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ANCORA SU “L’ISTITUZIONE NEGATA… perché 50 anni dopo proprio di lì dobbiamo ripartire (2).

30 Giu 18

A cura di Paolo F. Peloso

Proseguiamo, dopo qualche mese, il lavoro iniziato in marzo a partire dall'introduzione a L'istituzione negata – “L’istituzione negata: 50 anni dopo, è ancora di lì che dobbiamo ripartire” (clicca qui per il link)  – per entrare nel merito dei capitoli che seguono. Al solito, non possiamo che cogliere alcuni spunti che più ci hanno colpito e sembrano attuali. Per il resto, non si può che rinviare alla lettura completa di questo testo così straordinariamente originale, così straordinariamente attuale.
Cominciamo così con Le istituzioni della violenza, il primo capitolo, che Franco Basaglia apre con una scena che emblematica della realtà dell'ospedale psichiatrico:
 
«Negli ospedali psichiatrici è d'uso ammassare i pazienti in grandi sale, da dove nessuno può uscire, nemmeno per andare al gabinetto. In caso di necessità l'infermiere sor­vegliante interno suona il campanello, perché un secondo infermiere venga a prendere il paziente e lo accompagni. La cerimonia è così lunga che molti pazienti si riducono a fare i loro bisogni sul posto. Questa risposta del pazien­te ad una regola disumana, viene interpretata come un «dispetto» nei confronti del personale curante, o come espressione del livello di incontinenza del malato, stret­tamente dipendente dalla malattia» (p. 113).

A questa scena fanno seguito altre, che denunciano la violenza istituzionale nella scuola, nell'asilo, nell'ospedale civile, nella famiglia, nel carcere, e ancora nell'ospedale psichiatrico. E’ quindi in atto la denuncia della violenza dell'istituzione, in diversi contesti. E la necessità di combatterla; non sono riuscite a farlo né la psicoanalisi né la fenomenologia che, piuttosto che metterla in discussione, hanno scelto di ricavarsi nicchie al suo interno.
L’ospedale psichiatrico del Novecento nasce da un prevalere della custodia sulla cura del quale la legge 36 era dimostrazione[i]; e allora ci si chiede, «in che modo il medico può conciliare queste due esigenze, in sé contraddittore, finché la società non chiarirà verso qual dei due poli vuole orientare l'assistenza psichiatrica» (p. 136). I soprusi che lo caratterizzano nascono dalla particolare debolezza contrattuale di questo malato rispetto all’istituzione: «Il malato mentale è un escluso che, in una società come l'attuale, non potrà mai opporsi a chi lo esclude, perché ogni suo atto è ormai circoscritto e definito nella malattia» (p. 137)[ii]. Né la chiusura dell’ospedale psichiatrico risolverebbe il problema; anche fuori di esso – Basaglia pare profetizzare – il malato non cesserà di essere oggetto di nuove forme di oggettivazione da parte del medico (p. 140) perché «il pericolo, nel momento attuale, è che si voglia risolvere il problema del malato mentale attraverso un perfezionamento tecnico… In questo caso lo psichiatra non farebbe che perpetuare, in organizzazioni attrezzatissime e modernamente edificate o in concettualizzazioni perfettamente logiche, un rapporto che definirei metallico, da strumento a strumento, dove la reciprocità continuerebbe a venire sistematicamente negata» (p. 144).
Oggi potremmo dire che, certo, è utile allineare le tecniche all’EBM dell’ultimo grido, iniziare il più precocemente possibile i trattamenti. Ma tutto questo non basta e non serve a fare sì che l’altro ritrovi quella soggettività, quel sentimento della propria dignità, quella fiducia in se stesso, quell’empowerment nel senso di presa di potere dentro e fuori la relazione di cura ai quali solo la deistituzionalizzazione – la messa in discussione cioè di se stessa da parte dell’istituzione e la sua rinuncia al massimo possibile all’esercizio del potere – può aprire la possibilità.
E qui sta il ruolo che alla terapia farmacologica viene attribuito nell’esperienza goriziana, a partire dalla constatazione che essa:
 
