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ALCUNE RIFLESSIONI SU UN CASO DI SEX OFFENDER

29 Ago 18

A cura di AISTED - Associazione Italiana Studio Trauma e Dissociazione

di Giovanni Salotto, psichiatra, psicoterapeuta, libero professionista, docente di psichiatria nel corso di formazione specifica in medicina generale, già medico di m.g., consulente tecnico di parte, socio AISTED – area forense

La psichiatria forense lavora molto spesso sull’aspetto più ostico del trauma, quello che non suscita la partecipazione emotiva, la solidarietà empatica; è costretta a prestare particolare attenzione al traumatizzante, invece che alla vittima, al traumatizzato. Essa ‘mette le mani’ in vicende spesso cruente, drammatiche; deve cercare di comprendere colui che ha commesso dei crimini, entrando nel suo modo di percepire la realtà, immedesimandosi nel suo punto di vista, allo scopo di valutarne lo stato mentale, l’imputabilità, la pericolosità sociale. Lo psichiatra forense rappresenta perciò, spesso, lo specialista che per primo ‘si prende cura’ di colui che ha agito in modo tale da risultare traumatizzante – talvolta in modo estremo – per altre persone. E’ necessario pertanto che egli conosca – tra altre cose, ovviamente – molto bene i circuiti della paura e della rabbia; come questi vengano attivati, condizionati, riattivati; che conosca molto bene i meccanismi della dissociazione. E’ necessario, in altri termini che padroneggi la traumatologia, il disturbo da stress post-traumatico, il trauma dello sviluppo. Soltanto dalla comprensione che il traumatizzante è spessissimo un traumatizzato può avviarsi l’iter che conduce alla terapia dell’offender. E’ questa l’unica strada che può condurre ad un contenimento e, si spera, al controllo della pericolosità sociale. Se mi si passa una terminologia presa in prestito dall’epidemiologia, applicandola alla traumatologia, si può affermare che mentre prendendo in carico il prima possibile il traumatizzato si fa terapia e prevenzione primaria, prendendo in carico il traumatizzante si fa la terapia necessaria alla prevenzione secondaria, incidendo, pertanto, positivamente sulla pericolosità sociale. Il caso che espongo di seguito mi ha offerto lo spunto per alcune riflessioni attinenti quanto ho succintamente esposto.

Mi è capitato, nel corso della mia attività professionale, di occuparmi, tra altri – nella veste di consulente tecnico di parte dell’imputato – dell’autore di diversi reati attinenti la pedopornografia online, reiterati nel tempo. Più esattamente mi veniva chiesto da un avvocato di visitare l’indagato, giacché colto in flagranza. In realtà mi era già capitato di visitare la medesima persona, per circostanze simili, qualche tempo prima, dietro richiesta dell’avvocato di allora: in tale occasione l’interessato aveva rifiutato ogni offerta di aiuto, sostenendo di essere accusato ingiustamente giacché il suo computer sarebbe stato manomesso da terzi. Alle mie osservazioni che le prove per svariati reati erano inequivocabili, egli aveva risposto che, comunque, non si riteneva malato e quindi non necessitava di nessuna consulenza specialistica, nemmeno qualora egli stesso potesse trarre da quest’ultima qualche vantaggio sotto il profilo giudiziario.

L’interessato, verosimilmente sensibilizzato dal proprio legale, appariva in un secondo tempo più disponibile al colloquio e ad accettare che uno psichiatra potesse aver accesso alla propria storia personale allo scopo di individuare degli elementi che potessero essere utilizzati per aiutarlo. Era implicito per il paziente che ciò potesse recargli unicamente dei vantaggi sotto il profilo giudiziario, giacché egli, comunque, non riteneva di dover o poter essere in altro modo aiutato o curato. In ogni caso fu questo lo spiraglio attraverso il quale fu possibile indurlo ad uscire dalla condizione di assoluta negazione e a raccontare di se stesso.

