Sono passati 20 anni da quei giorni di luglio, quando Genova è stata al centro del mondo. Volevamo un mondo diverso, migliore da vivere. Già cinque anni fa, aggiornando per Pol. it uno scritto dell’autunno del 2001 con ciò che nel frattempo era accaduto – che in questi giorni credo valga la pena di rileggere – in occasione del quindicennio delle manifestazioni contro il G8 (Corpo e città: spazialità e corporeità dei dispositivi disciplinari in occasione del G8 genovese, vai al link), traevo un bilancio tristemente negativo. Adesso, non potrebbe certo essere differente. Dal 2001 i problemi che l’economia capitalista pone al pianeta, l'evidente incapacità del capitalismo estrattivista di governare con saggezza la generazione presente e di preservare il mondo per quelle future non fanno che peggiorare: la terra è sempre più a rischio, e tra i terrestri sono sempre più spaventose le disuguaglianze. I vecchi teatri di guerra rimangono aperti, altri nuovi se ne sono aggiunti; in troppi muoiono ancora nel tentativo di spostarsi sulla terra e sul mare, cercando un luogo dove vivere meglio. E da più di un anno ai guai di un mondo già così malmesso si è aggiunta questa pandemia, della quale per il momento non si intravede l’uscita. Volevamo un mondo diverso, migliore. Non siamo stati ascoltati, continuiamo a non esserlo. Anzi, lo Stato italiano, in quell’occasione, ci ha scatenato addosso una ferocia che nessuno sospettava fosse nascosta nelle sue pieghe; negli anni successivi l’ha coperta con una vergognosa omertà, che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non ha esitato a condannare. Ha coperto e promosso i responsabili di quei comportamenti, rendendosene complice; e allora non c’è da stupirsi se lo stesso miscuglio di violenza e di omertà è emerso in questi ultimi anni a proposito dell’assassinio di Stefano Cucchi mentre era in sua custodia, se sta emergendo in questi giorni anche rispetto ai fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Così, vent’anni dopo siamo di nuovo qui, a dire che un mondo diverso è possibile, anzi ora è proprio necessario; che in Italia oltre settantacinque anni dopo la vittoria sul fascismo, la democrazia rimane un obiettivo per il quale impegnarsi.
Ma, per fortuna, questo ventennale dal bilancio così sconsolante non è l’unico evento genovese che in questi giorni mi ha fatto voltare indietro. C’è stato anche il ritorno, il 12 e 13 luglio scorsi, di Gradiva al chiostro di San Matteo, e sedici anni dopo la prima rappresentazione Daniela Ardini mi ha chiesto di nuovo qualche parola d’introduzione allo spettacolo. Il potere politico, economico, militare si è dimostrato incapace di rendere migliore il mondo. Chissà che, nel loro piccolo, l’arte e la cura così bene amalgamate in questo copione attento sia a Jensen che a Freud, non possano vedere, con modestia, di fare un po’ meglio.
Ritorno a Gradiva. Sedici anni dopo,
Mi dà una grande emozione e nostalgia riprendere alcune note scritte con due colleghe pugliesi, Elisabetta Lavorato e Wanda Santamato, ormai sedici anni fa (Peloso e coll., 2005), quando la compagnia teatrale Lunaria diretta da Daniela Ardini aveva messo per la prima volta in scena Gradiva. In questi giorni l’ha riproposta nella stessa cornice, quella del chiostro di San Matteo a Genova, con la regia di Daniela Ardini e le scenografie di Giorgio Panni e Giacomo Rigalza, interpreti questa volta Sara Mennella e Francesco Patanè.
La fantasia pompeiana Gradiva è stata scritta nel 1903 da Wilhem Jensen (1837-1911) ed è stata oggetto di un saggio di Freud del 1907, Delirio e sogno nella Gradiva di Wilhem Jensen.
Il protagonista del racconto è Norbert Hanold, un giovane appassionato di archeologia – l’archeologia rappresenta per lui soprattutto un’occasione per evadere dal presente – senz’altro piuttosto strampalato, un po’ matto potremmo dire.
