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A proposito de “Il mito dell’amore fatale” di Enrichetta Buchli

11 Feb 13

A cura di FRANCESCO BOLLORINO

 

L'invito alla lettura e' in questo numero rivolto al libro di Enrichetta Buchli, filosofa ed analista junghiana membro del C.I.P.A., dal titolo "Il mito dell'amore fatale" (Baldini e Castoldi, 2006).

Che cosa si intende per Amore Fatale? Ciascuno di noi puo' averne fatta diretta esperienza, o averne sentito il racconto da altri, o essersene appassionato attraverso il cinema o la letteratura, ma ad ogni modo parliamo di qualcosa, qando parliamo della fatalita' dell'amore, che e' a noi tutti in varia misura noto: si tratta di quel tipo di amore che si nutre piu' dell'immaginario che del reale, verso il quale ci si puo' sentire fatalmente attratti come da una calamita, affascinante anche per la sua contiguita', per la sua vicinanza con i territori della Morte, ma percio' pericoloso e distruttivo.

Se e' pur vero che forse in ogni innamoramento risiede un briciolo di ‘fatalita' (e piu' avanti vedremo perche', in base a quali meccanismi), la persona, piu' spesso donna, che cada completamente nella spirale dell'Amore Fatale, rischia di venirne risucchiata a spese della ricerca di un partner possibile e realistico, a spese talvolta della sua stessa vita ed integrita'.

Percio' e' una psicoanalista, come l'Autrice, ad occuparsene, sebbene declinando il discorso in termini non rigorosamente scientifici, ma intrecciandolo continuamente, lungo tutto il testo, con la poetica propria di altri linguaggi: la mitologia, la letteratura, il cinema, appaiono cosi' come differenti piani di lettura, come i differenti ‘registri' che si sono occupati di questo tema, lo hanno anzi celebrato, e possono aiutarci a comprenderne meglio l'intima natura.

Resta centrale il discorso clinico: persone sofferenti si rivolgono all'analista (piu' spesso donne, ma e' riportato anche il caso di un uomo) perche' imprigionate in aspettative irrealizzate ed irrealizzabili (la cosiddetta fuga nel futuro, descritta nella prima parte del libro), o perche' — se donne — impossibilitate a vivere e a pensarsi senza un uomo accanto, che le completi di cio' che a loro manca (il culto del fallogia'a suo tempo indagato dalla Kaplan, nella seconda parte del libro). (L.Kaplan, Perversioni femminili,1991)

Quale che sia l'origine, si tratta di una ‘malattia'. Quando ci innamoriamo, o pensiamo di innamorarci, di qualcuno che costantemente frustra le nostre aspettative e non vi corrsponde, con cui siamo portati ad una sorta di speranza coatta per cui ‘le cose prima o poi cambieranno', o quando ci sentiamo penosamente monchi, incompleti alla mancanza dell'Altro come se ci mancasse una parte di noi, e non un'altra persona, in tutti i mille rivoli di questo ampio spettro di sofferenza amorosa, possiamo parlare di Amore Fatale.

Fatale perche' vicino all'amore-morte, alla distruttivita' di Eros, e non alla sua propulsivita' vitale, poiche' l'investimento affettivo su un oggetto (una persona in questo caso, ma puo' trattarsi anche di un ideale, di un'ideologia) che si rende tale solo per la sua assenza, rappresenta il totale disconoscimento della nostra soggettivita' e della nostra umanita', E', in altri termine, dis-umanizzante.

La letteratura, la mitologia e il cinema, piu' modernamente, hanno da sempre frequentato i territori dell'Amore Fatale, lo hanno spesso esaltato per la sua potente qualita' evocativa nello spettatore o nel lettore, e dunque opportunamente, a mio avviso, Enrichetta Buchli ripercorre questi territori e li intreccia con le tranches psicoterapiche dei pazienti. Ritroviamo cosi' Emma Bovary, Adele H., Psiche e Orfeo, Tristano e Isotta….ma l'elendo potrebbe continuare con Anna Karenina, Romeo e Giulietta, fino alle moderne eroine cinematografiche pronte a morire per amore, come la protagonista de Le onde del destino di Lars Von Thiers, e molte altre. L'arte ci permette, ancora una volta, di vedere rappresentati i nostri fantasmi, ci consente di vederli fuori di noi, cosi' da poterli affrontare.

