Allora si doveva spiegare davvero cosa fosse INTERNET e a cosa poteva servire soprattutto in termini di formazione e comunicazione professionale oggi le cose sono radicalmente cambiate e i nostri lettori “sanno” a cosa serve la rete e maneggiano in maniera assai naturale strumenti e applicazioni davvero impensabili solo 10 anni fa.
Ciò che è certamente cambiato e merita di essere ribadito nell’avvio della trattazione è il “mondo” entro cui operiamo professionalmente.
La Rete ha cambiato il rapporto col sapere e con i saperi, rendendo le persone più informate (per la facilità con cui si accede all’informazione) o purtroppo più disinformate (per la facilità con cui si accede senza filtri a fonti mendaci) che in passato[1]. Quello che è certamente cambiato è il tessuto sociale in cui noi e i nostri pazienti viviamo e operiamo.
Il virtuale non può essere considerato una “contaminazione” della realtà ma una parte di essa ormai stabilmente consolidata che occorre imparare a conoscere nello logica semplice, ma ineludibile di essere chiamati a far bene il nostro mestiere di Operatori della Salute Mentale essendo consci del contesto in cui operiamo ed educati a maneggiarlo nel modo più maturo e consapevole possibile.
Lo scopo pertanto di questo contributo non sarà quello di insegnare a usare Internet in psichiatria ma quello, molto più importante oggi, di provare a capire come la rete ha cambiato il mondo e come pertanto influenza il nostro lavoro che nel mondo si svolge.
Comprendere “la natura” in cui ci si muove è stato da sempre uno dei compiti della psichiatria per poter operare al meglio e le pagine che seguiranno sono un tentativo di illuminare tale contesto e problematizzarlo con lo scopo di comprenderlo.
Per scelta, quindi, non mi soffermerò, se non di sfuggita e all’interno del discorso sull’uso delle tecnologie nel contesto delle pratiche psichiatriche, volgendo l’attenzione, per me più importante agli aspetti fisiopatologici e sociologici che tale uso, assai pervasivo nel nostro quotidiano, comporta per tutti noi.
Dice Jaspers: “La vita psichica normale è oggetto della psicologia. Uno studio della psicologia è per principio necessario allo psicopatologo, quanto quello della fisiologia a colui che si occupa di patologia somatica”[2]
Intendiamoci, come dice Jaspers citando acutamente Kant il “mondo” è un’idea non un oggetto e come tale è inafferrabile come “tutto” e solo parzialmente e frammentariamente conoscibile.
Al tempo stesso il mondo, la società cambia nel tempo e cambia soprattutto per “eventi rivoluzionari” che connotano tali rivoluzioni.
Thomas Kuhn[3] dedica appena due pagine nel suo capolavoro “LA STRUTTURA DELLE RIVOLUZIONI SCIENTIFICHE” alle rivoluzioni sociali, accomunate alle rivoluzioni scientifiche dal radicale e mutativo “cambio di paradigma” che le determina, sottolineando, per altro, che dietro a una rivoluzione sociale vi sia sempre una “rivoluzione tecnologica” che ne determina l’affermazione rispetto al precedente ordine sociale ma che il “nuovo paradigma” ha bisogno di essere accettato dalla massa delle persone per affermarsi.
Anche se profetizzato fin dagli anni quaranta da scienziati visionari come Vannevar Bush[4] la società dell’informazione è nata (si è affermata definitivamente) non più di 10 anni fa.
È, infatti, il 2009 l’anno in cui si diffonde e diviene “popolare” l’uso degli smartphone, con una crescita planetaria inarrestabile, confermando l’ipotesi che, nel 2000, avevo avanzato nel mio saggio “ASCESA E CADUTA DEL TERZO STATO DIGITALE”[5] dove davo la definizione del nuovo paradigma foriero del cambiamento sociale che oggi è sotto gli occhi di tutti:
“reti informatiche formate da unità pensanti sempre più piccole, sempre più potenti, sempre più user-friendly, sempre più multimediali tra loro interconnesse mediante un protocollo di comunicazione cross-platform e mediante sistemi di comunicazione sempre più efficienti e rapidi nella distribuzione dei dati, la cui fruizione e la cui costruzione è controllabile, in buona parte dall’utilizzatore finale”[6].
