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AMARCORD. Vent’anni fa la chiusura dell’ex O.P. di Prato Zanino

15 Set 18

A cura di Paolo F. Peloso

Sono ricorsi quest’estate, esattamente il 18 luglio, i vent’anni da un evento al quale ho preso parte in occasione del mio passaggio dalla ASL di Savona a quella di Genova nel 1998. Ero giunto a Prato Zanino il 1 aprile proveniente dal DSM di Savona, mentre fervevano le operazioni per la chiusura, prevista di lì a poco, che erano state aperte nel 1996, a quasi vent’anni dalla legge. In quel momento erano ancora aperti se non ricordo male tre padiglioni, il n. 1, di donne tranquille, del quale si occupava il direttore Cosimo Schinaia; il numero 5 e il n. 11, due autentiche Caienne dove in quei mesi stavano passando, con un turn-over da SPDC nonostante la cinquantina di letti ciascuno, i pazienti provenienti dagli altri reparti e destinati a essere smistati nelle strutture che nel frattempo erano state aperte all’esterno o trasferiti temporaneamente all’ex O.P di Quarto che avrebbe chiuso solo l’anno successivo. Di questi altri padiglioni si occupava l’unico primario rimasto, Leo Cappenberg, insieme a un medico da molti anni lì, Giuseppe Macrì, per il n. 11. Io optai per il padiglione 5, del quale mi sarei occupato con Simona Traverso che sarebbe stata presente solo part-time, e il caposala Massimo Valeri col quale nacque un rapporto solido di stima e amicizia, destinato a durare lungamente. Il padiglione era a ferro di avallo; la “piazza” (dove si consumavano i pasti, ma dove anche 50 persone restavano chiuse tutto il giorno se pioveva tra odori, urla ecc.)  e la medicheria nel corpo centrale, le stanze da letto e le celle d’isolamento nei due bracci, un cortile, ormai privo della rete di un tempo, al centro. Mi resi subito conto che Prato Zanino era un luogo bipolare. Abbastanza vivibile nei giorni di sole, quando la maggior parte dei malati poteva concentrarsi nell’ampio cortile e godere del sole. Infernale nei giorni di pioggia, quando la sensazione di umidità, tristezza, squallore era massima e la “piazza” diventava un inferno. Ricordo in particolare il primo pomeriggio di turno, che scelsi ovviamente di passare nel padiglione; dalla “piazza” arrivavano grida incessanti, versi incomprensibili. Fuori dalla finestra la pioggia cadeva fitta, cominciava a far buio. Gravava su di me un senso di oppressione per me, per loro, i malati, fuori dalla stanza. Improvviso trillò il telefono. Era il padre di un’amica, un tempo medico nell’OP e ora in pensione, che voleva darmi l’in bocca al lupo per il mio primo turno pomeridiano. Veramente quell’atto di cortesia, così inaspettato, in quel momento fu come la panacea. Non tutto era bruttura senza rimedio, come il mio cuore sentiva se guardavo fuori la “piazza” e pensavo ai decenni dai quali le cose in quel luogo stavano andando così, prima della 180 ma, colpevolmente, anche dopo. Con infermieri e OSS il rapporto fu improntato a schiettezza e, in qualche caso, anche ad affetto vero. Erano per lo più ottime persone, e molti di essi avevano una grande umanità; mi stupiva perciò come potessero stare da anni in quel luogo senza sentire il bisogno di trasformarlo. Come i loro modi buoni, da persone di campagna, potessero convivere con le pratiche disumane di quel luogo. Semplicemente, non erano stati abituati a evitare il paternalismo, e a sapersi mettere al posto del paziente. Certo, in qualche caso potevano avere intuizioni formidabili. Ma per lo più mi colpiva come queste persone, che in molti casi credo volessero autenticamente bene ai “marotti” che da anni erano loro