Secondo un punto di vista piu' strettamente psicoanalitico, l'innamoramento, dicevamo, contiene sempre un germe di fatalita', almeno all'inizio. Ci innamoriamo poiche' incosciamente proiettiamo sull'oggetto qualcosa di nostro, il nostro Ideale dell'Io (secondo Freud, ripreso da J.Chasseguet-Smirgel, citata dall'Autrice (J.Chasseguet-Smirgel "L'Ideale dell'Io", Cortina 1975), e che ha profondamente studiato il problema dell'idealizzazione, proiettiamo cio' che vorremo essere, spogliandoci cosi' di qualcosa e contemporaneamente sopravvalutando l'oggetto (l'amore ‘cieco'), che ci appare in questa fase unico al mondo ed insostituibile. L'oggetto su cui ricade la nostra inconscia proiezione puo' non avere alcuna caratteristica particolare, non viene scelto per le sue reali qualita' (anzi, come scrive lo psicoanalista francese Christian David ("La dimensione amorosa", Liguori 1972) "…ci innamoriamo sempre di un uomo o di una donna senza qualita'"), ma siamo noi, sotto la nostra spinta interna, ad attribuirvi le qualita' che desideriamo egli abbia. In questa misura, pertanto, ogni innamoramento contiene all'inizio qualche germe di fatalita', poiche ci innamoriamo di qualcuno che non e' scelto per la sua oggettivita' reale, ma perche' in qualche modo ricalca l'oggetto edipico (per "somiglianza o per contrasto" come ricorda Freud, "Tre saggi sulla teoria sessuale"), o parti dell'oggetto edipico e dell'oggetto primario, in una continua ricerca e ri-trovamento di un nuovo oggetto che in qualche misura ci riporti ad uno antico. L'innamoramento sano, tuttavia, quando e' vitale e positivo, non e' mai del tutto una mera ripetizione, poiche' sulle traccie si' dell'oggetto infantile noi costruiamo, insieme al nostro partner, qualcosa di nuovo e ricreato.

L'Amore Fatale invece si impantana nella sola proiezione e idealizzazione, potremmo dire. Se e' vero che, in qualche misura, siamo sempre noi ad inventare il nostro oggetto d'amore, nell'Amore Fatale questo processo e' esclusivo, patologico e senza sbocco, bloccando l'Io in una posizione perennemente desiderante, quasi tossicofilica.

Comprendiamo chiaramente che, se la relazione amorosa ricalca le vicessitudini con gli oggetti primari, cioe' con i genitori e soprattutto con la madre, tanto piu' questi primi legami sono stati insoddisfacenti e frustranti, tanto piu' le relazioni adulte saranno a rischio di ripetere lo stesso scenario, o persino peggiorarlo.

Sono le bambine e i bambini deprivati, quelli che cadono in questa rete. Come scrive Bollas in riferimento alle vittime del male, citato dalla nostra Autrice, ma estendendo il discorso anche alle relazioni fortemente patogene "….la vittima della violenza e' coinvolta in un rapporto oggettuale inconscio, che ricostituisce il ricordo delle prime relazioni oggettuali, e nel quale tenta di accettare i lati, per cosi dire terapeutici, delle attenzioni seduttive dell'uomo, al fine di vivere, almeno momentaneamente, in un mondo rassicurante..". (C.Bollas "Cracking up", 1995).

Possiamo chiederci se e' vero, e perche', le donne sono piu' soggette a cadere in questa patologia, come l'esperienza clinica sembra confermare.

Sollecitazioni culturali che, almeno nel mondo occidentale, condizionano la donna a porre maggior attenzione all'immaginario amoroso, certamente esistono. Una ricerca sociologica condotta da Francesco Alberoni nei primi anni ‘90 ("Il volo nuziale",1992) su adolescenti maschi e femmine circa l'ideale amoroso che essi avevano in mente e su quali erano i loro idoli, evidenzio' come la stragrande maggioranza delle adolescenti femmine si ‘innamorava' dei divi della musica o dello schermo, disdegnava i compagni e i coetanei a favore di fantasie in cui era a contatto col proprio idolo. Gli adolescenti maschi, al contrario, fantasticavano le loro amiche, le ragazzine di loro diretta conoscenza, ed erano relativamenti indifferenti alla diva del momento, ritenuta troppo lontana da raggiungere. Per quanto concerneva la ragazza, Alberoni scrisse pertanto che "Il suo ragazzo e' un mortale, il piu' bello dei mortali. Ma lei oscuramente sente di essere stata predisposta per un dio".