E’ solo intrecciando questo paradigma (l’avvento del mobile e l’avere “il mondo” letteralmente in tasca) con la virtualizzazione dell’esistenza (o almeno di una sua larga parte) che possiamo comprendere la portata della Rivoluzione Sociale che stiamo vivendo e qui, prima di continuare è necessario, infatti, porsi una domanda: COSA E’ IL VIRTUALE?
A cui si può rispondere con un’altra domanda che non necessita di scomodare il postmoderno e il 4.0: DOVE SI SVOLGE UNA TELEFONATA?
La tecnologia ha semplicemente espanso, evolvendosi da fenomeno di nicchia per tecnocrati a contagio planetario alla portata di tutti, in maniera logaritmica le potenzialità del mezzo (diceva un mio amico americano tanti anni fa: Internet è come il telefono dipende da come lo usi) ma nella sua essenza il virtuale non abita un luogo diverso ed esiste da più di un secolo è solo cambiata la sua pervasività sociale e mentale.
L’Information Technology Society non è soltanto la realizzazione del sogno della Nuova Biblioteca di Alessandria con la conoscenza alla portata di un click sul mouse, non è soltanto la più grande chiacchera collettiva che la storia dell’umanità ricordi è anche e soprattutto un inarrestabile cambiamento della società e dei rapporti sociali, economici e interpersonali.
Il cambiamento più marcato, che coincide con l’affermazione del nuovo paradigma sociale è certamente quello che fa riferimento alla sfera pubblica e alla formazione della pubblica opinione.
Parafrasando Habermas potremmo dire che la rete è passata dall’essere al suo nascere uno Spazio Pubblico Borghese e ristretto al divenire oggi uno Spazio Pubblico Plebeo ubiquo dove il monologo e la narrazione prevalgono sul discorso.
Il fatto che sia diffusa e pubblica non rende una Pubblica Opinione di per sé giusta, la rende semmai dominante. Un esempio che ci riguarda è lo STIGMA per i disturbi mentali gravi.
Oggi nel discorso interno alla sfera pubblica non prevalgono né le motivazioni razionali né la logica, prevale il Simbolo. Non a caso si va avanti a Slogan. In passato prevaleva nella sfera pubblica, per la formazione di una pubblica opinione, la comunicazione endogamica rivolta cioè all’interno di un gruppo di riferimento e potere, oggi prevale la comunicazione esogamica volta al consenso esterno al proprio gruppo di riferimento tradizionale.
La socialità nel virtuale è profondamente cambiata e con essa la stessa rappresentazione/percezione del concetto di sfera pubblica. Siamo in un “sociale” a forma di like (unica forma di riconoscimento prestazionale misurabile?), siamo in un sociale in cui hanno perso forza e rappresentatività i corpi intermedi e per ciò stesso diventa sempre più difficile il dialogo sociale, in un “mondo” in cui sono cambiati anche i parametri di riconoscimento del ruolo all’interno della sfera pubblica comunemente intesa. L’io virtuale non è un io di massa, puntiforme, intercambiabile ingenuo e a-problematico (moderno), è una massa di io, problematici, comunicanti per simulacri di realtà vissuti come veri (postmoderno). Cambia la socialità, siamo sempre meno “noi tutti” e, infatti, le aggregazioni anche politiche sono ondivaghe e molto instabili. Dice Jaspers: “il sapere fondamentale umano si struttura mediante le categorie, possiede la totalità mediante le idee ma nel sapere fondamentale la realtà veramente afferrabile ha la forma del simbolo”[7]
Il virtuale ha sviluppato nuove categorie simboliche su cui occorre ragionare per i nuovi modelli di conoscenza che comportano nuove visioni del mondo sovvertendo categorie ed idee, attraverso diverse grammatiche che vanno studiate e comprese per capire profondamente i nostri pazienti che ce li portano.
