«Ma la cupa ombra che ora si stende sull’Europa passerà alla fine, e sulle zolle e tra i solchi ora fumidi di sangue umano tornerà a tremolare il buon grano della vita». Così scriveva uno psichiatra dell’Università di Genova, Moissey Kobylinsky, nel novembre 1914, prima che l’inferno avesse inizio anche per l’Italia. Aggiungeva una postilla: «Mentre scriviamo queste righe, il teatro della guerra si estende sempre più ed altri popoli vengono travolti nel turbine di sangue. Non sappiamo quale sorte aspetti l’Italia». Bastarono pochi mesi e la sorte dell’Italia gli fu più chiara; poi fumide di sangue umano divennero anche le montagne del confine nord orientale. Ci vollero quasi quattro anni perché il buon grano della vita tornasse a germogliare in quei luoghi, ma poi anni dopo fu di nuovo calpestato dallo scarpone prima di riprovare ancora a germogliare. E anche oggi, mentre a distanza di cento anni ne scriviamo, altri popoli sono travolti nel turbine di sangue. Vorrei dedicare questo 4 novembre, giorno della vittoria patriottica e delle Forze armate nell’anno in cui celebriamo il centenario dell’inizio dell’immane tragedia della Grande guerra, ai vinti anziché ai vincitori. E con tale espressione non mi riferisco ai nemici austriaci vinti, ai quali pure va un’umana solidarietà, ma ai vinti che hanno pagato un duro prezzo alla vittoria del Paese vincitore. Vinti italiani. Come gli oltre 600.000 morti tra i militari, i loro cari che non li videro tornare, gli oltre 900.000 feriti e mutilati. La psichiatra Maria Del Rio descrisse nel 1916 il diario clinico straziante di una vedova di guerra: «Nell’ottobre 1915 le fu comunicata la morte del marito, avvenuta in guerra (…). Fu da allora che sorse in lei il tragico desiderio di “finirla presto insieme al suo bimbo, perché il dolore era troppo forte, da non potersi assolutamente sopportare” (…). Fu in una terribile crisi d’angoscia, con completo obnubilamento della coscienza, che essa, il 1 gennaio 1916, afferrò, non ricorda dove, un coltello, e finì furiosamente il suo bambino per poi dirigere verso di sé l’arma omicida ferendosi a più riprese alla regione mammaria destra ed epigastrica. Quindi cadde in uno stato stuporoso, da cui si riebbe solo il 1 febbraio». Anche quest’uomo, ma anche questa donna e il loro bambino, sono tra i vinti della guerra, la loro tragedia fatta di amore, morte, dolore, follia e disperazione potrebbe esserne l’emblema. Vorrei ricordare la sterminata tragedia di migliaia di uomini lungo chilometri di trincea con questa piccola tragedia privata: perché mi pare racchiudere tutte le altre. Perché raccoglie in sé le tragedie di ogni guerra, dal pianto di Ecuba sul corpo di Polidoro ai bambini uccisi dalle bombe dell’ultimo telegiornale. E anche a quelli che muoiono nel canale di Sicilia o nell’Egeo fuggendo dalla guerra, che sono essi pure vinti di guerra. Oggi così vorrei proporre di ricordare i vinti dalla guerra, come i circa mille soldati fucilati per “diserzione e codardia di fronte al nemico” sul fronte italiano, cui va aggiunto il numero imprecisabile di quelli passati direttamente per le armi da ufficiali e carabinieri mentre si rifiutavano all’assalto o cercavano di sottrarsi al fuoco con la fuga, e i circa duecento che caddero vittime di una pratica terrorista, assurda, arcaica come la decimazione. Uomini in buona parte morti di paura, compatrioti spietatamente uccisi perché avevano una umanissima e comprensibile paura. Martiri della paura, così dovrebbe avere il coraggio di celebrarli un Paese che da quasi settant’anni ripudia la guerra… (ma da qualche anno lo fa in modo assai meno convinto e non fa mancare il proprio più o meno diretto contributo a ogni nuovo incendio che si accende per il mondo). «Alle volte sono tali i disagi ed i pericoli, tante le ansie. le trepidazioni, le scosse, che voi vi sentite come lacerare l'anima, e tutto l'organismo si tende e vibra come negli spasimi di una angosciosa agonia: il riposo è continua tensione degli orecchi, degli occhi, di tutti i sensi, di tutti i pori, verso il luogo dove, nella nebbia, nelle tenebre, nel mistero, si nasconde l'agguato; il sonno breve è un'alternativa incessante di incubi e di risvegli improvvisi: sempre, a tutte le ore, nel cervello un ronzio insistente, una musica disgregante dì cannonate, di schioppettate, di sibili, di lamenti, di urli, di rantoli, poi grida di gioia per la vittoria agognata. Ma non basta. Il nutrimento. che si dà al soldato, in genere, è buono, sufficiente ed anche ricco, ma il rancio non sempre può arrivare alle prime linee; l'acqua in molte località è scarsa, quando non manca; la necessità di non spogliarsi degli abiti per settimane; l'obbligo di rimanere al proprio posto, in trincea, anche quando queste diventano delle bolge infernali per il fuoco nemico, o si trasformano in canali di fango a causa delle incessanti piogge; la