«ha dato ovun­que risultati sorprendenti e sconcertanti insieme. I farma­ci hanno un'indubbia azione di cui si sono visti i risultati nei nostri asili e nella riduzione del numero dei malati «as­sociati» all'ospedale». Ma anche dalla consapevolezza che «agisco­no contemporaneamente sull'ansia malata, come sull’ansia di chi la cura, evidenziando un quadro paradossale della situazione: il medico seda, attraverso i farmaci che som­ministra, la sua ansia di fronte ad un malato con cui non sa rapportarsi, né trovare un linguaggio comune. Com­pensa, dunque, in una nuova forma di violenza, la sua incapacità a maneggiare una situazione che giudica anco­ra come incomprensibile, continuando ad applicare l'ideo­logia medica dell'oggettivazione, attraverso un perfezio­nismo della stessa. Attraverso l'azione « sedativa » dei farmaci il malato resta tuttora fissato nel ruolo passivo di malato. La positività della situazione che viene a crearsi, è data soltanto da un'apertura al rapporto che ora si rive­la possibile, anche se questa possibilità è subordinata al giudizio soggettivo del medico che può sentirne o non sentirne la necessità. D'altra parte i farmaci agiscono sul malato attenuando la percezione della distanza reale che lo separa dall'altro; il che gli fa presumere una possibilità di rapporto, altrimenti negatagli». Di qui un approccio complesso, tutt’altro che ideologico, all’uso dei farmaci che può essere utile ma non è indispensabile, tanto che «nel 1839 – prima dell'era farmacologica – Conolly sia riuscito a creare una comunità psichiatrica completamente libera e aperta, testimonia quanto si va qui affermando. L'azione dei farmaci ha reso evidente ciò che noi medici non avevamo intuito, più preoccupati della malattia come concetto astratto, che del malato reale. A ben esaminarla, essa suona come una sfida al medico e al suo scetticismo, oltre la quale c'è la possibilità di iniziare un discorso successivo che può comprendere e non compren­dere l'azione dei farmaci» (pp.146-147)[iii].
 
Un’altra questione ancora: la favola del serpente, già narrata da Basaglia l’anno precedente a Genova in Corpo e istituzione[iv], diventa ora non più solo metafora della condizione manicomiale, ma della vita di chiunque nella società; la saldatura tra movimento antiistituzionale e contestazione – attraverso l'equazione tra spoliazione asilare e alienazione nella società capitalistica – ha dunque avuto luogo perché: «l’incontro con il malato mentale ci ha dimostrato  che – in questa società – siamo tutti schiavi del serpente e che qualora non tentiamo di distruggerlo o di vomitarlo, non ci sarà più un tempo per riconquistare il contenuto umano della nostra vita» (p. 159).
Segue, a questo primo capitolo di generale inquadramento, quello di Lucio Schittar L'ideologia della comunità terapeutica, che ripercorre la storia della comunità terapeutica – offrendo tra l'altro una ricchissima bibliografia –  e ripropone le critiche delle quali questo modello era oggetto negli scritti basagliani di quegli anni. Conclude il capitolo un'interessantissima riunione tra lui stesso, Slavich, Jervis, Pirella e Basaglia sul punto centrale in tutto il volume, al quale ripetutamente si ritorna: la contraddizione tra la democratizzazione come esigenza della comunità per essere tale, e il fatto che il ruolo di chi cura e di chi è curato sono comunque distinti, il che si porta poi dietro i problemi dell'autorità, delle regole, del potere. Nella conclusione di Basaglia, poi, si coglie quella che era evidentemente una sua esigenza in quel momento e che segna la novità che questo libro rappresenta nella vicenda goriziana: essere dentro l’ospedale ma guardare ormai fuori, passare dalla contestazione nel/dell'ospedale psichiatrico, a quella della società della quale il folle, restituitole, rivela le contraddizioni. Ed è lo stesso ruolo storico che oggi, mi pare, ha il migrante: quell’essere “di troppo” di cui oltre proprio Basaglia parla a proposito del malato dimesso (p. 368), e rivelare perciò l’essere – della società – non per tutti, fondata su indispensabili processi di esclusione. Il muro dell’ospedale psichiatrico, il confine.
Spetta ad Antonio Slavich, che per primo aveva raggiunto Basaglia a Gorizia, riprendere con il capitolo successivo, Mito e realtà dell'autogoverno, la questione del potere – cioè ancora della praticabilità e i limiti di quella democratizzazione che è alla base del modello comunitario, ripercorrendo la storia della negazione istituzionale nell'esperimento goriziano. Così la sua ricostruzione – seguendo uno schema che, avendolo incontrato 15 anni dopo di persona , ho sempre avvertito sostanzialmente “leninista” – dell'inizio di quella pratica antiistituzionale portata faticosamente avanti, giorno per giorno:
 