Se da un lato, come psichiatri, dobbiamo riconoscere che i cambiamenti sociali e tecnologici non determinano specifici cambiamenti psicopatologici ma semmai cambiamenti nella declinazione della fenomenologia e nella frequenza statistica di eventi psichici per altro immutati nel tempo, e che è pur vero, però che l’interno è influenzato dall’esterno e viceversa e i sintomi possono nel tempo cambiare anche se hanno una identica origine profonda, dall’altro essendo la psichiatria una scienza profondamente immersa nel sociale (oltre che nel personale) e nell’interpersonale credo sia assai importante analizzare questi cambiamenti (del soggetto, dell’oggetto, delle relazioni) nel momento in cui come operatori della salute Mentale ci facciamo, volenti o nolenti i conti nel quotidiano.
Non ho velleità, in questo contributo, di dare un quadro esaustivo di una realtà ancora giovane (e soprattutto in costante tumultuosa evoluzione) e che necessita di studio assai approfonditi per essere pienamente compresa; proverò piuttosto a pormi delle domande e a descrivere degli scenari in una sorta di “open book” da completare nel tempo, tessere di un mosaico da terminare nel suo disegno complessivo, senza malinconie rassicuranti di comprensione di fenomeni in realtà ancora da capire profondamente.
Per procedere scientificamente in un esame della virtualizzazione del vivere credo dobbiamo fare nostre le parole di Jaspers: “ Come bambini noi disegniamo le cose, non come le vediamo, ma come le pensiamo in modo analogo come psicopatologi passiamo da un gradino nel quale ci figuriamo lo psichico in un qualche modo, per poi giungere a una diretta comprensione di esso, scevra da pregiudizi. E questa impostazione fenomenologica è uno sforzo continuo, è una proprietà che si deve acquisire superando sempre nuovi pregiudizi”.
Capire significa dare un senso.
L’uomo è un essere “sociale” e vive di comunicazione interpersonale.
Pur se la “natura” dentro cui, oggi, l’uomo vive è, anche, formata da reti informatiche e memorie di massa interconnesse tra loro, il vero tema in gioco, nel nostro ambito professionale, non è, solo, “capire la tecnologia” (anche se è molto importante visto che come detto è il driver del cambiamento), ma comprendere quanta “umanità” scorre dentro tali reti e “come alligna” dentro tali memorie di massa con la consapevolezza che tale comprensione è parte integrante del nostro lavoro.
“La filosofia, nata per sapere, ha assistito, per tutto il corso della sua storia, a quella situazione paradossale per cui mano a mano che l’essere o qualche suo aspetto era raggiunto dall’evidenza scientifica cessava di essere oggetto o problema filosofico”[8], oggi l’evidenza scientifica intesa come tecnologie è diventata oggetto della filosofia dell’essere e della psicopatologia.
Solo uscendo dal virtuale lo si può osservare, ma solo vivendo il virtuale lo si può comprendere davvero.
In questo senso credo sia, da un lato, indispensabile “sporcarsi le mani” col virtuale, per comprenderlo, dall’altro altrettanto indispensabile per un operatore della Salute Mentale sviluppare una capacità empatica di cogliere la continua evoluzione della tecnologia paradigmatica (che è essenzialmente comunicazione sempre più raffinatamente e facilmente messa a disposizione di utenti che spesso imparano senza capire il senso) per poterla accogliere all’interno dei processi di cura (anche usandola se è il caso), specialmente come elemento ineludibile della comunicazione, in cui sono coinvolti tutti, pazienti e terapeuti vista la pervasività che tali tecnologie hanno nel proprio “DNA Digitale”.