Colpito dalla rappresentazione in un bassorilievo di una ragazza immortalata nell’atto di camminare, si sente costretto ad andare a cercarla tra le rovine di Pompei. Nello scenario degli scavi Norbert sembra però incontrare davvero Gradiva, che Jansen mantiene per qualche tempo in bilico tra allucinazione, spettro e realtà; e fatica a riconoscere gradatamente in lei Zoe Bertgang, una compagna di giochi dell’adolescenza.
L’incarnazione di Gradiva in una donna reale, la casuale presenza cioè di Zoe a Pompei, dove Norbert sta cercando il bassorilievo che inconsapevolmente gliela ricorda, è – come sottolinea Freud – la chiave di volta dell’intera costruzione narrativa, ed è anche l’elemento accidentale, la fortuita concomitanza che getta Norbert nella confusione tra realtà, sogno e delirio.
Le emozioni disordinate di Norbert, che lo avevano fatto uscire in pigiama per rincorrere le orme di Gradiva suscitando lo scherno dei passanti, cominciano a dare luogo a Pompei, in un crescendo di confusione e sofferenza, a quel caricarsi di significati e di intenzioni di ogni oggetto (una farfalla in volo, una fibbia che crede erroneamente antica) che costituisce il nucleo centrale del delirio, e questo passaggio è descritto da Jensen con grandi sensibilità e precisione.
Del saggio di Freud, a noi non interessa tanto la diagnosi di “erotomania feticista” che formula per Norbert – alla quale anni dopo Cesare Musatti (1961) avrebbe proposto di sostituire quella più convincente di “psicosi isterica” – né ci interessa più di tanto il tentativo di trovare l’origine dei problemi di Norbert nella sua vita sessuale, o quella del delirio come del sogno in un ingorgo pulsionale.
Ci interessa invece in primo luogo la polemica che, a proposito del racconto di Jansen, Freud apre con gli psichiatri a lui contemporanei: «Lo psichiatra severo» – scrive Freud – «bollerebbe il nostro eroe in quanto persona capace di sviluppare sulla base di una tale strana passione un delirio, come degenerato, e andrebbe a cercare le tare ereditarie che possono averlo portato a tale sorte. Il nostro autore, però, non lo segue su questa via, e con buona ragione. Egli vuole avvicinarci all’eroe e rendere più facile l’immedesimazione; con la diagnosi di degenerazione, giustificata scientificamente o no che essa sia, il giovane archeologo sarebbe subito respinto lontano da noi, poiché noi lettori siamo evidentemente gli uomini normali e cioè il metro per l’intera umanità».
E ci interessa, in secondo luogo, il fatto che Freud identifichi nel preconscio – lo strumento cioè più importante del lavoro artistico – il mezzo più potente per avvivinarsi a conoscere il mondo interno dell’altro e i meccanismi del funzionamento mentale, quando conclude questo passaggio con le parole: «la scienza non regge di fronte all’opera del poeta». Aveva, del resto, scritto poco prima a proposito dell’accesso più facile alla conoscenza del lavoro onirico da parte del poeta rispetto al medico: «I poeti sono alleati preziosi, e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione, giacché essi sono soliti sapere una quantità di cose fra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta. Particolannente nelle conoscenze dello spirito essi sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché attingono a fonti che non sono ancora state aperte alla scienza».
Con il suo atteggiamento di attenzione e apertura umana verso l’altro – Freud ci dice dunque – Zoe, e per suo tramite Jensen stesso, può avvicinarsi meglio a comprendere il delirio di Norbert di quanto avrebbe potuto fare la psichiatria con il suo approccio “scientifico”.
Ma c’è ancora di più, ed è la terza ragione d’interesse che troviamo in questo racconto. La saggia Zoe incarna infatti anche, per Freud – con la sua figura di volta in volta evanescente, intelligente, scanzonata e permalosa, ma comunque decisa ad aiutare l’amico solitario e distratto e desiderosa della sua attenzione e del suo affetto – un modo altro possibile della cura delle nevrosi, ma anche del delirio. Scrive infatti:«Essa stessa entra nel delirio di lui, di cui si fa esporre ogni particolare senza mai contraddirlo (…). Se la nostra giovane, sotto le cui sembianze la Gradiva è risorta, accetta così pienamente il delirio di Hanold, è probabile che essa lo faccia per liberarlo da quello. (…). I discorsi della ragazza (…), sono intenzionalmente a doppio senso. L’un senso è adatto al delirio di Hanold, per poter penetrare nella sua coscienza ed essere capito da lui; l’altro si solleva invece oltre il delirio, e ci dà di regola la traduzione del delirio stesso nell’inconscia verità che esso sta a rappresentare».
