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Agosto 2014 III – Ereditare, rappresentare, preparare

27 Ago 14

A cura di Luca Ribolini

ROBIN WILLIAMS E IL TRISTE DESTINO DEI SENSIBILI

di Tiberio Brunetti, thefrontpage.it, 16 agosto 2014
Forse non è stato il più bravo di sempre, Robin Williams. Di sicuro è stato il più empatico. Con quel sorriso puro e malinconico che è entrato nel cuore di ogni bambino e di ogni persona che ha visto e amato le sue interpretazioni. “Tutti gli uomini eccezionali”, diceva Aristotele, “hanno un temperamento malinconico. Alcuni a tal punto da essere perfino affetti dagli stati patologici che ne derivano”. “L’arte costituisce un regno intermedio tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga, un dominio in cui sono rimaste per così dire vive le aspirazioni all’onnipotenza dell’umanità primitiva – sosteneva Freud, che dedicò ampi studi alla psicoanalisi dell’arte -.
L’artista è, originariamente, un uomo che si distoglie dalla realtà giacché non può adattarsi a quella rinuncia dell’appagamento delle pulsioni che la realtà inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita di fantasia. Egli trova però la via per ritornare dal mondo della fantasia nella realtà in quanto, grazie a particolari attitudini, traduce le sue fantasie in una nuova specie di cose vere, che vengono accettate dagli uomini come preziose raffigurazioni della realtà. Così, in certo modo, egli diventa veramente l’eroe, il re, il creatore, il prediletto, ciò che egli bramava di divenire e questo senza percorrere la faticosa e tortuosa via della trasformazione effettiva del mondo esterno”.
Il problema si pone nei periodi di pausa, o, peggio, quando il successo viene meno ed il momento creativo perde la sua funzione di sublimazione. È lì che subentra un senso di incomprensione percepito come totale e definitivo. E allora, in una generale debolezza, dove ogni ostacolo (nel caso di Williams ne sono stati tirati in ballo diversi, ma non è l’ostacolo in sè a dover essere analizzato, quanto piuttosto l’atteggiamento nell’affrontarlo o, peggio, nel non affrontarlo) diventa apparentemente insormontabile e dove non c’è un Dio in cui credere a salvare, ci si aggrappa al vizio, all’alcool, alla droga, a quello che si può, insomma. E talvolta – non sempre, beninteso – il tutto può finire in tragedia. “Capita nella vita, e a me accade più spesso sullo schermo, di essere bravi insegnanti, ma di non saper scegliere per se stessi la strada giusta”, disse Robin Williams qualche anno fa al Corriere della Sera.
A chi è cresciuto anche con i suoi film, tornano alla mente le sue magiche performance, pedagogiche e sublimi. Su tutte quelle del professor Keating ne “L’attimo fuggente”, che insegna ai suoi ragazzi l’importanza dei punti di vista e di osare. Ma come dimenticare il professor Lambeau in “Will Hunting”, “Mrs. Doubtfire”, Chris in “Al di là dei sogni”, il mitico dj Conauer in “Good Morning Vietnam”? E lo splendido Peter Pan in “Hook, Capitan Uncino”? Lo ricordate anche voi? Peter da avvocato di successo, a poco a poco, ritorna a pensare come un adolescente, con gli occhi di un bambino. “Sai quel luogo che sta fra il sogno e la veglia, dove ti ricordi ancora che stavi sognando? Quello è il luogo dove io ti amerò sempre”, dice Trilli a Peter Pan. Già, il luogo che sta fra il sogno e la veglia, dove la ragione si perde e si confonde. Assume contorni sfumati e indefiniti. Quelli che avrà percepito Williams negli ultimi istanti della sua vita. Il triste destino dei sensibili, che si lasciano vincere dalla depressione: amare talmente da compenetrarsi nei problemi dell’altro da sè, ma non lasciare che gli altri possano entrare nei propri a dare una mano. “Genio, sei libero”, ha twittato l’Academy, salutando l’artista (che aveva dato la sua voce proprio al Genio nel cartone Disney “Aladin”). Speriamo davvero lo sia. E che davvero, da lassù, quel mondo che lo ha tanto osannato, e dal quale poi si è sentito oppresso, possa sembrargli diverso. –
http://www.thefrontpage.it/2014/08/16/robin-williams-e-il-triste-destino-dei-sensibili/#sthash.QNVIPcOB.dpuf