affidati, in buona fede non si rendessero conto di come gli atti che riproducevano lo stile del manicomio potessero fare loro del male. Sì, perché mi resi subito conto che del manicomio in quel padiglione c’era quasi tutto, come avevo letto nelle pagine de “L’istituzione negata”. Non solo contenzione e isolamento, ampiamente (e soprattutto routinariamente, cronicamente) utilizzati, ma anche la doccia praticata a corpi nudi, messi in fila a suon di urli (di rivolgersi loro “con voce fiera e tonante” raccomandava un manuale di psichiatria scritto da un medico genovese nel 1841). O il lavaggio “a sguazzo” del padiglione retribuito con qualche sigaretta (“scusi dottore, abbiamo sempre fatto così; se vuole non lo facciamo più” ricordo che mi disse una giovane OSS a sua volta imbarazzata e sbigottita nel vedermi sbigottito davanti alla scena). O il ritorno temporaneo in reparto la sera di un paziente già dimesso per fare da sorvegliante agli altri pazienti. Era come se tra il personale e il paziente si fosse stabilita uno scarto antropologico, uno un po’ meno umani degli altri. Questo credo che sia il problema centrale del manicomio, e quello che ne giustifica il parallelo con il lager e la colonia. Un’altra cosa che mi colpiva era la scansione del tempo. Ore interminabili di noia. Poi improvvisamente, come se si trattasse di un blitz militare, alle ore della distribuzione di medicinali e pasti, tutto si animava di una fretta incredibile; per poi spegnersi di nuovo. Per quello che mi riguarda, quello che credo colpì di più lo staff era il tempo che questo strano medico, che pretendeva di fare tutte le mattine il “giro” della metà dei pazienti come in un reparto di medicina e di scrivere le terapie a penna e non a matita,  trascorreva effettivamente a contatto coi malati. Non solo la mattina, ma anche nei turni del pomeriggio e della sera. Non mi costava molto perché m’interessava e mi piaceva. In effetti, mi sono reso conto che a Prato Zanino almeno in quel periodo i medici tendevano a far vita propria, intorno allo studio del direttore; gli infermieri a sottrarsi all’inferno del padiglione rifugiandosi al piano di sopra; e i malati rimanevano giù, all’inferno. E che un medico scegliesse di vivere con loro quell’inferno, effettivamente, doveva sembrare strano. La mia assiduità nel padiglione ha creato un rapporto di fiducia basato anche sul tempo trascorso effettivamente insieme agli infermieri, che permise anche di ridurre significativamente isolamenti e contenzioni. Quanto a loro, i “marotti”, molti erano i disabili, i muti e i mutacici, on i quali l’interazione era quasi del tutto impossibile. Non so che fine abbiano fatto dopo la chiusura, se nelle nuove strutture dove sono stati trasferiti qualcuno sarà stato più bravi di noi a proteggerli senza legarli e a parlare con loro. Spero di sì. Tra gli altri, ricordo a proposto un'anziana insegnante, molta dolcezza, che in tutta quella miseria colpiva.  Un giorno ricordo di aver visto piangere un anziano. Chiesi perché. Mi dissero che era perché aveva da anni un amico, e ora i criteri di ripartizione dei malati li destinavano a due strutture diverse. Ricordo che feci qualcosa per evitare che accadesse, ma non abbastanza. La rigidità delle liste pareva inamovibile. E certo la Storia talvolta ha poco rispetto delle storie. Bisognerebbe sempre cercare di evitarlo, e in quel caso non mi sono impegnato abbastanza a fondo. Credo che sia uno degli episodi, nella mia vita professionale, in cui sento di avere più mancato al mio dovere, e infondo forse il fatto di farne qui confessione pubblica mi serve in qualche misura a emendarlo.