Così, Norbert può essere gradatamente accompagnato per mano fuori dal delirio dall’amore intelligente, delicato e attento di Zoe, ed è messo in condizioni di fornire lui stesso una sorta di interpretazione psicoanalitica che è la chiave definitiva dell’enigma del suo innamoramento per la donna di pietra: «No, io pensavo al tuo nome… Perché Bertgang equivale a Gradiva, e significa “colei che risplende nel camminare”».
Il ridestarsi del desiderio di Zoe (cioè della vita) e il fatto di aver abboccato all’esca per lui rappresentata dalla somiglianza-assonanza della vecchia amica con la donna di pietra del bassorilievo, riescono a forzare la condizione di ritiro schizoide che era stata fino ad allora per lui sì la protezione (e il pensiero corre qui a Erwin Straus e al suo modello della psicosi, nonché a Sartre, riferimenti costanti entrambi negli scritti basagliani degli anni ’60), ma anche la gabbia che lo portava a empatizzare col canarino che era in essa prigioniero sul davanzale di fronte (che si scoprirà poi essere proprio quello della casa di Zoe).
E il piede della Gradiva nel bassorilievo sembra rappresentare allora il tallone d’Achille di Norbert che, attraverso la persistenza di un’attività sessuale feticistica rappresentata dalla relazione con un oggetto parziale (il piede) o da quella con un surrogato (il bassorilievo)[i], fa sì però che la protezione fornita dal suo ritiro non sia del tutto impenetrabile. Zoe stessa, del resto, ci offre conferma di queste ipotesi quando osserva piccata all’amico ritrovato come l’essere ignorata non avesse rappresentato in quegli anni una sua posizione esclusiva, ma fosse una condizione da lei condivisa con ogni altro mortale che Norbert, nel suo ritiro in se stesso, ignorava come ignorava lei.
Così, le mosche che Norbert non sopporta, altro non sono che fastidiosi elementi con i quali il mondo lo richiama, prepotentemente, alla relazione, e la visione di coppie felici lo disturba perché evocatrice della possibilità e del desiderio di mettersi in gioco certo nell’amore, ma anche, più in generale, nella relazione.
Il curioso, saggio e amoroso accompagnamento per mano, da parte di Zoe, fuori dal delirio, consiste quindi nell’aver saputo entrare nella porta d’ingresso che l’amore le ha rivelato e nell’andare, attraverso un uso sapiente e bonario dell’arma del doppio senso, garbatamente incontro all’amico. Un delicato e affettuoso accompagnamento da parte sua nel quale non possiamo non cogliere in nuce aspetti dei quali la psicoanalisi avrebbe preso pieba coscienza solo anni dopo la morte di Freud, come la funzione di assistenza come descritta da Paul Federn (1943) nel trattamento degli psicotici, ma anche persino la coraggiosa e generosa teorizzazione di Zapparoli sulla possibile funzione protettiva del delirio e sulla sua natura quindi, talvolta, di “diritto” del paziente al quale avvicinarsi con rispetto.
Norbert si libera finalmente dal delirio, ma anche dalla necessità di rifugiarsi nella doppia gabbia rappresentata dal compromesso schizoide con la malattia e dalla sessualità in senso duplice feticistica, che ne rappresenta uno degli aspetti.
