità" e "Il Gazzettino" in tre annate complete, nel 1977, nel 1987 e nel 1997, a dieci anni di distanza una dall’altra, evidenziano che l’informazione appare ridondante, confusa, stereotipata:
"Le notizie, le pubblicazioni e le immagini relative alle diverse forme di abuso sessuale, sfruttate per esigenze di news-making o di copione, di efficienza e di commerciabilità, progressivamente decontestualizzate e depauperate di significato, più che accrescere la sensibilizzazione sembrano aver creato un clima culturale emotivamente anestetizzato, o di impotenza e rassegnazione" (Marchiori e coll., 2000, p. 191)
Una delle caratteristiche della notizia riguardante l’abuso, che rimane sostanzialmente inalterata nel ventennio considerato dalla ricerca, consiste nel fatto che mentre i quotidiani abbondano di informazioni riguardanti l’abusatore e l’atto dell’abuso, forniscono in modo carente informazioni riguardanti la psicologia della vittima, fatti salvi gli ovvi diritti alla riservatezza.
"Questo modo di fare informazione contribuisce a creare un’atmosfera di suspence, puntando sull’aspetto romanzato del crimine e facendo perdere di vista la gravità dell’evento, nei termini della risonanza affettiva che riveste per la vittima" (Marchiori e coll., 2000, p. 198).
Il risultato di queste operazioni giornalistiche può anche consistere nell’aumento della paura e della sfiducia verso le persone e le istituzioni, con un incremento del pessimismo e dell’aggressività.
La tematica del mostro presente nel film Il Mostro di Dusseldorf di Fritz Lang pone il problema dell’ambivalenza dell’adulto nei confronti del bambino che si trasforma in paura collettiva del mostro e, quindi, nella ricerca proiettiva del capro espiatorio, rappresentata attraverso l’eloquente sequenza delle immagini del linciaggio di un innocente da parte della folla inferocita. Si tratta di immagini paradossalmente rassicuranti per il loro carattere manicheo, che apre e mantiene aperto lo scarto tra il mostruoso e il normale. Il mostro pedofilo sbattuto in prima pagina è una caricatura del pedofilo reale e il riduzionismo e il semplicismo che sostengono questa superficiale ritrattistica dei giornali evitano ai lettori di fare i conti con i quotidiani comportamenti d’abuso sull’infanzia, di individuare i frequenti atteggiamenti pedofili presenti in uomini "apparentemente normali" sostenuti dalla altrettanto "normale" propaganda dei media.
D’Avanzo (2000) cita la giornalista inglese Decca Aitkenhead che nel 1998 sul Guardian scriveva: "I gruppi di persone che si possono odiare continuando a sentirsi per bene sono ormai pochi. Quello dei pedofili è perfetto".
"Era accaduto che il pedofilo Sidney Cooke era stato scarcerato e rimandato a casa e una folla di nonne, adolescenti, donne d’affari stringeva d’assedio il commissariato della Contea di Somerset senza neppure avere la certezza che Cooke fosse lì nascosto o protetto. ‘L’ignoranza di quelle donne era seconda soltanto alla loro determinazione a fare qualcosa’, scrisse Aitkenhead. Gridavano: ‘Uccidete quel bastardo’. Non sapevano come era fatto Sidney Cooke, se fosse davvero un pedofilo, se fosse davvero colpevole, che cosa avesse fatto o che cosa era accusato di aver fatto. Sapevano che esisteva, sapevano che si diceva che fosse un pedofilo e tanto bastava. ‘Uccidete quel bastardo’, allora" (D’Avanzo, 2000, p. 1).
Così commenta il giornalista italiano: "Ognuno può uscire dalla prigione del suo privato, liberarsi per un pomeriggio del suo destino malsicuro, della sua vita provvisoria, respirare oltre quell’onnipresente nebbia di ansia, paura, insicurezza che rende ogni ombra pericolosa e ogni giorno inquieto" (D’Avanzo, 2000, p. 16).
CONCLUSIONI APERTE
Sarebbe lecito oggi attendersi da potenti mezzi comunicativi, quali la televisione e i quotidiani, una maggiore attenzione alla complessità del fenomeno, evitando più o meno diretti incitamenti alla violenza, mostrando maggiore rispetto per lo sviluppo del bambino e stimolando più approfondite analisi del fenomeno pedofilia.
Costruire una cultura del rispetto dell'integrità del bambino non è facile al giorno d'oggi e rischia di avere buon gioco la propaganda pedofila quando contrappone alla mercificazione del bambino e dei suoi sentimenti, l'attenzione (perversa, ma presente) ai suoi desideri, compresi quelli sessuali, definiti naturali e non reprimibili.
Uno sforzo costruttivo che coinvolga i principali mezzi di comunicazione sarebbe vitale per arginare il fenomeno. Scriveva Hannah Arendt (1948): "Comprendere significa affrontare spregiudicatamente, attentamente la realtà, qualunque essa sia".
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