«Alla fine del 1961 un nuovo direttore, seguito poco dopo da un altro medico, iniziavano il loro lavoro nell'ospedale; il loro rifiuto del semplice mandato di conservazione dell'istituto e di ordinata gestione formale della delega per l'esclusione sociale del malato mentale, ha prodotto una brusca frattura della solidarietà funzionale fra un parte dei medici (fra i quali, però, il vertice gerarchico rappresentato dal direttore) e il rimanente personale curante e di assistenza. Conseguenza di questa rottura della solidarietà era una interruzione della catena delle deleghe del potere istituzionale: esso veniva assunto e gestito in proprio da una parte dei medici, che si costituivano come avanguardia nel nome di una negazione della struttura asilare, delle sue norme condizionanti, e della istituzionalizzazione connessa» (p. 187)[v].

Al centro dell'esperimento è senz'altro l'assemblea, il luogo concreto dove l'autogoverno comunitario si gioca; e dove mostra anche i suoi limiti – che il gruppo goriziano illumina con rara onestà – perché se ci sono gruppi di decisioni (decisioni amministrative interne e decisioni riguardanti modalità di convivenza e attività dentro all'ospedale) sui quali è facile consentire che a riprendersi lo scettro sia il gruppo, ve ne sono altri – forse i più importanti – sui quali l'istituzione non può che mantenere un più o meno esplicito diritto all’ultima parola (dimissioni, trasferimenti, permessi; nell’insieme quindi decisioni "tecniche" inerenti le scelte terapeutiche, per valutare le quali il malato non dispone delle informazioni necessarie).
Insomma, parrebbe che l'autogoverno della comunità possa essere realtà sempre solo fino a un certo punto, oltre il quale si trasforma in un mito ed è necessario interrompere il "gioco" comunitario. L’autorità, comunque latente, è costretta a venire alla luce o nella forma della repressione, o in quella della persuasione; il che non cambia la sostanza.
E sono, questi, problemi che chiunque abbia lavorato in un centro diurno o una comunità ha ben presenti. Certo, si potrebbe osservare che, comunque, anche il fatto di mettere nelle mani del gruppo alcune decisioni, sia pure le meno importanti, è comunque un passo avanti sulla strada del restituire potere, dignità, responsabilità. Poter partecipare a decidere se il prossimo soggiorno si svolgerà a Firenze o a Venezia è comunque diverso che sentirsi recapitati in una delle due città da parte dello staff che si è limitato a discuterne al suo interno, come pacchi postali, come questuanti ai quali è “concesso” dall’alto qualcosa. E già ricordarsi sempre la riconsegna di questi piccoli poteri al gruppo, coglierne l’importanza, a volte nella routine non è facile; non parliamo poi dei reparti ospedalieri, dove ad accentuare l’oggettivazione concorre anche il modello medico…
Ma Gorizia pensa in grande, e si pone i problemi in modo radicale. Se si parla di democratizzazione, democrazia dev’essere, senza angoli bui e senza possibili eccezioni; e mi vengono in mente, a proposito di quello che dev’essere stato lo stato d’animo dell’équipe in quel momento rispetto ai limiti della realtà dell’autogoverno nei quali ci si stava imbattendo, i versi di una canzone con la quale Nanni Svampa sfotte la “partecipazione” offerta dai decreti delegati della scuola: «così finalmente amministriamo con successo / quattro matite e la carta per il cesso». Sono questi indubbiamente i temi che tormentano in quel momento Basaglia e i suoi, che li mantengono in tensione, che li rendono consapevoli che Gorizia non possa essere comunque – a dispetto del titolo di questo libro – un'istituzione negata, ma sempre solo semmai un'istituzione che si sforza di negarsi, nella quale la contraddizione tra partecipazione e leadership che è intrinseca nel modello comunitario è destinata a farsi esplicita, ed è già un passo avanti, ma a rimanere irrimediabilmente rimanere aperta. Dove si può certo promuovere fino al massimo punto di tensione la partecipazione; non si può mai autenticamente consegnare fino in fondo la responsabilità, alla partecipazione.
L'esperimento di Gorizia, Slavich conclude dunque, non può sfuggire a questa "contraddizione fondamentale" se non aprendone una più grande, nella quale è l'istituzione nel suo insieme – staff e malati, questi ultimi per la limitata quota di potere della quale è dato loro appropriarsi – a contrapporsi al contesto sociale nel negare il ruolo che esso le assegna: quello di escludere. E a sottrarsi al contempo al rischio di esprimere un'istituzione dal volto nuovo, e dalle immutate finalità. La scoperta di questa seconda contraddizione, più grande, più generale, è quella che questo volume documenta e segna il passaggio del gruppo goriziano in quel 1968. L’équipe è ancora dentro l’ospedale psichiatrico, e vi ritornerà negli anni successivi, ma sta già ragionando oltre l’ospedale psichiatrico.
E non è questo di cui parla Slavich, infondo, il rischio con il quale quotidianamente si misura la nuova psichiatria dei servizi, ogni volta che un parente, condomino, amministratore di sostegno, magistrato ci chiedono di risolvere il problema che un malato pone escludendolo, chiudendolo, magari a lungo, magari lontano? Certo, non manicomializzandolo; ma chiudendolo in modo più rassicurante per tutti in luoghi più civili, garbati, dal volto moderno e ridente, ma destinati a rispondere allo stesso mandato. Quello di rinunciare ad aprire o tenere aperte nel gruppo contraddizioni, tensioni, crisi, quella crisi che “è” la follia, tenendola separata, nascosta, esclusa.   
Agostino Pirella introduce il capitolo successivo, La negazione dell'ospedale psichiatrico tradizionale, con un tema che mi è particolarmente caro, quello dell'uso strumentale della diagnosi psichiatrica nella denigrazione del nemico, che era allora usata contro i leader della Cina maoista e, in anni molto più recenti, è stato usato contro leader più modesti ma altrettanto nemici, da Gheddafi a Saddam tanto per fermarmi ai più celebri. Nelle parole di Pirella, tacciare di paranoia i leader cinesi scotomizzando la reale minaccia militare che incombeva su loro da parte degli USA, equivaleva ad analizzare la condizione del ricoverato in manicomio scotomizzando la condizione di violenza ed esclusione, l'autorità e le norme delle quali era oggetto, la condizione di reclusione alla quale anche la sua ritrovata libertà all'interno non cessava di vincolarlo.