La vicenda di Gradiva segna quindi la storia della psichiatria almeno per tre importanti ragioni, tra loro intrecciate. La prima è rappresentata dal fatto che nella vicenda di Gradiva Freud può leggere una metafora della nascita, dalle rovine archeologiche della vecchia psichiatria, di un nuovo metodo di cura: portare alla coscienza ciò che era represso, far coincidere la spiegazione del rimosso con la guarigione e risvegliare così i sentimenti. La seconda nell’individuare nel preconscio uno strumento fondamentale per avvicinarsi alla comprensione, ed eventualmente all’interpretazione, della mente dell’altro, non solo quando è mascherata dai meccanismi del sogno o intrappolata in quelli della nevrosi, ma anche quando è resa drammaticamente distante dalla nostra mente dall’attività del delirare. La terza, nel fatto che Freud, forse affascinato dal sapiente lavoro di cura che Zoe mette istintivamente in atto, sostiene in questo saggio la possibilità di qualcosa che a lui sarà invece, come è ben noto, sempre inibito nella sua attività clinica, cioè che il delirio possa essere avvicinato (e risolto) con gli strumenti della comprensione e dell’interpretazione.
Gradiva quindi rivela, segna ma anticipa anche il passo della nuova scienza, la psicoanalisi, che solo qualche decennio dopo la morte di Freud oserà sfidare il delirio per affrontarlo direttamente interpretandolo o, alternativamente, si accontenterà di accompagnarlo con la cura e di lavorarlo ai fianchi. Si potrebbe parlare perciò del saggio di Freud su Gradiva come di una sorta di “Freud oltre Freud”, e in questo forse sta la sua maggiore importanza.
Ma nell’uscita di Gradiva dalla pietra e farsi Zoe[ii] non è azzardato cogliere – noi che viviamo in quello che è stato definito dopo la chiusura dei manicomi il “Paese di Basaglia” – anche la possibile metafora di un passaggio politico-istituzionale che della rivoluzione epistemologica costituita dalla possibilità di curare anche la psicosi innanzitutto con lo strumento della relazione umana avrebbe rappresentato, molti anni dopo, la logica conseguenza. La necessità cioè che, a questo punto, come Gradiva ha dovuto essere Zoe per poter aiutare l’amico a guarire dal male mentale, anche la psichiatria dovesse uscire dalla pietra del manicomio e dalla lettura pietrificatrice e raggelante che la nosografia fa dei fenomeni, per incarnarsi nella vita reale e aprirsi, nella persona dei propri operatori ma anche di tutti i membri della comunità, alla possibilità e al rischio del dialogo e dello scambio affettivo con l’altro sofferente.
Ed è una lettura, questa, nella quale ci sentiamo confortati dall’utilizzo che dell’allegoria di Gradiva fa nella scena finale del film L’ora di religione (Il sorriso di mia madre) (2002) Marco Bellocchio[iii], quando la giovane realizza il crollo del Vittoriano, emblema del neoclassico – e quindi di quel riproporsi dell’istituzione nella sua angosciante, immutabile e inautentica stabilità che rappresentò uno dei temi architettonici più insistenti dell’utopia manicomiale, a partire da Charenton – e fa esplodere, sulle sue rovine, i colori vivi della vegetazione e della vita.
Un altro artista dunque, Bellocchio, che, come Jensen per primo e Daniela Ardini di nuovo in queste due affascinanti serate genovesi, raccoglie e ci mette a disposizione la straordinaria ricchezza di suggestioni e metafore che, a oltre un secolo da quando è stata scritta, questa tenera fantasia pompeiana può offrire ancora.
Bibliografia di riferimento:
Cadiet L. (2002): Actualité de la psychose hystérique, L’information psychiatrique, 78, 1014-1024.
De Clérambault G.G. (1913 e segg.): Le psicosi passionali. L'erotomania, Pisa, ETS, 1993.
De Stefani P., Peloso P.F. (1994): La pietra viva. Metafore della psicosi e della riabilitazione nei colloqui con due giovani schizofrenici, Rivista Sperimentale di Freniatria, 118, 114-122.
Federn P. (1943): L’analisi delle psicosi, in: P. Federn: Psicosi e psicologia dell’Io, Torino, Boringhieri, 1976, 123-170.
Freud S. (1907): Delirio e sogno nella Gradiva di Wilhem Jensen, OSF, 5, 255-336.
Musatti C.L. (1961): Commento, in: Freud S.: Gradiva, Torino, Boringhieri, 221-283.
Peloso P.F., Lavorato E., Santamato W. (2005): Avanzando per mano: alcune note su Gradiva e sulla sua lettura freudiana, Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane, 13, 3, 2005, 89-101.