La tecnologia ha creato un “luogo altro” il Virtuale che prima esisteva solo dentro di noi e che ora è diventato un luogo popolato e popolare, la tecnologia ha pure “raffinato” sempre più questo luogo rendendolo parte costitutiva del reale, ancorché profondamente diverso anche se ad esso intrecciato in maniera difficilmente “solubile”.
Nel virtuale la “quota parte” soggettivata e soggettivabile può essere molto superiore all’oggettività, propria della vita quotidiana nel mondo degli atomi. Nella mia lettura per altro osservo differenze quantitative e non qualitative tra le due situazioni. Comunque tutte le scienze dello psichico mettono al centro la rappresentazione interna di sé e del suo mondo sia esso reale o virtuale, ossia la realtà psichica e i vissuti che per altro SOLI interessano i nostri pazienti al di là delle declinazioni sintomatologiche utili a comprendere non a curare.
Per Jaspers è reale ciò che percepiamo con carattere di corporeità, ma nel momento in cui Jaspers dice che la realtà sta nella coscienza dell’essere come tale non possiamo oggi non includervi la virtualità che introduce nel concetto jasperiano di oggetto e di “reale” la variabile dell’incorporeità e della mancanza di resistenza in una logica di coscienzialità della virtualizzazione sempre più spinta di azioni, rapporti, relazioni, vissuti fino a 20 anni fa possibili soltanto nel mondo degli atomi.
In particolare il virtuale induce, oso dire OBBLIGA lo psicopatologo a ripensare il concetto di rappresentazione.
La virtualizzazione del corpo muta il mio rapporto col mondo, ma al tempo stesso ci fa riconoscere che non siamo solo corpo.
Dice Jaspers[9]: “ L’io si coglie solo in relazione all’altro che non è io, ossia in relazione al mondo in cui si trova. Di fronte al mondo in cui si percepiscono e si pensano le cose, l’io è il soggetto rispetto a cui tutte le altre cose sono oggetto”[10] Nel postmoderno postindustriale la virtualizzazione dell’oggetto, la caduta del valore della percezione rispetto alla rappresentazione, modificano la visione del mondo e pure la coscienza dell’io, essendo mutata la relazione con l’altro da me. La domanda è quindi: dove mi colloco io nel virtuale e dove si colloca l’io?
Il virtuale non rassicura per la perdita della resistenza dell’oggetto. Il virtuale problematicizza il rapporto con l’oggetto poiché sposta dal fuori al dentro il rapporto facendo prevalere la rappresentazione rispetto alla percezione, soggettivizzando la realtà, il mondo degli atomi è “saturo”, il mondo dei bit “insaturo e sempre da completare con la fantasia. Per Kant la conoscenza percettiva è impotente senza la sintesi dell’immaginazione essendo la percezione del reale sempre parziale. Nel virtuale la fantasia non è fideistica nel completamento della percezione ma diventa percezione direttamente, tanto più nel campo delle relazioni.
Il reale non è più costituito sulla fede nella percezione, nel virtuale prevale il simbolo, e più è collettivo più è “reale” e unisce, proprio come accadeva nella sua antica accezione. Il vero problema è quando il simbolico diventa tramite l’intreccio tra reale e virtuale l’unica chiave di lettura della realtà.
Quale è la cifra del virtuale? La “natura” sono le reti informatiche o il loro effetto su di noi? Per effetto intendo il loro agire sull’essere e sul sentire non sulla velocità di calcolo, che altro non è che una sempre maggiore messa a fuoco del virtuale.
Fatte salve queste considerazioni fisiologiche accorre ovviamente porci delle domande sul versante della psicopatologia: siamo certi cioè che, in relazione ai vissuti connessi alle esperienze relazionali virtuali si debba far rientrare totalmente nel campo delle rappresentazioni e conseguenti sviluppi psicopatologici?
Qual è la vera natura delle percezioni virtuali? Esistono?