Ricordo l’ultima notte che sono stato di guardia, e mi avevano chiamato al padiglione 5, il mio padiglione. Quel senso di fine imminente mi dava nella serata estiva una forte impressione, come di quiete e di rassegnazione. Ricordo che c’era la luna. Quel secolo di storia e di sofferenza sembrava ochieggiare tutto intorno a me, come fantasmi tra gli alberi. Mentre percorrevo nel semibuio i viali di quello che in quel momento mi sembrava un  gigante addormentato, salendo di fronte alla direzione e poi al padiglione 1, mentre si proiettava sinistra su di me l’ombra malinconica delle costruzioni ormai in via di abbandono e quella dei grandi alberi del parco, provai un misto di soddisfazione certo – per la sensazione di una riforma che forse questa volta sì, era davvero destinata a diventare irreversibile – ma anche di nostalgia, che quasi evocava in me echi tobiniani. Pensavo a quando quei luoghi erano stati inaugurati, poco più di un secolo prima, e le speranze che ne avevano accompagnato  l’apertura: il giovane direttore facente funzioni, Mario Umberto Masini, con il suo giovane assistente di scuola friulana, Giuseppe Vidoni, i primi esperimenti di assistenza femminile nei reparti maschili, l’adozione del no-restraint assoluto, l’ergoterapia, l’idea che il cancello che avrebbe separato manicomio e paese potesse essere mantenuto semiaperto. Pensavo all’entusiasmo di quei giovani pionieri, l’aspirazione a poter contenere senza violenza il rischio di violenza e quella a guarire, a restituire alla vita, le persone; che sono poi l’essenza del nostro lavoro e che con quella città dei folli di straordinarie dimensioni si pensava di poter meglio perseguire. E poi pensavo a come quelle speranze, quelle aspettative, fossero state negli anni tradite. Pensavo alle migliaia di vite rubate e rinchiuse lì dentro, a spegnersi in una cronicità destinata a ritorcersi su se stessa; a subire il paternalismo e i trattamenti seriali, quando non la violenza aperta; a scontare le sperimentazioni, dal coma insulinico, agli elettrochock, ai capricci dei vari medici dei quali gli infermieri raccontavano nelle sere di guardia; a trascinarsi nella più assoluta miseria e squallore materiale e morale. Avevo incontrato alcune di queste persone al padiglione 5; le tracce di malattia, se mai ve n’era stata, ormai scomparse da anni ed anni. Ricordo, in particolare, un’ex insegnante che forse, da giovane, avrà trasgredito in qualche misura le prescrizioni di un padre severo o avrà deviato dal modello di una madre perbenista. Tutto qui, credo nulla di più. Entrata sui vent’anni, ne aveva ormai una settantina, ed era ancora lì, a spingere chi la incontrava a chiedersi: “perché?”. Difficile pensare a una pervicace volontà di oppressione, piuttosto a una disattenzione. Di quella vita, della possibilità di rimetterla in circolo, semplicemente, una volta dentro non era importato a nessuno: né ai medici dentro, né ai parenti fuori. E ripensavo, ripercorrendo in salita forse per l’ultima volta di notte quei viali,   ai “marotti” di altri tempi dei quali avevo letto la testimonianza – il tipografo grafomane Cesare Buttolo e gli altri – di cosa aveva significato per loro ascendere la salita verso il padiglione, ormai forse per sempre dall’altra parte del cancello, lasciandosi alle spalle, con il mare, la vita che era loro, che avevano conosciuto fino a quel momento. E il mio pensiero subito era corso a Gorizia, a quel momento nel quale un medico, Franco Basaglia con il suo collega più giovane, Antonio Slavich, avevano pensato semplicemente che a questa mostruosità si potesse porre fine. E avevano cominciato a lavorare per farlo. E, infondo, proprio questo era ciò che in quel momento, anche quella sera, stavo facendo per la mia piccola parte. Fare sì che la malattia mentale potesse essere curata “restando umani”[i].      



[i] Si tratta, come è noto, delle parole con le quali Vittorio Arrigoni concludeva i suoi report dalla martoriata striscia di Gaza.

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