Molti sono poi i temi che Pirella affronta: la situazione del malato, il rapporto medico-infermiere, il significato del trasferimento dai reparti aperti a quelli chiusi, l'incontro tra i brevi-degenti e i lungo-degenti con un maggior grado di regressione, di istituzionalizzazione, i loro maggiori bisogni (anche economici). Sono problemi di convivenza tra gruppi di pazienti, che non sono mai tutti uguali, che esplodono a Gorizia nel momento che le artificiose ripartizioni nell'ospedale cadono e che ritroviamo oggi pari pari, infondo, nei nostri reparti e nelle nostre strutture  
Ma ci sono anche altri problemi che, apertisi in quel momento, rimangono attuali. Ché fare, chiuso l'ospedale psichiatrico tradizionale, del modello dell'ospedale in sé e dell'utilizzo dei farmaci, con gli aspetti di potere che l'accompagnano e gli inevitabili effetti indesiderati? La questione, della quale si era già occupato Basaglia come abbiam visto, è di nuovo affrontata in tutti i suoi aspetti contraddittori in due pagine di rara chiarezza per poi concludere che: «rinunciare alle responsabilità non sembra un’accettabile alternativa alla modalità oppressiva di rapporto» (p. 223). Col che, ogni facile via di fuga dal problema pare sbarrata e siamo tutti condannati a stare, anche a questo riguardo, dentro la contraddizione.
Si sperimenta insomma a Gorizia, e si discute: di nuovo lo stralcio di una assemblea, e poi ancora contraddizioni aperte, e soluzioni mai individuate una volta per tutte.
Tocca quindi a Letizia Jervis Comba raccontare del C donne. L'ultimo reparto chiuso, e della sua graduale apertura. Di come si sia giunti al fatto che fosse l'ultimo, e di come la presenza di un reparto chiuso gravi comunque come  minaccia, ricatto, punizione sugli altri impedendo loro di essere autenticamente aperti. Ed è, infondo, oggi il tema del TSO, che riguarda pochi soggetti ma grava come minaccia su chiunque.
E poi riflettere sulla natura di classe dell'assistenza medica nell'Italia di quegli anni, prima della creazione del SSN, alla quale anche la psichiatria non sfuggiva, e sui problemi specifici del ricovero in ospedale psichiatrico della donna.
Un medico anonimo, intervistato in apertura del capitolo, racconta come sono state eliminate a Gorizia le contenzioni: «si sono subito eliminati tutti i corpetti, e dopo poco anche i letti di contenzione. I letti a rete sono durati ancora un anno, mi pare, e poi non erano più per le agitate, quanto per le epilettiche o per le vecchiette che si alzavano continuamente dal letto» (p. 232). Gradualmente, dunque, sono state eliminate le contenzioni a Gorizia, come ovunque sia stato tentato; perché neppure Basaglia era in grado di modificare le cose con uno schioccar di dita[vi]. Gradualmente, con discussioni e battute d'arresto quando occorre, ma assumendo fermamente quell'obiettivo. Gradualmente, passando dalle più violente (il blocco fisico del corpo al letto), a quelle magari più brutte a vedersi ma fiicamente meno gravose (il letto-gabbia o l’isolamento).
Poi, in riunione Slavich, Jervis, Pirella e Basaglia discutono della tattica da adottare per aprire le porte anche al C donne; di quanto la spinta all'apertura possa venire da fuori, dai reparti già aperti, e quanto debba invece essere una parte almeno del personale del C donne a partecipare alla scelta. Chiarezza degli obiettivi, insomma: eliminare le contenzione, aprire le porte. Quanto invece alla strategia e la tattica per conseguirli, si tratta di riflettere insieme, volta per volta, stare nell’ansia perché non c’è un “modello” per deistituzionalizzare; e Basaglia è chiarissimo al riguardo:
 
