E lo farò traendo spunto da un film – allegato in calce per chi fosse interessato a vederlo o rivederlo – nel quale è possibile cogliere come le condizioni che l’OMS auspica perché il lavoro non nuoccia alla salute mentale possono essere disattese in quello che è nel concreto il mercato del lavoro. Almeno in quel caso, è così: non vi è sicurezza del lavoro, che non è contrattualizzato e può essere perso in qualunque istante; non vi è sicurezza sul lavoro, perché i lavoratori mancano tra l’altro di copertura sanitaria[i]; non vi è serenità dei rapporti sul luogo di lavoro, perché vige un clima tirannico, fatto anche di abusi sessuali, e altamente competitivo; tanto meno vi è equa remunerazione; non vi è alcuna possibilità di partecipare, perché l’organizzazione è rigorosamente piramidale; né vi sono sentimento di importanza e proprietà del lavoro, tanto che i lavoratori scherzano tra loro sul fatto di sentirsi “invisibili”.
Col che non intendo certo dire che tutte le condizioni di lavoro oggi assomiglino a quella, ma molte sì. Molto dipende dal tipo di impresa e dal modo in cui vi è bilanciato (o anche è possibile bilanciare date le caratteristiche di quel mercato) il rispetto (o anche solo l’attenzione) per la persona, con la ricerca del profitto. Qualcosa dipende anche dalla buona volontà di chi occupa le diverse posizioni che, a cascata, possono svolgere un ruolo. Mi è capitato d’incontrare un’amica che non vedevo da anni, con la quale avevamo condiviso idee, impegno politico e speranze, da ragazzi. Mi ha raccontato che fa la responsabile del personale, dei casi umani dei quali le si chiede di occuparsi, della fatica che fa a tenere insieme la giusta aspettativa della persona di non perdere il ruolo e il posto di lavoro, e le esigenze della produzione che, per sua natura, ha bisogno di presenza al lavoro e livelli di produttività costanti. Conoscendola, non dubito che faccia del suo meglio per farlo, e come lei faranno senz’altro molti altri.
Ma sappiamo che non sono tutte così le persone, né le situazioni di lavoro; in altre le ragioni del lavoratore e quelle dell’impresa confliggono con maggiore violenza, e la voce del lavoro è più flebile. Bene ha fatto dunque l’OMS a richiamare l’attenzione sulla salute mentale nei luoghi di lavoro, e bene facciamo a ritornare sul tema per continuare a interrogarci sul perché concetti tanto evidenti da apparire ovvi incontrino poi tanta difficoltà a trovare realizzazione concreta.
E credo che una delle ragioni stia senz’altro nel fatto che il campo del lavoro è un campo complesso, attraversato da forze diverse che, insieme all’azione regolatrice della politica, contribuiscono a determinare le condizioni concrete del lavoro. Non sono certo un esperto di queste cose, e anzi non dubito che chi lo è potrà sorridere di qualche ingenuità da parte mia, però mi pare che molto a spanne il buon senso induca a considerare nell’organizzazione del lavoro all’interno del sistema capitalistico, 4 linee principali di tensione:
La prima è costituita dal rapporto di forza tra la tendenza intrinseca alla natura del capitale a sfruttare al massimo il lavoro, e quella intrinseca alla natura del lavoro a liberarsi il più possibile del comando, che si fa a volte particolarmente opprimente e persino spietato, del capitale. E’ il tema classico della lotta di classe, che origina dalle antiche rivolte servili[ii] e rimane senz’altro una questione molto attuale, ma non la sola perché la dinamica delle forze in campo nel mondo del lavoro è complessa e non tollera semplificazioni. In altri termini: che la storia sia storia di lotta di classe, a me pare innegabile; ma che non è certo solo storia di lotta di classe, anche.
Così, la seconda è costituita dalla tendenza delle nazioni tecnologicamente – e quindi militarmente – più forti (noi) a costringere a un livello più insalubre di lavoro e di vita quelle più deboli. Il lavoro, insomma, con le condizioni materiali nelle quali si svolge, si distribuisce intorno al confine e alla cittadinanza, che sono tra gli oggetti più contesi a mani nude e più insanguinati del nostro tempo[iii]. Origina di qui il dumping salariale che da un lato impedisce a chi sta nei luoghi storicamente perdenti dove il lavoro vale meno di migliorare la propria situazione, se non spesso cercando fortuna migrando dove il lavoro vale di più. E dall’altro mette a rischio le conquiste che gli ultimi due secoli hanno garantito a chi sta in luoghi dove il lavoro vale di più (noi), e persino la sua stessa possibilità di lavorare perché il capitale è portato a spostare la domanda di lavoro dove vi è più offerta ed esso costa meno.
La terza è costituita dalla concorrenza, sul mercato internazionale e nazionale, tra le singole imprese, ciascuna delle quali è messa dalle leggi del mercato contro le altre, e perciò nella condizione di sforzarsi di conferire una maggiore produttività al lavoro, anche sacrificando, se occorre, diritti, benessere e anche salute del lavoratore. Nella lotta tra le imprese, cioè, è innegabile che capitale e lavoro di ciascuna impresa sono oggettivamente alleati, e vincono o perdono insieme.