SCUOLA. VIOLA, A VOLTE I GENITORI NON SONO COME LI VORREMMO

di Luigi Ballerini, ilsussidiario.net, 16 agosto 2014
A volte i genitori non sono come li vorremmo. Ben scelta la quarta di copertina di Questa sono io, in libreria per Il Castoro e opera a quattro mani delle scrittrici Lodovica Cima e Annalisa Strada. La stima che da tempo mi lega alle autrici e la copertina del libro di un arancione così vivace ed energico (come loro, d’altronde) mi hanno subito invogliato a immergermi nella lettura di questo libro destinato ai ragazzi dai dodici anni in su.
Viola, tredici anni, vive con la nonna. Mamma e papà sono lontani. Troppo lontani. E non solo fisicamente, anche col pensiero. Padre attore e madre costumista teatrale si limitano a qualche telefonata priva di vero contenuto e a sporadiche visite, col tempo sempre meno gradite proprio perché sentite come artificiali. Fortuna che c’è Arianna, amica cara che i genitori invece li ha, e con loro trascorre una vita che sembra perfetta.
Il contesto è quello della provincia, così apparentemente lontano dalla grande metropoli, con i suoi personaggi famigliari e positivi e la facilità di rapporti e conoscenze, eppure dalle situazioni così comuni per le ragazze di ogni dove: l'impegno della scuola, il diventar donne, i primi innamoramenti (il bel Michele!) e qualche compagna odiosa. Di Viola intuiamo presto un segreto, di cui lei stessa è all'oscuro: non porta il nome del padre, i conti non tornano. L'assenza di Vincenzo (il papà ha sempre v oluto farsi chiamare col nome proprio) suona sospetta. Ma anche Arianna ha il suo segreto, che invece conosce benissimo e che non ha mai rivelato a nessuno. Sarebbe un peccato, per amor di recensione, fare spoiling del libro, rovinare la scoperta di questi segreti, ma si sappia che è intorno a loro che ruota la storia di questo libro.

Per continuare:

L’EREDITÀ COME RICONQUISTA, MA NEL PRIVATO E NEL PUBBLICO NON VEDO EREDI GIUSTI

di Giuseppe Liuccio, positanonews.it, 18 agosto 2014
Mi sono portato in vacanza nella Costa d’Amalfi e ho sottomano un bel libro,  molto problematico già nel titolo, “Il complesso di Telemaco. Ne è autore Massimo Recalcati, psicanalista tra i più noti in Italia. Affronta, tra gli altri, il tema della eredità, partendo dalla psicanalisi per  trasmigrare nella  sociologia e, conseguentemente, nella politica. Gliene offre lo spunto una riflessione di Goethe citata da Freud: “Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero”. Di qui il paradigma, che acquista valore emblematico di eticità: l’eredità è una riconquista. Non un atto passivo di ricevere un dono, bensì un atto soggettivo di ripresa. L’erede è fuori dubbio il figlio che si appropria per legge del lascito del padre, ma anche una comunità che riscopre ed esalta l’eredità della storia ossificata in atti e comportamenti di intere generazioni e sacralizzata dalla tradizione. I miti e la letteratura ci hanno indicato tre modelli di figli/eredi che sono diventati punto di riferimento nel corso dei secoli: Edipo, Narciso, Telemaco.
Il mito di Edipo è noto. Ha ispirato la letteratura del teatro tragico sia antico che moderno, di tutti i continenti, nonché le grandi correnti di psicologia moderna da Freud a Lacan, ma non solo. In sintesi il mito narra che Edipo uccise il padre Laio per un contenzioso sul diritto di precedenza ad un quadrivio, fu acclamato re di Tebe e sposò la madre Giocasta, che ne era regina, e da lei ebbe dei figli. Il tutto inconsapevolmente. Quando l’indovino Tiresia gli svelò la verità, lui folle di dolore si cavò gli occhi e girovagò incapace di rassegnarsi alla vergogna del parricidio e dell’incesto che lo rese sposo della madre e padre dei suoi fratelli. E fu tragedia di fallimenti per la famiglia e per il regno. Il mito nella sua tragicità ha dato luogo ad un lungo dibattito sul “complesso edipico” con risvolti di ordine psicologico, sociologico e politico su cui si sono scritti fiumi di parole nel corso dei secoli. Ma di sicuro, come erede, Edipo non è un modello positivo perché è furia di possedere tutto, di avere tutto, di sapere tutto, di essere tutto. Furia incestuosa, spinta a negare l’esistenza del limite, a rifiutare l’impossibile che la legge della parola inscrive nel cuore dell’umanità.
L’altra figura di figlio/erede è Narciso, vanesio ed infecondo, tutto preso dal protagonismo dell’apparire, si compiace della sua immagine che gli rimanda lo specchio dell’acqua, se ne invaghisce e si pavoneggia, tutto preso, compreso e soddisfatto dell’egotismo esaltato e megafonato fino al parossismo. Non ha memoria del passato e non si proietta nel futuro. Prende la vita come gioco, e vive nella vacuità nella totale mancanza di impegno. È il simbolo della evaporazione del padre, morbosamente malato dell’orgoglio della propria identità. È una personalità infantile, che non diventerà mai adulta. È bozzolo che non sarà mai farfalla e non conoscerà mai  la feconda fatica ed  il salutare dolore di esistere.
Terza figura simbolo di figlio/erede è Telemaco, a cui il genio immortale di Omero dedica i primi libri dell’Odissea. Di fronte allo spettacolo indecoroso dei Proci, che attentano all’onorabilità della madre Penelope, dilapidano le sostanze della casa del padre Ulisse, se ne contendono la sposa, le ricchezze ed il regno, aspetta ed invoca il ritorno del padre. Minerva, voce della coscienza (etica), della ragione (Legge) e del cuore (passione ed impegno civile) lo consola, lo scuote e lo motiva nel profondo sulle rive del mare. Coraggioso e fiducioso parte per Pilo e Sparta alla ricerca del padre fino a quando non lo ritrova e con lui combatte per difendere casa e regno. E’ l’erede giustol’erede della riconquista e della riappropriazione. Tutti abbiamo aspettato un padre sulle rive del mare, che nella metafora è porta di casa o limite di accesso alla proprietà di famiglia (campagna, bottega artigiana, attività commerciale, studio professionale, ecc. ecc.)  o semplicemente un libro per coglierne messaggi e valori per riceverne il testimone e farlo proprio nella consapevolezza acquisita dell’impegno nella collettività.
Fin qui le notazioni per sommi capi della eredità di figli nella famiglia. Ma c’è una eredità più impegnativa, quella di cittadini in una collettività, piccola o grande che sia, impegna tutti a qualsiasi livello ed, ovviamente, con diverse gradazioni di responsabilità.
Ed anche nella collettività esiste l’erede Edipo che costruisce o ritiene di costruire le sue fortune politiche, nel senso di impegno nel governo della polis, eliminando il padre, cancellandone la memoria, con la presunzione che la storia cominci da lui. C’è il Narciso vanesio che si realizza pavoneggiandosi nella vacuità dell’apparire, completamente ubriaco di egotismo e totalmente improduttivo per la collettività. È un flatus vocis, che rotola e si frantuma nelle schegge dell’eco in fondo ai burroni, è luce riflessa nello specchio che rifrange luce, ma non riscalda, il fumo senza profumo, pago di sé ma improduttivo per gli altri.
E c’è, infine, il cittadino Telemaco, che cerca il padre per averne messaggi ed insegnamenti frutto di esperienza. Riconosce nel padre il maestro e guida, e da lui vuole conoscere il passato della collettività che eredita, per impegnarsi ad esaltarla nel presente e consegnarla arricchita di nuovi valori (ricchezze materiali ed immateriali). Potrebbe, e secondo me dovrebbe, essere il vademecum di quanti operano nel settore del Turismo e della Cultura da sintetizzare in quattro verbi: conoscere, amare, difendere, propagare. Anzi conoscere per amare, amare per difendere, difendere per propagare. Ma in giro si agitano tanti Edipo con voglie mal represse di parricidi fisici e ideali, moltissimi, troppi Narciso che si pavoneggiano senza pudore agitandosi nella vacuità dell’apparire. Ma non vedo molti Telemaco nella consapevolezza della ricchezza da esaltare nel presente e consegnarla al futuro come eredità di valori.
Che tristezza!!!
http://www.positanonews.it/articolo/142506/l-eredita-come-riconquista-ma-nel-privato-e-nel-pubblico-non-vedo-eredi-giusti