«In questo momento importantissimo per il rovesciamento della situazione istituzionale e tradizionale l'ansia è la condizione per lavorare. Per esempio quelle tre assistenti sanitarie che sono venute qua a fare tirocinio, dopo un primo mese non avevano il coraggio di andare a prendere i soldi del mese perché si sentivano in colpa. Erano state in ansia un mese e non avevano capito che la loro ansia doveva venir pagata. Nel nostro lavoro di comunità il nostro ruolo non lo troviamo mai, ricorriamo al fantasma del ruolo, perché cerchiamo la norma, e la norma che rifiutiamo sempre; ma a stare in ansia si sta male. Cioè il momento di negazione che continuiamo a rincorrere forse è l'elemento de­terminante del nostro lavoro comunitario» (p. 266).
 
Poi è Domenico Casagrande a riferire di Una contraddizione istituzionale: il reparto alcoolisti, di come anche il reparto dedicato agli alcolisti si sia trasformato nel trasformarsi dell'ospedale, delle difficoltà a tenere insieme i problemi legati all'alcoolismo con gli altri disturbi mentali. E sono infondo, in nuce, un po' gli stessi problemi che abbiamo oggi nel rapporto tra il DSM e il SerT, le ragioni per farne un unico servizio, quelle per mantenere due servizi separati, e i rischi a volte di dare vita a ibridi dove all'unità formale dei servizi corrisponde la loro separazione sostanziale.
Prosegue Giovanni Jervis con il capitolo Crisi della psichiatria e contraddizioni istituzionali nel quale a colpire, tra tante questioni interessanti, è come già allora fosse difficile definire stabilmente le dimensioni che la delega della società alla psichiatria può assumere; perché con la crescita di prestigio e di potere nel corso dell’800: «gli psichiatri hanno ricevuto dal potere un più vasto appalto e la malattia mentale è stata reinterpretata come disfunzionalità psicologica di tutti i rapporti sociali. La psichiatria si è dunque consegnata da se stessa, legata mani e piedi, ai custodi dell'ordine societario, responsabili di definire norme, devianze e sanzioni secondo i loro criteri» (p. 310)[vii].
Un altro spunto, tra tanti degni di nota, mi pare questo che riprende la questione centrale del libro, la capacità di lasciarsi negare dell’istituzione, e la relazione tra esercizio del potere/riconsegna del potere: «Il ruolo antiistituzionale del medico somiglia a quello di un pedagogo "attivo" che educa alla libertà con la speranza che i suoi allievi giungano a contestargli il suo stesso ruolo pedagogico» (p. 317). E siamo davvero pronti a lavorare perché l’altro impari non tanto a ringraziarci, ma a contestarci?
Nel capitolo Rovesciamento istituzionale e finalità comune Franca Ongaro Basaglia porta vari esempi delle questioni pratiche che Gorizia si trova in quel momento ad affrontare: evitare il ricorso all'autorità, d'accordo, ma come affrontare il fatto che un cerebropatico disturba l'assemblea, una partecipante infastidita si allontana e tutto il gruppo va incontro a una regressione? Come regolare l'uso della birra, in particolare per gli alcoolisti, ma non solo? O, potremmo dire, l'uso delle sigarette, in una situazione nella quale chiunque può usarne in modo compulsivo, rimanerne privo, ribellarsi a questa condizione? Sono questioni che si aprono allora, nel momento nel quale a Gorizia le porte si aprono, e rimangono aperti.
L'ultimo capitolo, poi, è l'intervista al sociologo Gian Antonio Gilli: Una intervista: la negazione sociologica. E in esso, quasi a fare da rispecchiamento alla crisi dell'istituzione psichiatrica è la crisi della sociologia ad essere in scena.
Seguono due appendici, entrambe importanti. Alla prima, Il problema dell'incidente, scritta da Franco e Franca Basaglia il 28 marzo 1968, abbiamo già avuto occasione di rifarci l'anno scorso per un articolo su Psicoterapia e scienze umane, al quale è seguita una certa discussione[viii]. L'incidente è l'imprevisto nel quale la psichiatria, qualsiasi psichiatria, in qualsiasi momento può inciampare. Tutta la psichiatria del manicomio infondo si è sviluppata intorno al problema dell'incidente, allo sforzo di fare tutto il possibile per evitare che l'incidente avesse luogo (senza, peraltro, riuscire ad escluderlo in senso assoluto, ovviamente). Per questo sono stati eretti i muri, le reti, sono state poste le sbarre alle finestre e inventate camicie di forza e altri strumenti della contenzione. Ma allora nell'istituzione aperta, negata, cosa ne è dell’incidente? Perché il problema certo non si risolve magicamente, anzi nel momento nel quale si rinuncia a tutto quello strumentario, è lecito attendersi che divenga di più difficile gestione.
