Intervista a cura di Raffaele Avico, redazione Psychiatry On Line
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Prof. Abbate Daga, in passato alcuni clinici di grande esperienza (per esempio Luigi Cancrini), hanno formulato un parallelismo tra la tossicodipendenza maschile e il disturbo alimentare femminile. Cosa pensa a riguardo?
Lo studio della psicopatologia dei disturbi dell’Alimentazione è una delle aree più stimolanti della psichiatria. Quando faccio lezione agli specializzandi da alcuni anno inizio il ciclo dei seminari con questa domanda: a quale disturbo o a quali disturbi psichiatrici avvicinereste anoressia, bulimia e disturbo da binge eating? La dipendenza da sostanze è una delle risposte più comuni. Anche la letteratura evidence based ha studiato molto i parallelismi, concentrandosi sul tema dell’alterazione del reward. Per alcuni chi soffre da anoressia dipende dagli effetti biologici del digiuno – una sorta di droga da sottrazione – per altri dipende dal valore sociale positivo della magrezza che, attraverso una serie di passaggi, nel tempo corrobora un vero e proprio craving verso il calo ponderale, per altri all’opposto vi sarebbe una predisposizione (epi?)genetica a una minor sensibilità al reward del cibo. Molto noti sono infine gli studi che concepiscono l’atto bulimico come dipendenza da cibo, sia in senso simbolico, sia sostenendo la tesi con studi sui dati clinici, sui circuiti neurali, sul ruolo della dopamina.
Le ipotesi e i dati sono convincenti, e poi siamo esseri mancanti per definizione, come sostengono un’infinità di autori, da Platone a Lacan: già solo per questo siamo esposti ad ogni sorta di dipendenza. Penso tuttavia che il mistero dei Disturbi dell’Alimentazione stia anche nel fatto che sfuggono a una sola categorizzazione, non si lasciano facilmente imbrigliare. La problematica della dipendenza è pertanto un pezzo della fenomenologia, valida più per alcuni pazienti e meno per altri, più in certe fasi e meno in altre. Penso che un riferimento concettuale più complesso – ma anche più debole e confuso – come quello che rappresenta i disturbi dell’alimentazione come via finale comune di diverse aree psicopatologiche sia più appropriata. Che poi è una vecchia idea che disseminarono Garner e Garfinkel negli anni ’80 dello scorso secolo.
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Prof. Abbate Daga, dal suo punto di vista, quali sono i vantaggi del sintomo alimentare per la vita del o della paziente? MI riferisco in particolare al tentativo che a volte viene fatto di leggere la "funzione del sintomo" nel quadro complessivo della vita di chi ne è colpito; cosa ne pensa?
E’ una lettura che mi piace e condivido. Mi rendo conto che è una lettura per nulla neutrale perché poggia sul terreno della teorizzazione psicodinamica e in senso lato fenomenologica e umanistica. Perciò prendila anche come una lettura di parte e di appartenenza.
Nella cultura con cui leggo i sintomi, i sintomi parlano. Parlano in modo indiretto e oscuro e talora anche ostile. In tale visione della psichiatria un sintomo a volte esprime un disagio ma al contempo lo nasconde, cerca di risolvere un problema, ma finisce per aggravare la sofferenza dell’individuo. A pensarci bene questo vale anche a volte in medicina, penso ai problemi cardiaci che derivano da un ipertensione maligna misconosciuta.
E quali possono essere per esempio i vantaggi dell’anoressia? Il tentativo di gestire l’ingestibile, il tempo che passa, il corpo che si trasforma, le emozioni incontrollabili e caotiche del periodo adolescenziale e di periodi di cambiamento nella vita. Il riferimento concettuale legge tutto questo nella cornice della problematicità non risolta della tappa evolutiva dell’autonomia/separazione. Nel 2015 con alcuni colleghi abbiamo verificato in uno studio che cosa pensano i pazienti al riguardo. Nelle loro risposte vi è una conferma del ruolo del sintomo nelle loro vite. I temi che riferiscono sono sostanzialmente raggruppabili in tre aree: il sintomo serve perché ha un valore positivo e protettivo (per esempio dà stima e sicurezza), i sintomi comunicano il dolore agli altri, specie quando essi non vogliono sentire, i sintomi aiutano ad evitare ciò che si teme, spengono pensieri e sentimenti e forniscono scuse per gli impegni cui non ci sente adeguati.
Nella pratica clinica è normale che per lungo tempo queste cose non siano pienamente comprese da chi soffre, non dimentichiamoci che se fosse facile non vi sarebbe malattia. Lo psichiatra ha sì una funzione oracolare (“gli dei sono diventati sintomi”), ma con pazienza e cautela. Per giungere a Delfi il cammino è sempre lungo e occorre prepararsi. I sintomi, come gli dei possono folgorare, se mostrati nella loro essenza al momento non opportuno.
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Prof. Abbate Daga, ritiene che il disturbo alimentare sia da collegare a un disturbo antecedente, o primario? In altre parole, ritiene che alla radice di un DCA, potremmo scoprire altri quadri o altri nodi problematici a partire dai quali, idealmente, dovrebbe o potrebbe iniziare un percorso di psicoterapia?