Rossi Monti M. (1996): Che fine ha fatto la percezione delirante?, in: AA. VV.: Breviario di psicopatologia, Milano, Feltrinelli, 108-118.
Nell’immagine: la locandina dello spettacolo
Nel video: Francesco Guccini, Piazza Alimonda
Ma, per fortuna, questo ventennale dal bilancio così sconsolante non è l’unico evento genovese che in questi giorni mi ha fatto voltare indietro. C’è stato anche il ritorno, il 12 e 13 luglio scorsi, di Gradiva al chiostro di San Matteo, e sedici anni dopo la prima rappresentazione Daniela Ardini mi ha chiesto di nuovo qualche parola d’introduzione allo spettacolo. Il potere politico, economico, militare si è dimostrato incapace di rendere migliore il mondo. Chissà che, nel loro piccolo, l’arte e la cura così bene amalgamate in questo copione attento sia a Jensen che a Freud, non possano vedere, con modestia, di fare un po’ meglio.
Ritorno a Gradiva. Sedici anni dopo,
Mi dà una grande emozione e nostalgia riprendere alcune note scritte con due colleghe pugliesi, Elisabetta Lavorato e Wanda Santamato, ormai sedici anni fa (Peloso e coll., 2005), quando la compagnia teatrale Lunaria diretta da Daniela Ardini aveva messo per la prima volta in scena Gradiva. In questi giorni l’ha riproposta nella stessa cornice, quella del chiostro di San Matteo a Genova, con la regia di Daniela Ardini e le scenografie di Giorgio Panni e Giacomo Rigalza, interpreti questa volta Sara Mennella e Francesco Patanè.
La fantasia pompeiana Gradiva è stata scritta nel 1903 da Wilhem Jensen (1837-1911) ed è stata oggetto di un saggio di Freud del 1907, Delirio e sogno nella Gradiva di Wilhem Jensen.
Il protagonista del racconto è Norbert Hanold, un giovane appassionato di archeologia – l’archeologia rappresenta per lui soprattutto un’occasione per evadere dal presente – senz’altro piuttosto strampalato, un po’ matto potremmo dire.
Colpito dalla rappresentazione in un bassorilievo di una ragazza immortalata nell’atto di camminare, si sente costretto ad andare a cercarla tra le rovine di Pompei. Nello scenario degli scavi Norbert sembra però incontrare davvero Gradiva, che Jansen mantiene per qualche tempo in bilico tra allucinazione, spettro e realtà; e fatica a riconoscere gradatamente in lei Zoe Bertgang, una compagna di giochi dell’adolescenza.
L’incarnazione di Gradiva in una donna reale, la casuale presenza cioè di Zoe a Pompei, dove Norbert sta cercando il bassorilievo che inconsapevolmente gliela ricorda, è – come sottolinea Freud – la chiave di volta dell’intera costruzione narrativa, ed è anche l’elemento accidentale, la fortuita concomitanza che getta Norbert nella confusione tra realtà, sogno e delirio.
Le emozioni disordinate di Norbert, che lo avevano fatto uscire in pigiama per rincorrere le orme di Gradiva suscitando lo scherno dei passanti, cominciano a dare luogo a Pompei, in un crescendo di confusione e sofferenza, a quel caricarsi di significati e di intenzioni di ogni oggetto (una farfalla in volo, una fibbia che crede erroneamente antica) che costituisce il nucleo centrale del delirio, e questo passaggio è descritto da Jensen con grandi sensibilità e precisione.
Del saggio di Freud, a noi non interessa tanto la diagnosi di “erotomania feticista” che formula per Norbert – alla quale anni dopo Cesare Musatti (1961) avrebbe proposto di sostituire quella più convincente di “psicosi isterica” – né ci interessa più di tanto il tentativo di trovare l’origine dei problemi di Norbert nella sua vita sessuale, o quella del delirio come del sogno in un ingorgo pulsionale.