Va in qualche misura ripensata la suddivisione, jasperiana tra percezione e rappresentazione? Nel virtuale è possibile in altre parole allucinare, pseudo allucinare e percepire?
Il concetto va approfondito: noi nell’accesso alla virtualità percepiamo la device ma la superiamo entrando in una dimensione relazionale con oggetti virtuali la cui collocazione intrapsichica andrebbe attentamente studiata sia in relazione alle caratteristiche percepite sia in relazione ai vissuti.
Come per la rappresentazione così per la pseudo allucinazione occorre ripensare in una declinazione virtuale la lezione jasperiana, dice Jaspers: “le pseudo allucinazioni non hanno affatto il carattere di corporeità e appaiono nello spazio subiettivo interno ma stanno dinanzi all’occhio della mente con un disegno definito in tutti i suoi dettagli e con piena adeguatezza percettiva degli elementi della sensazione.”[11]
Riguardo alle rappresentazioni Jasper dice che “ hanno carattere immaginario, appaiono nello spazio interiore soggettivo, hanno un disegno indefinito e incompleto, dipendono dalla volontà”.
Ecco credo che, essendo il virtuale relazionale scevro da componenti percettive dirette e sempre mediate dal mezzo tecnologico siano essi messaggi testuali vocali o video, occorra capire il ruolo della rappresentazione e della eventuale pseudo allucinazione della costruzione di questi rapporti.
In altre parole “lo spazio subiettivo interno” è un luogo che la virtualizzazione dei rapporti ha cambiato per sempre o almeno è necessario fare delle distinzioni per meglio comprendere la natura dei vissuti?
Vi è una distinzione da operare in relazione agli organi di senso coinvolti? Vi è differenza tra una chat testuale e una videochiamata di Skype?
Quanta parte ha nel vissuto delle esperienze virtuali la coscienzialità (l’aver presente in modo non visibile un contenuto)? Quanto differenziano le relazioni oggettuali SOLO VIRTUALI da quelle che si sviluppano ANCHE virtualmente?
Sono tutte domande che occorre porci nel momento in cui analizziamo le declinazioni psicopatologiche connesse alla coscienza dell’oggetto.
La mia idea è che gli oggetti virtuali investiti affettivamente abbiano una consistenza emotivamente significativa per il soggetto, dal punto di vista clinico ciò che va compreso è il significato della relazione, nella mia visione tanto più si colloca solo nel virtuale tanto più ha a che fare con la patologia.
Il virtuale modifica la nostra coscienza del tempo e dello spazio, cambia direbbe Jaspers citando Kant la nostra FORMA DI INTUIZIONE. I limiti fisici dello spazio scompaiono, il contatto prescinde dalle distanze che magari tornano come direbbe Kant nel momento in cui dobbiamo percorrerle un po’ come i talleri (“Da un punto di vista concettuale – dice Kant citato da Jaspers – , cento talleri pensati non sono differenti da cento talleri reali. Ci si accorge della differenza soltanto nella pratica”[12]) anche l’esperienza temporale cambia in un “qui ora” marcatamente e soggettivamente atemporale (dell’essere come eterna presenza, in cui la direzionalità del divenire, le stesse figure temporali di Minkovsky vanno rilette in questa ottica. Che tempo virtuale si apre davanti a noi per esempio con la figura temporale della speranza?
Domande quali: come viaggiano i sentimenti nel virtuale? Verso quali oggetti viaggiano?
Quanto dobbiamo parlare di oggetti-sé, si intende per oggetto-sé l’oggetto percepito come parte del sé, cioè narcisistico, che non ha soggettività sua propria ma che serve al soggetto per sentirsi integro. Il primo a definirlo cosi fu Khout, ma in termini analoghi lo si potrebbe definire oggetto narcisistico[13]?
Che forme assume la declinazione affettiva dei rapporti interpersonali nel virtuale? Sono quesiti che lo psicopatologo lo psichiatra lo psicoterapeuta deve porsi nella misura in cui il virtuale pervade anche da questo punto di vista la vita dei nostri pazienti e pure la nostra in maniera sempre più significativa.