Per questo alla sorveglianza, intorno alla quale l’istituzione chiusa si era costruita, l'istituzione aperta sostituisce il sostegno; cioè a dire il fatto che: «è necessario che tutta l'istituzione (cioè i diversi ruoli che la compongono) sia interamente coinvolta e presente in ogni momento e in ogni atto, come sostegno materiale e psicologico del malato (…). In questo contesto l'incidente non è più il tragico risultato di una mancata sorveglianza, ma di un mancato sostegno da parte dell'istituto» (pp. 366-367).
Ed è uno spostamento che, come mi sono sforzato di dimostrare in quell’occasione, non è soltanto chiamare con un nome più “aperto” lo stesso concetto, ma sostituire ad un concetto un altro che – pur rispondendo infondo alla stessa esigenza, evitare l’incidente – lo fa coinvolgendo anziché escludendo; e guardando in avanti invece che indietro.
Quanto alla seconda appendice, Il problema della gestione, firmata dal solo Franco Basaglia, affronta il problema di come gestire una situazione nella quale: «l'istituzione è contemporaneamente negata e gestita, la malattia è contemporaneamente messa tra parentesi e curata, l'atto terapeutico viene contemporaneamente rifiutato e agito» (p. 373). Che dovrebbe, credo, essere quella che caratterizza ogni istituzione della nuova psichiatria che non voglia essere pietrificata e pietrificante.
Ma i tempi sono, evidentemente, maturi per un gesto di rottura, per spingere lo sguardo oltre l’ospedale comunitario, e cercare di portare le contraddizioni messe in luce in quel contesto chiuso a esplodere nella società. Nella lettera con la quale Frantz Fanon lasciava il manicomio di Blida nel 1956 per il rifiuto di esercitare la psichiatria all'interno e al servizio del sistema coloniale algerino e la scelta della rivoluzione, Basaglia trova così la metafora del suo addio all’ospedale psichiatrico che, realisticamente, non sarà in questo caso aderire a una rivoluzione – va peraltro ricordato che allora sarebbe parso molto meno irrealistico di oggi ipotizzarlo – ma «continuare a vivere le contraddizioni del sistema che ci determina, gestendo un'istituzione che neghiamo, facendo un atto terapeutico che rifiutiamo, negando che la nostra istituzione (…) continui a essere solo funzionale al sistema; tentando di resistere alle lusinghe delle sempre nuove ideologie scientifiche in cui si tende a soffocare le contraddizioni» (p. 380).
Non basta. Nelle ultime righe di quest’appendice Basaglia si mostra ben consapevole che, vinto il mostro dell’ospedale psichiatrico, già si profila l’ombra di un altro mostro che sarà più difficile affrontare. Che oltre i muri – nemici ma circoscritti e infondo anche in qualche modo rassicuranti – dell’ospedale, la deistituzionalizzazione è attesa da «una scommessa assurda nel voler fare esistere dei valori mentre il non-diritto, l'ineguaglianza, la morte quotidiana dell'uomo sono eretti a principi legislativiۛ» (p. 380).
E’ la contraddizione evidente tra l'esperienza di Gorizia con ciò che da cinquant’anni le è seguito, da una parte; e l'insieme della società italiana e globale, con l’involuzione alla quale è andata incontro, dall’altra. All’una che già allora chiedeva apertura, accoglienza; l’altra opponeva chiusura, diffidenza, egoismo. La forbice di questa contraddizione è andata in questi 50 anni allargandosi.
E ciò che era vero allora – quando pure i muri del ’68 inneggiavano alla libertà e alla giustizia sociale – lo è di più oggi, quando (concordo con quanto ha scritto Marco Revelli in un recente articolo), abbiamo visto tanto sulla scena globale che su quella italiana l’affermarsi prima nella cultura e poi nel voto politico – senza più necessità di ipocrisie né infingimenti – della cattiveria come valore.
E in questa scommessa che già Basaglia avvertiva assurda inevitabilmente consiste, io credo, il nostro lavoro oggi; dopo che l’esperimento che viene descritto in questo testo fondante lo ha rovesciato in modo tanto radicale e profondo.
 