Direi che la domanda è figlia della risposta precedente. Certamente il sintomo è il passo finale: quando vi è un esordio di malattia, prima ci sono stati antecedenti e processi patogenetici. L’ateroma predispone all’infarto, l’erba secca all’incendio. E’ una legge della natura per come la vediamo noi, esseri legati alla dimensione del tempo e delle sequenze causali. Ma con questo non intendo solo che i fattori di rischio (per esempio nei disturbi alimentari perfezionismo personale e familiare) o i sintomi prodromici hanno un ruolo decisivo nel produrre malattia. Ormai sotto i 18 anni per qualche settimana una ragazza su due fa una dieta scorretta o estrema, ma solo poche persone si ammalano. Perché si ammalano? Vi è una vulnerabilità che risale indietro nel tempo, che inizia con il DNA e con gli eventi perinatali attraversando tutte le tappe del neuro e psicosviluppo. Ma soprattutto vi è una storia, o meglio una rielaborazione e un vissuto che risuona nelle memoria delle proprie vicissitudini. Una storia di dolore che non può essere sopportata, in cui la trama si sfilaccia e il senso si smarrisce. Se vogliamo, a costo di semplificare un poco, alla radice di un Disturbo dell’Alimentazione ci sta una ferita non rimarginata. Il discorso sulla psicoterapia sarebbe lungo. Mi limiterei a dire che lo psicoterapeuta ha il compito di individuare i nodi problematici e tenerli a mente sempre. Come poi utilizzarli al meglio richiede anni di esperienza e di riflessioni. La meta di una psicoterapia è la guarigione, ma – come nel mare – le rotte per l’approdo sono molteplici.
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Prof. Abbate Daga, quali sono, dalla vostra esperienza, gli approcci terapeutici più efficaci per il DCA? Il futuro cosa ci riserverà, in questo senso?
La domanda sembra semplice ma non lo è. La verità è che sono disturbi difficili da trattare. Per l’anoressia per esempio le linee guida non hanno un trattamento con grado di evidenza A. Va un poco meglio per la Bulimia. Il disturbo da binge eating va ancora ampiamente studiato. Ad oggi le psicoterapie psicodinamiche e e le terapie cognitivo-comportamentali (particolarmente una CBT specifica: l’ehanced CBT o CBT trans diagnostica) sono validi strumenti terapeutici. I due tipi di trattamenti sono sostanzialmente equivalenti nell’anoressia, mentre la CBT ha maggiori prove di evidenza nelle bulimia, nella mia opinione soprattutto per una maggiore rapidità nel raggiungere risultati. Va anche detto che nella terapie del mondo reale tecniche comportamentali e concetti dinamici sono ampiamente utilizzati dai clinici con una convergenza dei due modelli. Se da un lato ormai è evidente che se non lavori sul sintomo non fai il bene del paziente, dall’altro alcuni modelli CBT (penso al MANTRA di Londra) sono molto attenti agli aspetti emozionali, all’ambiente e alle relazioni, ai contenuti della coscienza del paziente. Non è un caso che l’alleanza terapeutica sia ritenuta centrale in tutti i modelli psicoterapici.
Novità? Ve ne sono sempre tante. Sono proposti nuovi modelli di cura, e recentemente è stato proposto di associare terapie di neuro-modulazione prima della seduta con la psicoterapia immediatamente successiva, nell’intento di rendere le reti neurali più atte al cambiamento. Personalmente mi incuriosisce molto la potenzialità terapeutica costituita dal lavorare in gruppo con chi soffre di disturbi dell’alimentazione, come accade nel nostro DH, nei gruppi condotti dalla collega Brustolin.
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Prof. Abbate Daga, potrebbe consigliarci un libro e un film da cui potremmo farci un'idea più precisa e reale di ciò che accade a chi è colpito da DCA?
Due buoni film che in certe scene descrivono bene l’anoressia nervosa sono “Fino all’osso” di Marti Noxon e “Briciole” di Ilaria Cirino (da una storia vissuta). In questi due film si possono vedere esemplificazioni dei sintomi, di certi ambienti familiari e del rapporto con le cure. Chiaramente ogni film indora la pillola e liricizza il problema: per lo spettatore non esperto il rischio di travisare è sempre in agguato. Perciò per un vero approfondimento sono meglio i libri. Quelli di Hilde Bruch sono pietre miliari. Per un chiaro e più facile primo inquadramento clinico del problema i libri di Fairburn (tradotti in Italia dall’amico Dalle Grave) sono molto esaustivi. Per i più interessati “Mente coatta, corporeità, anoressia mentale” curato da Zappa è un ottimo aggiornamento sui modelli psicodinamici. “Prima di aprire bocca” di Mendolicchio, appena uscito, regala invece una visione eterodossa e stimolante. Infine sono molti i libri di testimonianza: suggerisco quelli di Marzano, per esempio “Volevo essere una farfalla”. Mi è piaciuto molto anche un diario scritto da una paziente della dottoressa Delsedime, “Luce, come l’anoressia mi ha seduto nel buio”.
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