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A PROPOSITO DEL FILM “FAVOLACCE”

7 Mag 22

A cura di sarantis.thanopulos

Il film “Favolacce”, diretto dai fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, Orso d’Argento a Berlino per la sceneggiatura, è un misto di grande intensità e di un’inquietante spersonalizzazione dei vissuti. Il magistrale amalgama dei due opposti, che mescolati restano in tensione, né fa una straordinaria rappresentazione del suicidio della speranza nei nostri giorni e insieme un rigetto spietato di ogni forma di consolazione. È ambientato nella periferia romana, nella periferia impersonale di ogni grande città, nella periferia del vivere in cui una parte della nostra esistenza alloggia desolata, senza neppure che siamo in grado di accorgersene. Coglie nella loro realtà cruda, senza pelle, le aree marginali della società dello spettacolo, delle “luci della città”, e così facendo scolorisce il contrasto tra periferia e centro, rivelando il vuoto che alloggia in quest’ultimo.    

Favolacce” non è un film sulla periferia. È un film sulla Città, sulla Polis, che ci dice che la vita cittadina, la vita del “mondo civile”, è diventata periferica a se stessa, intaccata nel suo cuore dalla morte. La canzone “Bisogna morire” che chiude il film non è l’eco che lo propaga oltre la sua visione nella memoria dei nostri sensi. È piuttosto il nodo finale che ferma la sua cucitura e rende la sua trama, nonostante tutto, sensata e significativa. È il suo nodo retrosignificante 

La canzone è attraente, perturbante, fascinante. La morte canta in falsetto e come sirena ci chiama a sé. Regina androgina cancellando la differenza, tra noi e gli altri, tra noi e il mondo, impone e rende piacevole, pacificante il nostro annullamento.  

L’attrazione per la morte, la difficoltà di resistere al suo fatale richiamo, ha una una sua origine nel desiderio di lasciarsi andare, perdersi in uno spazio indifferenziato. Scivolare in un sonno senza sogni, tornare nel “grembo materno”. Nell’al di qua dell’“ombelico del sogno” di cui parla Freud, nel prima di ogni rappresentazione. 

In realtà i fratelli D’Innocenzo spingono il cinema nell’al di là della significazione, fuori dallo spazio tragico, fuori dai confini (all’interno dei quali si resta umani) dello spazio onirico. Nei luoghi dell’insensatezza dell’essere in cui hanno portato l’opera letteraria (più esplicitamente e in modo perturbante) Kafka e (più sottilmente e in modo tragicomico) Hasek. Descrivono un movimento di desertificazione dell’umano, la morte psichica che afferra le persone da dentro, svuotandoli dei sentimenti e trasformandoli in automi, caricature parlanti impersonali di se stessi. La scena in cui un grande Elio Germano, nel ruolo del padre, scopre che i due suoi bambini (un maschio e una femmina) sono morti suicidi, nella cucina della casa, avvelenandosi, è di una glacialità devastante: un’emorragia interna incontenibile che svuota le emozioni, silente e invisibile. Il dolore diventa angoscia muta, contrazione che soffoca. 

La società del distanziamento progressivo (che nel digitale ha trovato un mezzo di diffusione efficace, non la sua ragion d’essere), la società in cui la solitudine è diventata desolazione, ci porta oltre il palcoscenico tragico della vita, nella sparizione del nostro scambio/conflitto con l’altro, nella dissoluzione di quest’altro che dissolve anche noi. Giunto lo spettatore sull’orlo del meta-tragico, i fratelli D’Innocenzo rimettono in scena la tragedia. Il suicidio dei bambini e il suicidio di una coppia di giovani, mai diventati adulti, che hanno prima ucciso la loro bambina di pochi mesi, annegandola, riportano lo sguardo sulla morte che seduce, diversa dalla morte per disidratazione dell’anima. L’attrazione della morte nasce nel punto in cui il sentire di esistere si trova senza appigli a rischio di crollo. Si può decidere di morire per vivere. Nello spettatore lo sconvolgimento delle emozioni, la catarsi, riapre i giochi e dà ascolto alle ragioni della vita.        

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