Ci interessa invece in primo luogo la polemica che, a proposito del racconto di Jansen, Freud apre con gli psichiatri a lui contemporanei: «Lo psichiatra severo» – scrive Freud – «bollerebbe il nostro eroe in quanto persona capace di sviluppare sulla base di una tale strana passione un delirio, come degenerato, e andrebbe a cercare le tare ereditarie che possono averlo portato a tale sorte. Il nostro autore, però, non lo segue su questa via, e con buona ragione. Egli vuole avvicinarci all’eroe e rendere più facile l’immedesimazione; con la diagnosi di degenerazione, giustificata scientificamente o no che essa sia, il giovane archeologo sarebbe subito respinto lontano da noi, poiché noi lettori siamo evidentemente gli uomini normali e cioè il metro per l’intera umanità».
E ci interessa, in secondo luogo, il fatto che Freud identifichi nel preconscio – lo strumento cioè più importante del lavoro artistico – il mezzo più potente per avvivinarsi a conoscere il mondo interno dell’altro e i meccanismi del funzionamento mentale, quando conclude questo passaggio con le parole: «la scienza non regge di fronte all’opera del poeta». Aveva, del resto, scritto poco prima a proposito dell’accesso più facile alla conoscenza del lavoro onirico da parte del poeta rispetto al medico: «I poeti sono alleati preziosi, e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione, giacché essi sono soliti sapere una quantità di cose fra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta. Particolannente nelle conoscenze dello spirito essi sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché attingono a fonti che non sono ancora state aperte alla scienza».
Con il suo atteggiamento di attenzione e apertura umana verso l’altro – Freud ci dice dunque – Zoe, e per suo tramite Jensen stesso, può avvicinarsi meglio a comprendere il delirio di Norbert di quanto avrebbe potuto fare la psichiatria con il suo approccio “scientifico”.
Ma c’è ancora di più, ed è la terza ragione d’interesse che troviamo in questo racconto. La saggia Zoe incarna infatti anche, per Freud – con la sua figura di volta in volta evanescente, intelligente, scanzonata e permalosa, ma comunque decisa ad aiutare l’amico solitario e distratto e desiderosa della sua attenzione e del suo affetto – un modo altro possibile della cura delle nevrosi, ma anche del delirio. Scrive infatti:«Essa stessa entra nel delirio di lui, di cui si fa esporre ogni particolare senza mai contraddirlo (…). Se la nostra giovane, sotto le cui sembianze la Gradiva è risorta, accetta così pienamente il delirio di Hanold, è probabile che essa lo faccia per liberarlo da quello. (…). I discorsi della ragazza (…), sono intenzionalmente a doppio senso. L’un senso è adatto al delirio di Hanold, per poter penetrare nella sua coscienza ed essere capito da lui; l’altro si solleva invece oltre il delirio, e ci dà di regola la traduzione del delirio stesso nell’inconscia verità che esso sta a rappresentare».
Così, Norbert può essere gradatamente accompagnato per mano fuori dal delirio dall’amore intelligente, delicato e attento di Zoe, ed è messo in condizioni di fornire lui stesso una sorta di interpretazione psicoanalitica che è la chiave definitiva dell’enigma del suo innamoramento per la donna di pietra: «No, io pensavo al tuo nome… Perché Bertgang equivale a Gradiva, e significa “colei che risplende nel camminare”».
Il ridestarsi del desiderio di Zoe (cioè della vita) e il fatto di aver abboccato all’esca per lui rappresentata dalla somiglianza-assonanza della vecchia amica con la donna di pietra del bassorilievo, riescono a forzare la condizione di ritiro schizoide che era stata fino ad allora per lui sì la protezione (e il pensiero corre qui a Erwin Straus e al suo modello della psicosi, nonché a Sartre, riferimenti costanti entrambi negli scritti basagliani degli anni ’60), ma anche la gabbia che lo portava a empatizzare col canarino che era in essa prigioniero sul davanzale di fronte (che si scoprirà poi essere proprio quello della casa di Zoe).
E il piede della Gradiva nel bassorilievo sembra rappresentare allora il tallone d’Achille di Norbert che, attraverso la persistenza di un’attività sessuale feticistica rappresentata dalla relazione con un oggetto parziale (il piede) o da quella con un surrogato (il bassorilievo)[i], fa sì però che la protezione fornita dal suo ritiro non sia del tutto impenetrabile. Zoe stessa, del resto, ci offre conferma di queste ipotesi quando osserva piccata all’amico ritrovato come l’essere ignorata non avesse rappresentato in quegli anni una sua posizione esclusiva, ma fosse una condizione da lei condivisa con ogni altro mortale che Norbert, nel suo ritiro in se stesso, ignorava come ignorava lei.