LO SCOTOMA WEISSIANO

di Pietro Barbetta, doppiozero.com 18 agosto 2014
Il libro di Rita Corsa, nota psicoanalista freudiana, su Edoardo Weiss era necessario. Il silenzio e la trascuratezza con cui psicoanalisti, psicoterapeuti e storici d’ogni tipo avevano glissato lo studio intorno al fondatore della psicoanalisi italiana è imperdonabile. Di Weiss, peraltro, si conoscono le linee di fuga prodotte, solo per fare un esempio, con Umberto Saba, basti leggere il suo Canzoniere per ritrovare motivi e derivazioni della relazione analitica tra i due, durata un paio d’anni. Fu Elisabeth Roudinesco a rimproverare agli psicoanalisti italiani di avere trascurato Weiss, quasi più ammirato nel panorama francese. Basti pensare al contributo della psicoanalista parigina Cinzia Crosali Corvi, che nell’importante trattazione sulla depressione (La depression, affect central dans la modernité), ricostruisce in modo accurato l’esperienza psicoanalitica di Saba con Weiss.
Il libro di Corsa ripercorre, passo passo, l’esperienza di Weiss dal punto di vista storico – la Trieste a cavallo tra impero austroungarico e irredentismo – biografico – gli anni di formazione di Weiss – e clinico – le contraddizioni e i paradossi di uno psichiatra psicoanalista in un orizzonte scettico e ostile verso la psicoanalisi. La peculiarità del lavoro consiste nella ricerca storica di archivio che ha permesso all’autrice, in collaborazione con altre ricercatrici, di accedere a materiali inediti e mai visitati prima. L’identità psicoanalitica di Weiss, all’epoca di Trieste, consiste nell’apertura di uno studio privato, nella sua relazione con Federn, come analizzato, e con Freud, come supervisore. Identità vissuta nelle ambivalenze tra l’attività privata e l’esperienza pubblica di psichiatra.
Questa contraddizione è invero una costante e un vero dilemma per ogni psichiatra pubblico che intraprenda una carriera di psicoterapeuta, una costante i cui connotati sono stati espressi in modo assai chiaro da una bella autobiografia dello psicoanalista junghiano Ferruccio Cabibbe, Matrimonio manicomiouna coraggiosa disamina della sua e dell’altrui esperienza psichiatrica durante la rivoluzione democratica degli anni Settanta. Cabibbe menziona, tra gli altri, Mario Tobino che espresse, sul Corriere della Sera, “una posizione che si può definire reazionaria, non tanto perché si opponeva alla chiusura dei manicomi, ma per la cecità verso le disastrose condizioni di vita dei ricoverati” (p.87). Nonostante ciò Tobino scrisse pagine memorabili dedicate alle donne ricoverate presso il manicomio di cui era direttore.
Rita Corsa descrive il medesimo dilemma in Weiss, lo chiama “scotoma weissiano”. In quegli anni di ostilità verso la nascente psicoanalisi, la scissione era ancor più marcata, o forse non più di quanto accada anche ai nostri giorni, dove la “terapia”, in psichiatria, è spesso considerata nei termini di farmacoterapia e terapia comportamentista. Tuttavia non è questo il punto, né la questione posta da Rita Corsa, piuttosto si tratta di accompagnare lo studio minuzioso della vita triestina di Weiss per comprendere la trama esistenziale antecedente al suo trasferimento, prima a Roma, poi, dopo l’introduzione delle leggi razziali del 1938, negli Stati Uniti, dove invece la scrittura di Weiss sarà feconda. Corsa, per esempio, si domanda come mai, pur essendo Weiss tra i primi ad accorgersi, durante la sua attività di clinico, della natura psicogena dei traumi da guerra, abbia lasciato ad altri il compito di scriverne, quando egli stesso avrebbe potuto produrre pagine importanti.