Dai dati anamnestici raccolti dall’interessato e confermati da altre persone, risulta esser nato da una giovane decisamente emarginata sotto il profilo sociale, portatrice verosimilmente di disabilità intellettiva. Ad essa egli sarebbe stato sottratto nelle prime epoche della vita e di lei e del contesto familiare in cui visse non conserva alcun ricordo. Del padre biologico non si conosce neanche l’identità. Venne poi accolto in un orfanotrofio, passando poi, in successione, in diversi istituti. Nella primissima infanzia, in età prescolare, sarebbe stato affidato ad una coppia di coniugi senza figli. Riferisce con precisione di essere stato maltrattato, anche con estrema violenza fisica, dal padre adottivo: narra di molti episodi nei quali l’uomo, particolarmente incline a ‘modalità educative’ estremamente rigide, giunse a comportarsi in modo decisamente cruento.
“Mio padre non mi ha mai considerato suo figlio… mi ha sempre picchiato, anche quando ero piccolo… anche a sangue… per punirmi perché facevo la pipì a letto o nei pantaloni; oltre a picchiarmi, mi costringeva a restare in ginocchio sulle piastrelle ruvide, con le mani alzate, anche per mezz’ora di seguito…; mi picchiava con una pompa di gomma che aveva un’anima di metallo…; mi picchiava anche col guinzaglio del cane, al quale era attaccato il collare di metallo… mi picchiava per i motivi più futili, con ogni pretesto… mi ha picchiato con la pompa fino a vent’anni… era molto violento… ”. Racconta sia della violenza subita che di altra violenza assistita. Nella narrazione degli eventi accaduti nella propria infanzia e adolescenza sorvola velocemente su alcuni episodi nei quali fu verosimilmente oggetto di maltrattamenti e di bullismo (“si sa che i bambini adottati sono sempre visti male da tutti”) e in seguito ai quali, di fatto, interruppe la scolarizzazione, che si fermò alla licenza media inferiore. Riferisce però di essere stato vittima, durante il servizio militare, di ‘maltrattamenti’ anche piuttosto gravi, verosimilmente rilevanti atti di bullismo, o ‘nonnismo’, secondo il gergo militare. All’indagine sulla sfera affettivo-sentimentale riporta di essere stato fidanzato alcune volte con altrettante ragazze. In seguito a domande più approfondite emerge però che egli utilizza il termine ‘fidanzamento’ per definire indifferentemente vicende accadutegli sia quando aveva dodici-tredici anni che quando ne aveva venticinque o trenta, ammettendo di non aver mai avuto alcuna intimità fisica con dette ‘fidanzate’. Inoltre parla di contratti di natura economica che egli avrebbe proposto alle giovani: attribuisce il fallimento di dette ‘relazioni’ unicamente alla mancata sottoscrizione di siffatti ‘contratti’ da parte delle ‘fidanzate’.

I tratti salienti dell’esame psichico delineano un individuo che, nel modo di presentarsi, nell’abbigliamento, nell’andatura, nelle movenze, nell’espressione e nella attività mimica, nella tonalità (alta) e nel volume della voce, palesa delle incertezze, delle esitazioni, che sono più caratteristiche di un’età adolescenziale (quasi peri-puberale) che della fascia d’età anagrafica a cui appartiene. Simile immaturità si rileva nel corso e flusso del pensiero, nelle argomentazioni attinenti soprattutto i propri rapporti con le figure di riferimento affettivo, con i pari per età e fascia socio-economica. Al colloquio non appaiono alterazioni evidenti di memoria, attenzione, orientamento spazio-temporale; né a carico delle senso-percezioni (intese come manifestazioni allucinatorie), né alterazioni grossolane del pensiero o dell’esame di realtà (suggestive in particolare di manifestazioni deliranti). Cionondimeno appare come appartenente ad una dimensione quasi irreale, dissociata, nella quale è ovattata la consapevolezza di sé come persona adulta, autodeterminantesi; egli si palesa, infatti, come se avesse di se stesso la narrazione di un personaggio quasi infantile, fragile, dipendente e spesso succube degli altri. In tal senso si può inquadrare quanto riferisce circa le ‘relazioni’ avute con le pari età di genere femminile, con le quali sente la necessità sociale di rapportarsi, ma nei confronti delle quali – non provando alcuna attrazione fisica – avverte comunque molta diffidenza e il bisogno di tutelarsi. Egli si spinge talmente in fondo in tale lettura infantile del rapporto di coppia adulta da attribuire l’assenza totale di una dimensione sentimentale nella propria vita unicamente al rifiuto delle candidate di aderire ai propri contratti economici. Parimenti millanta una condizione economica decisamente al di sopra di quella che è la reale consistenza delle risorse di cui può disporre. La descritta dimensione, che è evidentemente una modalità difensiva strutturatasi nel corso di una storia di sviluppo estremamente traumatica, lo porta ad essere lamentoso e ad eterodirigere anche responsabilità personali che non possono essergli alienate. Ad esempio, dopo aver negato, nel primo dei recenti colloqui avuti con lo scrivente, anche di aver commesso i reati ascrittigli, nel secondo colloquio afferma di non aver mai pensato ai danni fisici, emotivi, psicologici subiti dalle vittime ritratte nel materiale pedopornografico del quale egli è stato largo fruitore. D’altro canto è evidente che afferma ciò per compiacere l’interlocutore giacché egli si rapporta ai minori come se fossero dei propri pari sotto il profilo della autodeterminazione; attribuisce loro intenzioni, capacità di scelta, di critica, di giudizio, complete. Nell’ambito dei comportamenti sentimentali e sessuali, ad esempio, tenendosi prudente per non opporsi troppo a quello che intuisce essere il parere di chi gli sta davanti, esprime la convinzione che già dai dodici-tredici anni un individuo sia in grado di decidere del proprio agire, prendendo le iniziative che preferisce.