impossibilità di allontanarsi per soddisfare persino gli organici bisogni della vita; la quasi completa immobilità in piedi, curvi o coricati, spesso senza poter nemmeno fumare per giorni e notti che non finiscono mai, e soprattutto la tensione nervosa che tiene i combattenti in linea sempre con l'animo esaltato perché ogni voce, ogni rumore, ogni imprudenza, la più innocua apparentemente, può essere causa di morte per sé e per i compagni; il rombo del cannone e lo scoppio dei proiettili che nel mezzo della notte scuotono possentemente gli stanchi assopiti spiriti, le non infrequenti scariche di fucileria che fanno trasalire; l'esser spesso obbligati a restar svegli la .notte dopo un giorno di fatiche, di emozioni, di ansie; e per gli ufficiali il senso delle responsabilità che loro incombono, preparano, dopo un tempo più o meno breve, una favorevole piattaforma sulla quale prima o poi s'impianta la forma morbosa, che può essere una psicosi, una nevrosi, una psiconevrosi». Così la vita al fronte secondo Vincenzo Bianchi, consulente psichiatra della II Armata di stanza a Udine durante la Grande guerra. La mente di molti soldati ne fu sconvolta; per altri a vincere il loro equilibrio fu lo shock dell’esplosione subitanea di rumori assordanti, lampi accecanti, corpi dilaniati di commilitoni. Furono 40.000 durante la guerra i militari che furono vinti nella mente e fecero ricorso alle cure degli psichiatri, e ricordiamo qui quelli di essi che furono reinviati nonostante questo al fronte dopo un tempo breve di osservazione o una illusoria e più lacerante convalescenza a casa, ritornarono alla fatica della trincea e talvolta vi persero la vita; e quelli che inviati per approfondimento diagnostico e clinico in manicomio vi rimasero intrappolati per anni o per sempre dopo che quella tragica esperienza li aveva definitivamente turbati. Vorrei ricordare, glielo dobbiamo, tra i morti della guerra anche Gaetano Perusini, lo psichiatra che nei laboratori tedeschi aveva concorso a descrivere il morbo di Alzheimer e si arruolò volontario nella guerra patriottica; morì mentre cercava di evacuare i feriti da un’infermeria in prima linea finita sotto bombardamento per errore; e con lui vorrei cogliere l’occasione per ricordare anche i colleghi di Médecins sens frontières uccisi solo un mese fa nelle stesse circostanze durante il bombardamento dell’ospedale di Kunduz e i feriti che sotto le bombe l’uno e gli altri assistevano e morirono con loro. E, con tutti costoro, vorrei ricordare allora i vinti di ognuna delle guerre di questi giorni, quelli che ne hanno oggi la vita e la mente sconvolta in Libia, Palestina, Siria, Kurdistan, Iraq, Yemen, Afghanistan, Ucraina orientale e negli altri luoghi dove continua a infuriare il turbine di sangue che cent’anni fa sconvolgeva l’Europa e non ha ancora dato tregua. Tutti vinti di guerra. E quanto alla vittoria, mi dispiace, in questo 4 novembre mi pare che non ci possa esser posto per la sua celebrazione.
Suggerimenti bibliografici principali:
Quinto Antonelli, Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte, Roma, Donzelli, 2014.
Bruna Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Roma, Bulzoni, 2001.
Antonio Gibelli, L'officina della guerra: la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.
Andrea Scartabellati (a cura di), Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande guerra, Torino, Valerio, 2008.
4 novembre 1918 – 4 novembre
4 novembre 1918 – 4 novembre 2018. Tre anni fa salutavo il 4 novembre ricordando l’entrata in guerra, nel “radioso” maggio di cent’anni prima, e le conseguenza che quei tre anni nefasti ebbero per la mente degli italiani, dei 40.000 la cui mente non resse l’esistenza nella situazione “estrema” della trincea, ma non solo loro: anche di chi provò lutto e dolore per una persona cara morta, ferita, mutilata. Nel farlo, facevo riferimento alle guerre di oggi, guerre che in nessun caso, a distanza di tre anni possiamo dire concluse e che anzi in questi tre anni, dalla Siria allo Yemen, hanno semmai conosciuto nuovi orrori. Mi piace riproporre oggi questo testo, a sottolineare che domani, il 4 novembre 2018, non c’è nessuna vittoria della quale festeggiare il centenario. Solo la conclusione temporanea di un incubo, destinato di lì a poco a ripresentarsi diverso ma ugualmente feroce, che lasciava aperte su tutti i fronti ferite nel corpo e nell’anima, ferite difficili da rimarginare. Un incubo nel quale intere popolazioni vivono, oggi, ancora immerse. Per chi sarà interessato, ritorneremo a ragionare di questi temi con la conferenza”La follia della guerra. La psichiatria italiana e il primo conflitto mondiale” il prossimo sabato 10 novembre alle ore 16 presso la Biblioteca internazionale “Città di Rapallo”, a margine della mostra “I segni della guerra. Rapallo nel primo conflitto mondiale” allestita dal 13 ottobre al 26 gennaio.