Traspare dal libro un certo autoritarismo del Padre della psicoanalisi in alcune lettere, la supervisione di Freud avviene in gran parte per via epistolare, emergono anche alcune reticenze, o strane dimenticanze di Weiss riguardo al suo abbandono del reparto psichiatrico – quando avvenne esattamente? – come a esprimere una differenza tra i propositi di dimissioni e la realtà di come avvenne la fine del rapporto lavorativo, oppure come a nascondere la differenza tra quel che dichiara e quel che accade, oppure ancora come in una sorta di oblio, che, più che un rimosso, potrebbe essere legato a una sorta di frustrazione subita e volontariamente repressa. Insomma, il libro mostra un Weiss pioniere della psicoanalisi italiana e grande clinico, ma anche persona controversa, in ballo tra psichiatria e psicoanalisi.
La Parte IV del libro s’intitola “Creatività in esilio. Due artisti nella Trieste psicoanalitica”. I due capitoli sono dedicati rispettivamente ad Arturo Nathan e a Vladimir Bartol, scrittore sloveno, poco frequentato dai letterati italiani, a sua volta studioso di psicoanalisi. Arturo Nathan fu in analisi con Weiss e, come nel caso di Saba per la poesia, cambiò notevolmente il suo modo di dipingere. Weiss ricorda il caso Nathan nel libro che pubblicherà negli Stati Uniti, Sigmund Freud as a Consultant, del 1970, anno della morte dello stesso Weiss, quasi cinquant’anni dopo la sua esperienza di analisi con Nathan e di supervisione presso Freud. Come ho osservato sopra, menzionando il libro di Cabibbe, l’esperienza di Weiss è stata comune a molti psicoanalisti che hanno lavorato in psichiatria senza essere riusciti a trovare modi per integrare le due esperienze. La psichiatria comunque si voglia considerarla, è terreno di durezze, contrapposizioni, battaglie politiche, rivoluzioni e restaurazioni. Un ambito che, in virtù del suffisso che abita il termine, appartiene solo alla medicina. La psicoanalisi e la psicoterapia sono ambiti di ascolto, interazione, scambi affettivi, sfumature linguistiche, qui letteratura, filosofia, antropologia culturale sono ambiti elettivi.
Eldorado Weiss, uomo mite e di grande cultura, fu psicoanalista per vocazione, passione, desiderio. Lo dimostrò lungo l’arco della vita, le sue origini ebraiche, condivise da un certo numero di psicoanalisti delle prime generazioni, certamente aiutarono a inventare un terreno dove la cura è conversazione, colloquio, scambio affettivo. Come psichiatra fu medico rigoroso e attento. Tuttavia, durante il periodo triestino, non riuscì mai a integrare le due professioni, che sembrano così simili, benché, in molti casi, siano addirittura incompatibili. Oggi però ciò non accade riguardo alla professione medica, al contrario, proprio quando la professione medica in psichiatria cede il passo al controllo autoritario, all’uso smodato dei trattamenti sanitari obbligatori, alle contenzioni. In altri termini quando il medico sente la nostalgia di un tempo in cui era costretto a essere agente di pubblica sicurezza, per questo questa regressione può accadere solo in psichiatria. Anche questo è psicoanalisi, anche questo è storia.
http://www.doppiozero.com/rubriche/336/201408/lo-scotoma-weissiano