Il virtuale è fusionale e scissionale al tempo stesso.
Ma il virtuale si presta anche forse più del reale a divenire il luogo dove agire le parti scisse dell’Io e come tale pabulum nel quale poter psicopatologicamente meglio comprendere la scissione. Possiamo nel virtuale parlare di vera esperienza di sdoppiamento? Secondo Jaspers: essa ha luogo “ quando le due serie di processi psichici sono sviluppate contemporaneamente l’una accanto all’altra, cosicché’ si può parlare di due personalità, entrambe le quali vivono in modo singolare, in modo che esistano da entrambe le parti rapporti di sentimenti che non si fondono con quelli dell’altro lato ma rimangono estranei”.
O forse dobbiamo parlare di del falso se’?
Non trova esso nel virtuale un luogo molto favorevole al suo esprimersi anche in maniera non patologica con la possibilità di maneggiare le proprie multiple identità (si pensi all’adolescenza in maniera più marcata) entro certi limiti è fisiologico giocare con aspetti scissi dell’Io che vengono a seconda delle circostanze messi in campo. La scissione nel virtuale può assumere tratti più marcati e patologici: vivere un’altra vita attraverso un nickname.
Occorre approcciarsi al virtuale senza ideologie preconcette accettandone la complessità e accettandone, come la realtà di cui fa parte, la sua difficile comprensione completa ma appunto facendo attenzione a non confondere l’idea del virtuale con la sua conoscenza oggettiva davvero impossibile da cogliere nella sua interezza. Infine vanno considerate le nuove forme di socialità che il virtuale crea di continuo.
Jaspers sottolinea l’importanza delle comunità nella vita dell’individuo io credo che le relazioni gruppali possano rappresentare nuove forme di socialità da studiare e approfondire con tutte gli annessi e connessi relazionali che comportano anzi arrivo a dire che rivestono ormai una tale importanza che nella raccolta anamnestica delle informazioni dei nostri pazienti andrebbe aggiunta la voce “RAPPORTI VIRTUALI”.
Non esistono patologie INTERNET-correlate ma declinazioni psicopatologiche connesse a internet e alla dimensione anche virtuale della vita di tante persone[14].
L’obiettivo psicopatologico è quello di esplorare la “natura” mutata della realtà in un mondo in cui i confini tra reale e virtuale si assottigliano sempre di più e in cui la vita on line ha una valenza e una pervasività che lo psicopatologo non può da un lato trascurare ne’ omologare erroneamente alla categorie valide per la realtà fisica come fino ad oggi abbiamo spesso fatto erroneamente.
La psicopatologia del XXI Secolo necessità di uno sforzo di tal fatta per offrire chiavi di lettura nuove utili a una clinica che non può prescindere mai da un reality test pertinente e corretto.
Karl Jaspers scrive: “ …Il sapere e il comportamento dello psichiatra (lo psicoterapeuta) acquistano un significato speciale nell’insieme dell’arte medica. In virtu’ della sua specialità egli solo è in grado di considerare coscientemente e metodicamente l’uomo come un tutto e non uno dei suoi organi ne’ il corpo senza riguardo al resto. Solo lo psichiatra è abituato a considerare la situazione sociale, l’ambiente, il destino e le esperienze vissute dal malato e a tenerne conto consapevolmente nel suo piano di cura.”[15]
Jaspers ne sono certo se vivesse oggi avrebbe inserito il virtuale nella fisiopatologia delle avvenimenti psichici, era un ragazzo di trent’anni attento e curioso.