Sulla scorta della relazione dello scrivente il giudice per le indagini preliminari nomina il proprio perito con l’incarico di valutare l’imputabilità (cioè se l’indagato sia affetto da “malattia ai fini forensi” che al momento dei fatti abbia reso le capacità di intendere e/o di volere totalmente o grandemente scemate, oppure no), la capacità di partecipare al processo e la pericolosità sociale (1), (2). Il collega perviene a delle conclusioni che ometto, in ossequio alla riservatezza. In ogni caso sia il perito che il ctp, pur nelle loro rispettive posizioni, si trovano a dover mettere a disposizione del giudice tutti gli elementi che ritengono possano consentire a quest’ultimo, oltre che di valutare quanto è utile ai fini di giudizio, anche di prendere delle decisioni relative al riconoscimento di una patologia che necessita di attenzione e terapia. La psichiatria forense ‘classica’, se non tiene nel debito conto la psicotraumatologia, ha delle difficoltà nell’inquadrare un quadro come quello presentato tra i ‘vizi di mente’, giacché il disturbo parafilico, i disturbi di personalità, un’eventuale lieve disabilità intellettiva, non incidono, secondo l’orientamento prevalente, sulle capacità intellettive e volitive. Di conseguenza il caso in esame esce dalla competenza psichiatrica e resta unicamente un caso di criminalità.

C’è da domandarsi allora quali indagini sono a disposizione della psichiatria forense per mettere in evidenza una patologia post-traumatica così evidente? Oltretutto il paziente ha taciuto tutto il capitolo riguardante la propria iniziazione sessuale (è molto verosimile sia stato oggetto di sessualizzazione precoce, considerando i parametri che utilizza per definire l’età nelle quale un individuo può decidere della propria attività sessuale). Ritengo significativo che il perito incaricato dal giudice, affermato psichiatra forense che però non si occupa precipuamente di psicotraumatologia, durante le operazioni peritali, abbia espresso allo scrivente, tra le altre, anche la seguente considerazione: “Sembrerebbe un traumatizzato cranico, per quanto è rigido, disconnesso”. E’ indubbio quindi che si tratti di un disturbo da trauma dello sviluppo (3),(4) (Bessel van der Kolk, 2005) molto grave, di un disturbo da stress post-traumatico cronico, nel quale le condizioni che mettevano in grave pericolo la sopravvivenza fisica ed emotiva dell’individuo si sono protratte molto a lungo, per decenni, determinando dei danni ‘neurologici’ gravissimi. Sono anch’io del parere che sia opportuno che tale diagnosi, che non rientra tra quelle contemplate nel DSM-5, venga impiegata in tutti quei casi nei quali sono presenti i sintomi sia del disturbo reattivo dell’attaccamento che del disturbo da stress post-traumatico cronico (5)(Sebern F. Fisher, 2014,). Ritengo altresì necessario siano sempre più disponibili e di agevole impiego dei test e degli esami strumentali che mettano in luce tali patologie, alle quali corrispondono delle lesioni, organiche e funzionali, del sistema nervoso. Mi riferisco evidentemente, oltre ai test di comune impiego nella pratica clinica e psichiatrico forense (MMPI, Millon, Rorschach, WAIS, Raven, test dell’albero, della figura umana, etc…), anche ad altri di meno comune impiego, come DES, CAPS… D’altro canto non possono non essere messi in evidenza i danni provocati dall’attivazione protratta, ininterrotta di determinati circuiti dello stress, come quello della paura. Più esattamente la ripetitiva attivazione neurale determinata da ogni minaccia, reale o percepita, provoca, come è oramai noto, una ‘accensione’ dell’amigdala destra che impara a reagire in tal modo anche a stimoli meno importanti, rimanendo di fatto eccitata e tenendo attivato il circuito sottocorticale della paura, costituito anche dal sistema paralimbico destro. Rimangono così permanentemente attivati, oltre alla stessa amigdala, anche la corteccia insulare, la corteccia orbitofrontale posteriore, la corteccia cingolata anteriore e la corteccia temporale anteriore (6). Un dato significativo è lo spegnimento dell’area del Broca; ciò spiega la difficoltà ad esprimere le emozioni come dati codificati verbalmente (6)(Bessel van der Kolk, 2007). Le indagini su tali alterazioni presentano attualmente delle difficoltà oggettive piuttosto consistenti. Tuttavia ritengo che non sia lontano il tempo in cui possano essere di più agevole accesso le tecniche per immagini, il cui impiego nella diagnosi presenta attualmente non poche difficoltà. Verosimilmente potrebbe avere già dal presente una maggiore diffusione lo studio dell’attività elettrica del cervello attraverso il qEEG (mappa EEG o EEG quantitativo). Ad esempio nel trauma dello sviluppo c’è spesso tipicamente un eccesso di onde lente (theta) 2 Hz, soprattutto nel lobo temporale, oppure un eccesso di onde beta alte (Sebern F. Fisher, 2014).