FURTI IN CASA, COME SUPERARE IL TRAUMA. Il furto in appartamento viola quanto di più intimo e privato abbiamo: ma occorre fare attenzione a non accusarci perché “ci saremmo potuti comportare diversamente”

di Giovanni Masini, ilgiornale.it, 19 agosto 2014
Tornare a casa e trovare i ladri nel proprio appartamento. Sentirsi violati nella propria dimora e nella propria privacy: quello dei furti in appartamento è uno dei traumi maggiori che possa colpire il nostro equilibrio psicologico. Poiché l’estate è, purtroppo, uno dei periodi dell’anno in cui più siamo esposti a questo tipo di pericolo, ne abbiamo parlato con Silvia Lagorio, psicanalista a Milano, che ci ha illustrato le conseguenze di un evento così traumatico sulla nostra psiche.
Il primo elemento da tenere in considerazione è quello della violazione della nostra intimità, spiega Lagorio: “Il furto in appartamento è una grave violazione di tutto ciò che abbiamo di più personale: la violenza del gesto sta proprio nella sua intrusività. Viene violato quanto di più privato abbiamo: è traumatico quanto un intervento chirurgico, in cui viene violato il nostro corpo.” Subire un furto in casa può esporre inoltre a una sensazione di pericolo che rischia di protrarsi nel tempo: “Si tratta di un evento che alimenta la sensazione di sentirsi minacciati da tutto ciò che non controlliamo. Parliamo di qualcosa di molto aggressivo, che viene subìto e che non riusciamo a controllare.”
La conseguenza più pericolosa è però quella dell’autoaccusa. “Il rischio, oltre alla sensazione di essere stati intrusi, è quello di autoaccusarsi. Accusarsi perché ci saremmo potuti comportare diversamente: avremmo potuto mettere le grate alle finestre, inserire l’allarme, non allontanarci di casa…” “È un tipico effetto secondario dei traumi, che può essere vissuto in maniera estremamente autopersecutoria – chiarisce Lagorio – Bisogna però evitare assolutamente di auto accusarsi, accettando il fatto che ci sia una parte di imprevedibilità, anche rispetto a una sfera così privata come quella della nostra casa.”
D’altronde i sogni relativi ad effrazioni in casa, così come quelli della perdita della borsa per le donne, rappresentano “situazioni emblematiche di perdita del controllo e di violazione del proprio sè.” “La casa è l’equivalente simbolico del nostro spazio psichico: che qualcuno entri a nostra insaputa, metta le mani in spazi segreti, privati e talvolta anche segreti, usando quello spazio psichico in maniera incontrollata e potenzialmente devastante, rappresenta uno dei traumi più gravi”.
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/furti-casa-psicologa-rischio-quello-dellautoaccusa-1045380.html
 

LA BUONA SCUOLA? CREA NUOVI MONDI PER I RAGAZZI

di Redazione, caffeinamagazine.it, 21 agosto 2014
Sobborghi di Milano, anni Settanta. Gli anni del terrorismo e della droga, dei sogni di Oriente e di liberazione. Una mattina, in una classe di un istituto agrario, appare Giulia, una giovane professoressa di lettere in tailleur grigio. Parla di letteratura e di poesia con una passione sconosciuta, una passione che è allo stesso tempo desiderio di sapere e di trasmettere il sapere. Ed è proprio quell’ora, quella semplice ora di lezione, a “salvare” Massimo Recalcati, che in questo libro alterna ricordi del passato e stralci di presente, allargando la visuale fino a riflettere su cosa significa essere insegnanti oggi, nella società orizzontale, senza padri e senza maestri alle spalle. Prendendo le distanze dai professori che cercano di fare da supplenti ai genitori e agli psicologi, e dai genitori che dismettono l’abito per trasformarsi in figli dei propri figli, Recalcati ci insegna, che un bravo insegnante non è quello che, convinto di non poter sbagliare, somministra ai propri allievi saperi rimasticati e considera la scuola come un esamificio. Un bravo insegnante è quello che sa fare esistere nuovi mondi nella mente dei ragazzi, che è capace di trasmettere l’amore per il sapere, che non ha paura di inciampare o di cadere. Perché anche quella della caduta, e dell’imperfezione, può essere un’arte.
L’ora di lezione
Massimo Recalcati
Prezzo € 14,00
Editore Einaudi
Disponibile dal 2 settembre
 
http://www.caffeinamagazine.it/il-saggio/1374-la-buona-scuola-crea-nuovi-mondi-e-salva-i-ragaz
 