Concludendo si può clinicamente affermare che il virtuale accentua, o mette più in luce e forse consente di cogliere meglio, il problema che molti pazienti hanno di distinzione tra esterno e interno, la famosa membrana di protezione di cui parlava Freud è purtroppo labile in molti individui, i confini sono fragili…il virtuale non crea, certo, ma accentua la fragilità, la porosità dei confini interno/esterno che sono alla base di una salda identità e soggettività. Cioè, se tutto mi entra dentro e tutto può uscire non so più chi sono…
Se il moderno era il regno del Fordismo, l’information Technology Society è il regno del Microsoftismo dove con questo termine intendo una impresa ad altissimo valore aggiunto con proporzionalmente molto più basse spese di impianto rispetto ad attività tradizionali e con utili in ascesa esponenziale nel momento in cui la tecnologia digitalizza totalmente il processo produttivo e di distribuzione.
Questa esplosione economica, ma soprattutto lo spostamento dei centri di guadagno, ha cambiato profondamente i rapporti di forza all’interno della società in un processo, proprio perché sostenuto da tali forze economiche, di evoluzione sociale interconnessa e inarrestabile, i cui contorni si faranno sempre più chiari col passare del tempo.
Io non so se questa è la migliore delle soluzioni possibili, non so se sarebbe stato praticabile uno sviluppo diverso, dove il bisogno irresistibile dell’uomo di comunicare trovasse uno sfogo e degli strumenti più confacenti al suo bisogno profondo di vincere ed esorcizzare la solitudine.
Jaspers dice che solo partendo dalla solitudine ci si può incontrare e può nascere la comunicazione vera tra due esseri.
Il successo dell’Information Technology sta anche nel farci credere che tutto ciò è possibile e con facilità: non è vero, ed è compito degli operatori della Salute Mentale comprenderlo e farlo comprendere ai propri pazienti.
Virtuali o reali che si sia dobbiamo mantenere alta la guardia e difendere la nostra faticosa umanità ed è questa la sfida che ci attende negli anni a venire.
Internet non ti può abbandonare, sei tu che lo spegni e questo alimenta l’onnipotenza, il rifugio autistico, nei predisposti.
Bollorino lo dice in termini
Bollorino lo dice in termini più concreti dei miei, ma anche i miei termini più più astratti possono risultare utili alla comprensione. Secondo me con il virtuale il sapere prende definitivamente il sopravvento sull’essere. Il movimento non è nato oggi. Prese le mosse nel lontano 1637 con il cogito cartesiano. Allora fu l’esternazione solitaria di un filosofo, per lo più non ben compresa. Ora è un fatto collettivo universale, la cui diffusione non è ostacolata neppure dalle inevitabili fake news. Ironicamente Bollorino si chiede se il virtuale allucini. Certo! Il virtuale allucina come allucina il pensiero, in particolare il pensiero desiderante, che fa esistere l’oggetto che non esiste, tutto un mondo – il mondo non è un oggetto, afferma giustamente Bollorino.
Rilevo un tratto ineludibile dell’esistere in rete, messo bene in evidenza da Bollorino: l’esistenza soggettiva è da subito collettiva prima che individuale; prima del mio clic ne esistono miriadi che gli danno (e gli tolgono) spazio. Dobbiamo pensare una psicologia di massa un po’ più ricca e articolata di quella essenzialmente individualistica proposta da Freud.