Sul piano intrapsichico, io credo che effettivamente la donna possa essere piu' esposta all'illusione amorosa e alla frustrazione che ne consegue a causa della sua piu complessa vicenda infantile, che la vede costretta a staccarsi dal primo oggetto d'amore, la madre, per rivolgersi al padre, mentre il bambino non vive questo passaggio e questa necessita', dovendo ‘solo' staccarsi dalla madre per sostuirla con i nuovi oggetti d'amore. Janine Chasseguet-Smirgel ha descritto molto bene questa costellazione emotiva femminile "..mi pare che la bambina non abbia mia la certezza di essere un oggetto soddisfacente per l'oggetto, dal momento che il padre e' un oggetto che si e' fatto attendere e che essa ha vissuto precedentemente una relazione frustrante con la madre, non solo a causa dei conflitii precoci inevitalbili in entrambi i sessi, ma anche a causa di quella restrizione intrisnseca che e' costituita per la bambina dal fatto di nascere da una persona del suo stesso sesso, di non poter essere il suo ‘vero' oggetto sessuale(….) e inoltre di non essere investitia dalla madre nello stesso modo del bambino " (corsivo mio).

Non tanto, quindi, l'eventuale masochismo femminile, su cui anche la Buchli si interroga ad un certo punto del libro, ma piuttosto una sorta di carenza di base, cosi come nelle parole della Chesseguet-Smirgel, che rende fin da principio la bambina piu' bisognosa di un oggetto che le dimostri amore.

Il mito dell'Amore Fatale, come peraltro tutti i miti, non tramonta col tempo ma si declina in forme differenti. Il libro si conclude con un capitolo sull'amore liquido, come definito dal filosofo Baumann in Modernita' liquida (2004). Dall'antichita' greca alla modernita', anzi alla post-modernita', il filo rosso che lo percorre e lo sottende resta la frutrazione dei bisogni d'amore autentici, l'idealizzazione e la crudelta' verso l'Altro, non visto quindi nella sua interezza e specificita' soggettiva. Anche la sessualita' promiscua e apparentemente liberata della ‘societa' liquida', quell'amore tascabile sempre pronto, che sembra cosi' a portata di mano, e' ben lungi dall'essere una sessualita' veramente condivisa e adulta. "La mia ipotesi — scrive Buchli — e' che il mito dell'Amore Fatale proprio in quanto tenta di cancellare la soggettivita' incarnata nello spazio e nel tempo, dunque limitata, con la sessualita' abbia ben poco a che vedere". Anche l'altro mito della modernita', sempre seguendo l'Autrice, quello secondo cui bisogna sempre vivere l'esperienza ad ogni costo, il mito dell'esperenzialita' pura, si scardina in effetti nel discorso analitico, che ne rivela invece tutta la forza della ripetizione e del dramma interno.

L'antitodo che il libro propone alle insidie dell'Amore Fatale, e' l'Amore Civile.

"Negoziare sempre tutto, dunque dialogare, dichiarare, contrattare". Benche' l'aggettivo ‘civile' sia raramente associato alla parola ‘amore', questo binomio ci appare appropriato: civile e' quel tipo di legame, che puo' anche avere avuto in se' oscillazioni fatali in qualche momento, in cui pero' la soggettivita' dell'Altro e' sempre distinta e riconsociuta, ‘prosaico' per sua natura, forse, ma mai antilibidico e mortale, mai onnipotente. E' l'Onnipotenza, in ultima analisi, il carburante dell'Amore Fatale, cosi come di tutte le nostre pulsioni distruttive, questo immaginarsi inconsciamente avulsi dalle coordinate dello spazio, del genere e del tempo, come nella clinica delle perversioni. Non c'e' niente forse, di cui gli esseri umani abbiano timore come dell'Impotenza: l'Onnipotenza e' dunque li', pronta, come balsamo di questa pena.

L'Amore Civile non e' un balsamo di tal fatta, occorre saperlo. L'aggettivo ‘civile', appunto cosi' prosaico, e' usato nell'accezione di Freud e Jung, come fonte anche, esso stesso, di uno specifico disagio, ildisagio della civilta'. Per essere ‘civili', occorre rinunciare a qualcosa: Freud vedeva la rinuncia come rinuncia alle pulsioni o al loro diretto soddisfacimento, oggi noi possiamo aggiungere alla sublimazione, la rinuncia all'onnipotenza, fallace ed illusoria difesa dalla nostra impotenza.

Non solo nella relazione amorosa, ma in tutto l'agire umano. Penso che il libro di Enrichetta Buchli sia un invito a riflettere, attraverso l'excursus in quella ‘tirannia privata' che e' la relazione d'amore fatale, sulle possibili altre tirannie in cui l'illusione del Bene Assoluto puo' farci precipitare.

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