Così, le mosche che Norbert non sopporta, altro non sono che fastidiosi elementi con i quali il mondo lo richiama, prepotentemente, alla relazione, e la visione di coppie felici lo disturba perché evocatrice della possibilità e del desiderio di mettersi in gioco certo nell’amore, ma anche, più in generale, nella relazione.
Il curioso, saggio e amoroso accompagnamento per mano, da parte di Zoe, fuori dal delirio, consiste quindi nell’aver saputo entrare nella porta d’ingresso che l’amore le ha rivelato e nell’andare, attraverso un uso sapiente e bonario dell’arma del doppio senso, garbatamente incontro all’amico. Un delicato e affettuoso accompagnamento da parte sua nel quale non possiamo non cogliere in nuce aspetti dei quali la psicoanalisi avrebbe preso pieba coscienza solo anni dopo la morte di Freud, come la funzione di assistenza come descritta da Paul Federn (1943) nel trattamento degli psicotici, ma anche persino la coraggiosa e generosa teorizzazione di Zapparoli sulla possibile funzione protettiva del delirio e sulla sua natura quindi, talvolta, di “diritto” del paziente al quale avvicinarsi con rispetto.
Norbert si libera finalmente dal delirio, ma anche dalla necessità di rifugiarsi nella doppia gabbia rappresentata dal compromesso schizoide con la malattia e dalla sessualità in senso duplice feticistica, che ne rappresenta uno degli aspetti.
La vicenda di Gradiva segna quindi la storia della psichiatria almeno per tre importanti ragioni, tra loro intrecciate. La prima è rappresentata dal fatto che nella vicenda di Gradiva Freud può leggere una metafora della nascita, dalle rovine archeologiche della vecchia psichiatria, di un nuovo metodo di cura: portare alla coscienza ciò che era represso, far coincidere la spiegazione del rimosso con la guarigione e risvegliare così i sentimenti. La seconda nell’individuare nel preconscio uno strumento fondamentale per avvicinarsi alla comprensione, ed eventualmente all’interpretazione, della mente dell’altro, non solo quando è mascherata dai meccanismi del sogno o intrappolata in quelli della nevrosi, ma anche quando è resa drammaticamente distante dalla nostra mente dall’attività del delirare. La terza, nel fatto che Freud, forse affascinato dal sapiente lavoro di cura che Zoe mette istintivamente in atto, sostiene in questo saggio la possibilità di qualcosa che a lui sarà invece, come è ben noto, sempre inibito nella sua attività clinica, cioè che il delirio possa essere avvicinato (e risolto) con gli strumenti della comprensione e dell’interpretazione.
Gradiva quindi rivela, segna ma anticipa anche il passo della nuova scienza, la psicoanalisi, che solo qualche decennio dopo la morte di Freud oserà sfidare il delirio per affrontarlo direttamente interpretandolo o, alternativamente, si accontenterà di accompagnarlo con la cura e di lavorarlo ai fianchi. Si potrebbe parlare perciò del saggio di Freud su Gradiva come di una sorta di “Freud oltre Freud”, e in questo forse sta la sua maggiore importanza.
Ma nell’uscita di Gradiva dalla pietra e farsi Zoe[ii] non è azzardato cogliere – noi che viviamo in quello che è stato definito dopo la chiusura dei manicomi il “Paese di Basaglia” – anche la possibile metafora di un passaggio politico-istituzionale che della rivoluzione epistemologica costituita dalla possibilità di curare anche la psicosi innanzitutto con lo strumento della relazione umana avrebbe rappresentato, molti anni dopo, la logica conseguenza. La necessità cioè che, a questo punto, come Gradiva ha dovuto essere Zoe per poter aiutare l’amico a guarire dal male mentale, anche la psichiatria dovesse uscire dalla pietra del manicomio e dalla lettura pietrificatrice e raggelante che la nosografia fa dei fenomeni, per incarnarsi nella vita reale e aprirsi, nella persona dei propri operatori ma anche di tutti i membri della comunità, alla possibilità e al rischio del dialogo e dello scambio affettivo con l’altro sofferente.