Denso e avvincente, questo
Denso e avvincente, questo contributo di Bollorino. Un invito a pensare e fare. Non sono dell’area, mi occupo di formazione, ma sento i problemi qui sollevati come miei problemi, umani e professionali. Temi antichi e anche nuovi. Distinguere ciò che è antico e ciò che è nuovo, in tutta questa faccenda della virtualizzazione del reale (per dirla con Lévy), è operazione da non trascurare. Buona parte dell’analisi proposta da B. potrebbe funzionare, io credo, applicata alla figura di Don Chisciotte. Dunque, di antico c’è che un immaginario chiuso in se stesso (poco importa che lo si succhi dai libri o dal cinema, nevvero Woody?, o dalla rete) rischia di portare ‘fuori di testa’. C’è insomma la necessità di giocare continuamente sui diversi piani o livelli di realtà. Su questi temi ci siamo trovati, allo scoppio del digitale e della rete, con una limitata elaborazione. Di conseguenza, la rivoluzione ci ha travolto. Per un po’ siamo rimasti storditi (ne parlava quel saggio pazzo di McLuhan), contentandoci di schemi riduttivi, come quelli che fanno leva sull’impossibile separazione di reale e virtuale, e che portava a tenersi fuori di quel mondo là (ma senza avere la saggezza empirica di Sancho), poi, ora, assieme alla necessità di leccarci le ferite provocate da quella reazione (alla Totò sotto schiaffo: ‘e che sono Pasquale?’), iniziamo a pensarlo, il mondo, e a pensarci dentro. Ma attenzione. Di nuovo c’è una cosa importantissima, e cioè che la rete è infrastruttura su cui poggia buona parte della nostra vita, non funge solo e non tanto da mezzo di comunicazione: non richiede, allora, soltanto una fenomenologia, deve essere colta anche come ontologia, elemento di fondazione del senso di realtà e, allo stesso tempo, parametro da far valere per conquistare un positivo senso di possibilità. Di conseguenza, mutando le logiche di riferimento del mondo, dobbiamo mutare i modi per leggerlo, farci carico di nuovi parametri (per esempio, mettere il concetto di rete al centro di quell’idea di realtà che fin qui abbiamo cercato di cogliere attraverso il concetto di testo non è impresa da poco, affrontarla significa porre in discussione buona parte dei saperi costituiti e degli apparati sociali che ad essi fanno riferimento, nell’educazione così come nella salute). Per questo consiglio di abbandonare, fin da subito, certi discorsi moralistici e fuorvianti sui like. Perché? Perché riguardano cose e atteggiamenti non nuovi, ma vecchissimi, soltanto più evidenti lì, in rete, che altrove. Ma cosa fanno i cinquecento che firmano l’appello per la storia nelle scuole se non produrre dei like? Eppure sono intellettuali ‘di tutto rispetto’. Gente, comunque, che mette un like per esserci, senza chiedersi nulla sulla fondatezza di post che sottoscrivono (cioè, intendo, senza interrogarsi se abbia senso chiedere storia per questo tipo di scuola e di apprendimento, o se al limite più storia, ossia più manuali test ecc. non rischi di danneggiare la crescita di una buona coscienza storica). Insomma, la rete rende tutto più complicato? No, la rete ha il merito di farci vedere quanto è complesso il reale e quanto è rischioso cercare di imbrigliarlo in schemi di pronto uso. Forza, avanti così!
Dice Roberto: “la rete ha il
Dice Roberto: “la rete ha il merito di farci vedere quanto è complesso il reale e quanto è rischioso cercare di imbrigliarlo in schemi di pronto uso”
Credo sia assolutamente vero come è vero che la rete intesa come infrastruttura di supporto ormai permea molte se non tutte le nostre attività come cittadini ( si pensi per fare un esempio alla dichiarazione dei redditi – siamo nel periodo – on line che implica de facto la necessità di imparare ad usare la rete e i suoi strumenti) siamo per altro nel nuovo paradigma e occorre farci i conti senza se e senza ma.
La fenomenologia però è importante poichè aiuta ad aprire un ragionamento sul vissuto e sugli aspetti “umani” che scorrono dentro le reti informatiche.
Per troppo tempo si è cercato di parametrare il vivere on line col vivere off line: in parte è vero ma esistono vissuti e conportamenti propri e specifici che vanno studiati e capiti anche in termini su competenza nelle loro declinazioni “psicopatologiche”.
Continuo a pensare che ci vorrebbe uan Psicopatologia Generale della vita on line ma per ora nessuno l’ha scritta mondandosi da malinconie omologatorie.
Come continuo a pensare che solo con una ibridazione dei saperi si potrà creare una conoscenza reale dell’Information Technology Society
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