Nel video allegato "La pazzia", tratto dall'LP "Marilyn"  dell'Assemblea Musicale Teatrale (1977).
 

 

[i] Sulla relazione tra custodia e cura nella legge 36 del 1904, cfr. il contributo personale P.F. Peloso, Prima di tutto custodire. La psichiatria secondo la legge 36 del 1904, in: A. Arata, Cento… ottanta. Psichiatria tra storia e memoria di un ottuagenario. Seconda edizione arricchita con il contributo di psichiatri protagonisti, Boves (CN), Araba fenice, II ed., 2017, pp. 349-381.
[ii] Sono parole che mi richiamano alla mente quanto scriveva il ginecologo e consigliere provinciale socialista Luigi Maria Bossi affermava durante un’ispezione al manicomio di Quarto, a Genova, nel 1911: «In Istituti di questa natura – dice l’oratore – è cosa di massima importanza che la vita si svolga nella perfetta armonia di tutti gli ordini del personale. Si tratta di ambienti di delicatezza estrema. Si debbono nel Manicomio curare e tutelare uomini e donne che non possono tutelarsi da sé e nemmeno possono testimoniare del modo che sono trattati. In un ambiente di altra natura, pur funzionando male i servizi, l’infermo può reagire o quanto meno denunciare le manchevolezze. Il pazzo invece non è cosciente e non ha facoltà di testimonianza» (cit. in E. Maura e P.F. Peloso, Lo splendore della ragione. Storia della psichiatria ligure nell’epoca del positivismo, Genova, La clessidra, 1999, p. 278).
[iii] Sull’utilizzo dei farmaci e la loro introduzione a Gorizia da parte di Basaglia cfr. il recente: A. Slavich, All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961, Merano, Alphabeta, 2018, p. 76.  
[iv] La favola è ripresa già da Basaglia durante la conferenza tenuta l’anno precedente a Genova; cfr. in questa rubrica: P.F. Peloso, 50 anni di “Corpo e istituzione”, in particolare Parte II: Il corpo e il serpente, POL. it, 27 marzo 2017 (clicca qui per il link).
[v] Sui primi anni di Basaglia a Gorizia ricordo ancora il recente fondamentale testo di Antonio Slavich (vedi n. 3) a proposito del quale rimando alla recensione pubblicata in questa rubrica: P.F. Peloso, Gorizia 1961. Con Antonio Slavich, là dove tutto ebbe inizio (clicca qui per il link).
[vi] Così, in effetti, è stato anche nell’esperienza che Giovanna Del Giudice descrive nell’SPDC di Cagliari in un volume appassionato e affascinante (G. Del Giudice, E tu slegalo subito…, Merano, Alphabeta, 2015).
[vii] A proposito di diverse idee in merito al problema del riferimento o meno al TSO di un recente tragico fatto di cronaca genovese, rimando al dibattito personale su POL. it con l’amico Emilio Robotti (clicca qui per il link), nonché a un contributo personale pubblicato – insieme ad altri di altrettanto interesse (Miccio, De Carolis, Cipriano, Gagliardi) – sul sito del Forum per la Salute Mentale (clicca qui per il link).
[viii] Rimando in proposito a P.F. Peloso, Dalla sorveglianza al sostegno. Note su pericolosità e controllo in psichiatria, Psicoterapia e scienze umane, LI, 2, 2017, pp. 285-296 e ai relativi commenti di Andrea Angelozzi ed Euro Pozzi, nonché alla replica: P.F. Peloso, Alcuni chiarimenti a proposito di pericolosità e controllo in psichiatria, Psicoterapia e scienze umane, LI, 3, 2017, pp. 447-451.
 

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