Ed è una lettura, questa, nella quale ci sentiamo confortati dall’utilizzo che dell’allegoria di Gradiva fa nella scena finale del film L’ora di religione (Il sorriso di mia madre) (2002) Marco Bellocchio[iii], quando la giovane realizza il crollo del Vittoriano, emblema del neoclassico – e quindi di quel riproporsi dell’istituzione nella sua angosciante, immutabile e inautentica stabilità che rappresentò uno dei temi architettonici più insistenti dell’utopia manicomiale, a partire da Charenton – e fa esplodere, sulle sue rovine, i colori vivi della vegetazione e della vita.
Un altro artista dunque, Bellocchio, che, come Jensen per primo e Daniela Ardini di nuovo in queste due affascinanti serate genovesi, raccoglie e ci mette a disposizione la straordinaria ricchezza di suggestioni e metafore che, a oltre un secolo da quando è stata scritta, questa tenera fantasia pompeiana può offrire ancora.
Bibliografia di riferimento:
Cadiet L. (2002): Actualité de la psychose hystérique, L’information psychiatrique, 78, 1014-1024.
De Clérambault G.G. (1913 e segg.): Le psicosi passionali. L'erotomania, Pisa, ETS, 1993.
De Stefani P., Peloso P.F. (1994): La pietra viva. Metafore della psicosi e della riabilitazione nei colloqui con due giovani schizofrenici, Rivista Sperimentale di Freniatria, 118, 114-122.
Federn P. (1943): L’analisi delle psicosi, in: P. Federn: Psicosi e psicologia dell’Io, Torino, Boringhieri, 1976, 123-170.
Freud S. (1907): Delirio e sogno nella Gradiva di Wilhem Jensen, OSF, 5, 255-336.
Musatti C.L. (1961): Commento, in: Freud S.: Gradiva, Torino, Boringhieri, 221-283.
Peloso P.F., Lavorato E., Santamato W. (2005): Avanzando per mano: alcune note su Gradiva e sulla sua lettura freudiana, Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane, 13, 3, 2005, 89-101.
Rossi Monti M. (1996): Che fine ha fatto la percezione delirante?, in: AA. VV.: Breviario di psicopatologia, Milano, Feltrinelli, 108-118.
Nell’immagine: la locandina dello spettacolo
Nel video: Francesco Guccini, Piazza Alimonda
[i] La psichiatria classica parlerebbe in questo caso di “litofilia” e Musatti (1961) attribuisce a Norbert anche tendenze necrofiliche e scopofiliche, che non sono evidenziate da Freud.
[ii] Due pazienti con diagnosi di schizofrenia avevano usato questa stessa metafora per alludere al proprio desiderio di guarigione (De Stefani e Peloso, 1994). Potremmo allora osservare che l’incontro terapeutico implica forse un comune sforzo di contrastare processi di pietrificazione, quello rappresentato dalla psicosi per l’uno, quello rappresentato dall’istituzione per l’altro.
[iii] Vai al link per un commento al film di Riccardo Dalle Luche e vai al link l’intervista al regista sul film, realizzata da Albertina Seta, entrambi su questa rivista. Il tema di Gradiva era già stato visitato al cinema da Giorgio Albertazzi, con protagonista Laura Antonelli (1970) e lo è stato poi anche da Alain Robbe-Grillet (2006).
VORREI CHE GLI PSICHIATRI SI
VORREI CHE GLI PSICHIATRI SI BATTESSERO PER IL RICONOSCIMENTO DELLA TORTURA AI SENSI DEL CODICE DI GINEVRA, E SEGNATAMENTE DELLA TORTURA PSICOLOGICA
Sono molto d’accordo con te,
Sono molto d’accordo con te, credo che la tortura rappresenti una delle vergogne più grandi per una nazione che si dimostra tiepida e reticente nel combatterla, come purtroppo è stato il caso della nostra sia in occasione del G8 e delle vicende giudiziarie che lo hanno seguito, sia in occasione dell’approvazione della recente legge.