Sotto il profilo del trattamento, essendo queste delle patologie derivanti da eventi gravemente traumatici, protratti nel tempo, necessitano di lunghe e specifiche terapie tendenti a riparare i danni subiti; queste ultime hanno come obiettivo quello di curare le parti gravemente traumatizzate, portando le parti che hanno avuto una evoluzione ‘più normale’ a prendersi cura del se stesso bambino sofferente, traumatizzato, abusato, violentato (7). E’ attraverso la ‘compassione’ con tali parti di sé che si può giungere, mediante le tecniche specifiche, alla riparazione delle ferite. Il processo di riparazione delle ferite, che passa attraverso la risperimentazione del dolore provato durante gli eventi traumatici – con la formazione di una sorta di ‘tessuto di granulazione’ recente – conduce al prendersi cura del sé traumatizzato. Ritengo che soltanto attraverso quest’ultima tappa si possa giungere ad immedesimarsi nelle vittime dei propri atti lesivi, arrivando attraverso l’empatia – finalmente nei confronti delle vittime – alla reale comprensione della gravità dei danni perpetrati. Sono convinto che questa sia la strada più sicura per giungere ad una ragionevole riduzione della pericolosità sociale.

Mi sento, a questo punto, anche di esprimere la considerazione che esiste la tendenza a ritenere malato, e quindi bisognoso di terapia, essenzialmente colui che sia portatore di una patologia che abbia determinato almeno una parziale compromissione delle capacità intellettive e/o volitive. Ciò determina la forte probabilità che un elevatissimo numero di persone altamente traumatizzate, autori di reato, sfugga ad una diagnosi e ad un trattamento adeguato. D’altro canto se un individuo è imputabile, cioè se non è neanche seminfermo di mente, non viene valutato in merito alla pericolosità sociale nel senso psichiatrico-forense. Discende da quanto ho esposto sopra che, a fine pena, un individuo, non riconosciuto come affetto da detta grave patologia e non trattato, presenta un elevatissimo rischio di reiterare i comportamenti criminosi. Da qui l’estrema importanza della diffusione della cultura della psicotraumatologia nell’ambito della criminologia e della psichiatria forense. Tutto ciò anche al fine della messa a punto di linee guida condivise per identificare percorsi diagnostici e terapeutici che riguardano una quota decisamente molto rilevante degli autori di reati contro la persona. Sono peraltro a conoscenza che nel nostro sistema carcerario esistono delle strutture, di notevolmente elevata qualità prestazionale, che si occupano specificamente della diagnosi e del trattamento del gruppo di patologie all’interno delle quali rientra quella da me descritta (8); mi risulta però che esse siano assolutamente insufficienti a coprire il fabbisogno dell’intero territorio nazionale.

Bibliografia

1) VOLTERRA, V. et al. “Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica”. II ed. Elsevier srl, Milano 2010.

2) FORNARI, U. “Trattato di psichiatria forense”, II ediz. Utet, Torino 1997.

3) VAN DER KOLK, B (2005), “Developmental trauma disorders: Toward a rational diagnosis for children with complex trauma histories”. In Psichiatric Annuals, 35 (5), pg 401-408.

4) EINAUDI, G., (26.6.2018), “La diagnosi del Disturbo Traumatico dello sviluppo: uno strumento nel lavoro di rete”, http://www.psychiatryonline.it/node/7440.

5) FISHER, F.S. “Neurofeedback nel trattamento dei traumi dello sviluppo”. tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2017.

6) VAN DER KOLK, B (2014), “Il corpo accusa il colpo. Mente corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2015.

7) VAN DER HART, O.; NIJENHUIS, E.R.S.; STEELE, K., “Fantasmi del sè – trauma e trattamento della dissociazione strutturale”. Tr. It. Raffaello Cortina, Milano 2011.

8) GIULINI, P; XELLA, C. M., “Buttare la chiave? La sfida del trattamento per gli autori dei reati sessuali”. Raffaello Cortina, Milano 2011.

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