80 ANNI. ESPERIENZA E REALTÀ, COSÌ LA “LOGICA” DI POPPER HA CAMBIATO IL 900

di Egisto Mercati, ilsussidiario.net, 21 agosto 2014
Ho sempre nutrito una certa simpatia per Karl Raimund Popper (1902 – 1994), l’epistemologo austroinglese in auge negli anni 60-70 ed oggi (quasi) sconosciuto ai più. Nell’Austria degli anni Venti del secolo scorso, nel periodo immediatamente successivo alla Grande Guerra, insieme ad un sentimento di umiliazione risentita per una sconfitta subita non tanto in campo aperto, m a decisa dai Grandi vincitori, si andò affermando un atteggiamento culturale che si condensava in un mai sopito fervore filosofico, che aveva il suo epicentro nella città di Vienna e da lì si irradiava in tutto il mondo europeo di lingua tedesca.
Tra i vari fenomeni di natura culturale, certamente quello del Neopositivismo logico, raccolto soprattutto attorno al Circolo di Vienna, ebbe un’eco e un influsso enormi su vari orientamenti che si potrebbero, molto semplificando, condensare nel tentativo di una interpretazione esatta del mondo. Il Manifesto (anonimo) del Circolo di Vienna contiene la prefazione di H. Hahn e O. Neurath e ha un titolo che esprime un’ambizione culturale: la Costruzione scientifica del mondo. Per far ciò, il mondo è ridotto a semplici fatti, “protocolli di esperienza”, fatti “molecolari” tenuti insieme in una rigida visione che è una sorta di griglia stretta nelle maglie della logica formale come linguaggio, con i suoi simboli, con la sua sintassi. Vi era un presupposto, sempre più esplicitamente dichiarato, che vantava uno statuto di scientificità per le nuove m ode del secolo: l’austro-marxismo di Hilferding, la psicoanalisi di Freud, la psicologia individuale di Adler ambiscono ad un rigore che ha come modello quello delle scienze empiriche.
 
Per continuare:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2014/8/21/80-ANNI-Esperienza-e-realta-cosi-la-logica-di-Popper-ha-cambiato-il-900/2/518838/
 

AFFETTI DALLA SINDROME DEL FOLLOWER. IL SELFIE È DIVENTATO UN’OSSESSIONE. Ragazzine che posano nude, scalatori di grattacieli, stelle e stelline. Chiunque ha diritto ad avere un pubblico. Vite davanti all’obiettivo per convincersi di esistere davvero

di Rosellina Salemi, espresso.repubblica.it, 21 agosto 2014
Dire che di selfie si muore è un’esagerazione. Però a Collette Moreno, 26 anni, madre di un bimbo di 5, la foto con l’amica che era alla guida (stavano andando a festeggiare il suo addio al nubilato al lago di Ozarks, Missouri) è costata la vita. L’attimo fuggente è stato l’ultimo. Courtney Ann Sanford, 32 anni, del Nord Carolina, si è schiantata con l’auto dopo aver postato un non fondamentale messaggio con foto su Facebook: “La canzone Happy mi rende felice.” Si è distratta, ha invaso la carreggiata opposta, ha urtato un camion, è finita in un fosso e la macchina ha preso fuoco. È successo il giorno in cui Facebook annunciava la possibilità di scattare e inviare selfie con un unico tocco. Sempre più facile. Troppo: un’indagine Ford su 7000 giovani automobilisti europei (18-24 anni) dimostra che il 25% non resiste alla tentazione del selfie mentre guida, nonostante il rischio. La voce “autoscatti al volante” vede al primo posto la Romania (97%), seguita da Germania (55%), Regno Unito (43%), Belgio e Francia (41%). L’Italia è penultima (40%), fanalino di coda la Spagna (32%).
Un selfie distrae mediamente per 14 secondi. Controllare i social network ne impegna 20. Tanti: un’auto che viaggia a 100 chilometri l’ora può coprire lo spazio di cinque campi di calcio o sbandare e provocare un disastro. Dal sorriso al funerale. Jim Graham, direttore del programma “Ford Driving Skill for Life” ha preso la questione molto a cuore annunciando una vera e propria crociata contro l’uso degli smartphone mentre si guida, ma il numero degli incidenti cresce: 3328 morti nel 2012. Una piccola guerra. E un indizio. Il sintomo di un’abitudine e forse di una dipendenza che preoccupa sociologi come Jean-Pierre Le Goff e fa dire a psicoanalisti come Michel Stora: «Siamo passati da una società inibita e piena di segreti a una società esibizionista».
Per continuare:
http://espresso.repubblica.it/visioni/societa/2014/08/21/news/ossessione-selfie-1.177375
 
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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1 commento

  1. sansoni.riccardo

    Selfie ergo sum
    Selfie ergo sum

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