La quarta è costituita dal fatto che anche i singoli lavoratori, come le imprese, sono messi in concorrenza tra loro e spinti a vendere ciascuno la propria forza lavoro al capitale alle condizioni per esso più vantaggiose, per garantirsi il mantenimento del posto di lavoro in primo luogo e poi gli eventuali vantaggi a esso connessi. Il fenomeno del crumiraggio non sarebbe spiegabile altrimenti, come anche quello del dumping salariale che anche in uno stesso luogo può mettere in competizione gruppi di lavoratori diversi (arrivano gli immigrati e ci rubano il lavoro…). Già Marx, del resto, analizzò il caso dell’ostilità degli operai inglesi per i colleghi irlandesi nella Gran Bretagna dei suoi anni, paragonandolo a quello tra lavoratori bianchi e neri negli Stati Uniti e notando come,, spingendo gli uni contro gli altri, li rendeva tutti più deboli[iv]. Così, può mettere in competizione le donne, che aspirano a una maggior presenza nel mondo del lavoro e allo svolgimento di mansioni prima esclusive dell’uomo, e gli uomini. Gli anziani, che sono entrati nel mondo del lavoro quando le condizioni erano più vantaggiose (posto fisso, pensione…) e i giovani, che aspirano ad entrarvi quando la domanda è più bassa e le condizioni peggiori (disoccupazione, sottoccupazione, precarietà).
“Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!”, quindi, è un’antica e generosa esortazione; ma la prima linea di tensione che spingerebbe in questa direzione si scontra con altre che, nella complessità dell’organizzazione capitalista del lavoro, spesso hanno la meglio. E non dobbiamo essere tanto ingenui da perderle di vista
La posizione espressa dall’OMS rappresenta dunque un esempio concreto, mi pare, della saggezza e dell’umanità, ma a volte anche dell’ingenuità, degli auspici di questa organizzazione internazionale, che si trova spesso a sostenere obiettivi in netta controtendenza rispetto ad altre istituzioni globali più forti, come la WTO o il FMI, e dei limiti delle sue concrete possibilità di indurre cambiamenti[v]. L’OMS si è sforzato, in questa occasione, di segnalare che l’aumento dello stress lavoro-correlato è dannoso in primo luogo per il lavoratore; ma che lo è anche in secondo luogo per l’impresa, perché genera maggiori assenze per ragioni di salute e in generale demotivazione e minore produttività del lavoratore. E che è dannoso in terzo luogo per la collettività, perché aumenta il numero di coloro ai quali essa deve provvedere perché non sono più in grado di provvedere a se stessi col lavoro. Lavoratori, impresa e Stato avrebbero quindi – se ciò che sostiene l’OMS fosse vero – un interesse comune: quello di fare il possibile per evitare lo stress lavoro-correlato. Ma è proprio vero?
Purtroppo, credo che sarebbe ingenuo pensarlo, e anche in questo caso la questione sia più complessa. Nell’impresa il sentimento di responsabilità e di appartenenza verso il proprio dipendente può certo occasionalmente prevalere, ma ciò non è nella sua natura che spinge invece, per la logica del profitto, a disfarsi se è possibile di un soggetto reso in qualche misura improduttivo da problemi di salute[vi] se si ha la possibilità di sostituirlo con uno sano. Né si può certo dare per scontato che essa si senta sempre obbligata a concorrere, con una contribuzione adeguata[vii], al fatto che lo Stato provveda comunque a coloro che – nonostante gli sforzi di inclusione (nei quali immaginiamo tutti alacremente impegnati… chissà?) – rimangono esclusi dal lavoro, assicurando loro la possibilità di un’esistenza dignitosa. Mi pare che la storia e anche le condizioni nelle quali anche oggi il lavoro si sta svolgendo in molte situazioni, soprattutto ma non solo nei Paesi poveri – quelli dai quali non per niente fuggono a milioni i migranti, per collocarsi però nei Paesi ricchi ai gradini più bassi e/o meno garantiti del lavoro[viii] – lo dimostri.
Se non si considera la cornice concreta nella quale gli auspici dell’OMS vanno a cadere, insomma, essi rischiano di rimanere mere affermazioni di principio, che già in occasione di una “giornata” della quale pochi si accorgono visto che ormai esse si moltiplicano come i nomi dei santi sul calendario, passano quasi inosservati e parrà strano ricordare a quasi venti mesi di distanza. Sta invece a ciascuno di noi decidere quale società e quale lavoro vuole, e quanto per essi è disposto a lottare.
Nel film Il pane e le rose il fatto che il lavoro sia al centro della dinamica di forze che tirano in opposte direzioni e le condizioni materiali nelle quali anche nel Paese più ricco del mondo spesso si svolge mi paiono raccontati con straordinaria sensibilità e un pizzico di simpatia (che non guasta), nella sua radicale fondazione nel cuore di donne e di uomini, là dove originano, si sviluppano e (talvolta) hanno la fortuna di risolversi anche le questioni relative alla salute mentale. I simpatici e tenaci protagonisti di questo film, insomma, ci hanno provato (in modo non certo indolore) a migliorare le condizioni del lavoro, e mi pare che per la straordinaria attualità dei loro problemi meritino attenzione, almeno il 1 maggio. Buon 1 maggio quindi, e buona visione!
In allegato il film Il pane e le rose di Ken Loach, 2000[ix]
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