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Andiamo sotto la volta azzurra?

17 Giu 17

A cura di Annalisa Piergallini

Sebastiano aveva quasi 12 anni e arrivò due giorni dopo che avevo iniziato a lavorare in un’Istituzione per bambini psicotici e nevrotici gravi.[1] Passava gran parte del tempo a tirarsi la sabbia in faccia, a buttarsi a terra, rompeva vetri e oggetti vari, andava in giro nudo, si toccava il pisello, si picchiava, dava calci e testate. Il primo contatto con lui è andato più o meno così. Lui gridava, si disperava steso a terra tirando calci a chi si avvicinava, poi si è alzato e mi è venuto vicino chiedendomi dolcemente:
Quando viene il mio papà?
Mi ha messo le braccia intorno al collo, ha accennato una carezza e… zac! Una testata fortissima!
Sebastiano ripeteva continuamente la stessa domanda: “Quando viene il mio papà?” La ripeteva come una cantilena, oppure parlava con voce grave e tonalità decisa:
– Sebastiano ti ammazzo!
Non devi scappare più!
Dov’è la stampella?
Sebastiano sei proprio pazzo!
Sebastiano sembrava ripetere le frasi che deve avergli gridato contro il padre. Prima di arrivare nell’istituzione, Sebastiano viveva con suo padre che lo picchiava, anche quotidianamente, come veniva confermato da diverse denunce, tra cui quella per avere picchiato il figlio in un supermercato, per averlo tenuto chiuso in automobile per 8-10 ore durante una corsa di ciclismo, per averlo buttato dal secondo piano…
La madre, immagine della donna oggetto, sexy e fragile, aveva avuto da un altro matrimonio una figlia, si era poi separata e aveva avuto una relazione e una convivenza burrascose con l’uomo con cui aveva concepito Sebastiano. La loro unione era stata costellata di liti, scenate anche tra l’uomo e sua madre, rigida e religiosa. I servizi si erano occupati piuttosto presto della famiglia, Sebastiano era stato istituzionalizzato (con diagnosi di schizofrenia grave) più volte e piuttosto precocemente, anche se la sua situazione era peggiorata da quando la madre aveva lasciato la casa e viveva con un altro uomo. Gli istituti che avevano precedentemente ospitato e seguito il bambino non erano stati in grado di accoglierlo che per periodi brevi, che non erano andati oltre i due mesi.
Al momento dell’arrivo all’Antenne 112, la patria potestà non era stata tolta al padre, anche se il giudice aveva deciso per il ricovero senza l’autorizzazione del padre. Forse non è neanche semplice la posizione di un giudice che abbia di fronte una serie di comunità che non reggono il bambino per più di due mesi e una serie di denunce contro il padre; la madre d’altra parte aveva paura anche di restare sola per qualche minuto col figlio.
Nei rari momenti dei primi giorni in cui Sebastiano si tranquillizzava, chiedeva di fare il bagnetto, che sembra facesse molto spesso quando viveva con la madre. Chiedeva:
– Mi fai il bagnetto?
Oppure voleva mangiare, soprattutto latte con quintali di cacao. Andava continuamente in bagno, spesso dicendo:
– Mi scappa la pipì!?
L’intonazione sempre un po’ interrogativa e un po’ no, musicale. Più spesso se la faceva addosso o a terra. Inoltre s’infilava in bocca di tutto, sabbia, acqua, schiuma…
 
Quando ero con lui sgridavo, o tentavo di sgridare questo Altro[2] che sembrava tormentarlo, che lo faceva picchiare, rompere, distruggere tutto e mangiare sapone. Nonostante Sebastiano sembrasse spesso incontenibile, soprattutto all’inizio, di solito sembrava contento di assistere a queste grandi scenate grottesche ai danni di muri, vestiti, sabbia, schiuma… Si calmava improvvisamente e sorrideva guardandomi di sbieco.
Un giorno lui continuava a divertirsi di queste sgridate, mentre era nella vasca continuava a mettersi appena un po’ di schiuma in bocca (all’inizio beveva il bagnoschiuma direttamente dalla confezione!). Io urlavo alla schiuma di non permettersi di entrare nella bocca di Sebastiano e lui rideva ripetendo il mio gesto di lanciare la schiuma contro le mattonelle. Dopo una serie di ripetizioni ero un po’ stanca e mi sono seduta sulla tazza del bagno, lui si è rimesso la schiuma in bocca e io… ehm… ho fatto finta di non vedere, allora lui mi ha sbirciata con la coda dell’occhio, io continuavo a fare la vaga, si è voltato verso di me con le bollicine sulle labbra e mi ha detto:
– Guarda!
Ero stupita, era la prima volta che mi si rivolgeva, (senza chiedere: “Quando viene il mio papà?”) sono stata costretta a rialzarmi e a sgridare ancora questa schiuma dispettosa. Quando è arrivata Rossella, un’altra operatrice[3], Sebastiano ha detto:
– Voglio sognare che vomito per terra e qualcuno mi dà una botta fortissima.
Poi, in cucina, dopo che avevo sgridato un oggetto a cui aveva tirato un calcio, mi ha passato una presina e si divertiva mentre le urlavo.
A rotazione uno di noi educatori doveva restare, da solo, in comunità. Io ero l’ultima arrivata e naturalmente mi beccai il turno peggiore, quello della domenica, che era sempre un caos, perché i bambini tornavano dal week-end in famiglia. Non nel caso di Sebastiano, che restava sempre lì, per via delle pendenze giudiziarie che gravavano sul padre.
Durante la mia prima notte si è svegliato alle 3, ma dopo dieci minuti, è tornato a letto. La mattina all’alba si è svegliato nel panico, aveva fatto la pipì per terra come sempre e urlava.
– Dio porco, Sebastiano sei proprio pazzo!
Allora ho iniziato a sgridare anche queste parole.
Alcuni giorni dopo, mentre era nella vasca, si divertiva a ripetere queste frasi minacciose e ad ascoltare le mie urla. Ricominciava:
– Dio porco…
– Dio e Porco tutti e due fuori!!
Allora sorridendo mi ha detto:
– Dio cane!
– Anche i cani adesso, fuori di qui!
Allora lui, sempre sorridendo, dolcemente:
– Puttana.
E sono uscita.
Questo è stato il nostro primo dialogo!
Presto avrebbe iniziato a dire “stai di là te!?” quando voleva restare solo in una stanza.[4]
 
Dopo un po’ di tempo Sebastiano ha iniziato a dire:
– E’ il mio papà che mi dà le botte.
Un giorno, mentre andava distruggendo tutto, ma con meno fervore dei primi tempi, gli ho dato in mano gli acquerelli e l’acqua. Ha fatto un bel disegno astratto su un cartoncino, poi ha continuato le sue scenate.
Ho dato tanta importanza a quel disegno, l’ho lodato e l’ho messo in bella vista. Lui semplicemente se ne è fregato! Eppure un paio di giorni dopo lo ha preso in mano senza romperlo mentre si disperava, allora gli ho chiesto:
– Dov’è il disegno di Sebastiano?
– Eccolo!
Mi ha risposto mostrandomelo. Nello stesso giorno mi ha detto:
– Adesso scrivo.
E si è messo seduto tracciando delle A/H in serie, che sembravano delle grida:
 
AHHHHHHAHHHHHHHHHHHHHHHHAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH
Sempre lo stesso giorno mi ha chiesto:
– Da grande picchio i bambini?
E poco dopo mi si è avvicinato e guardandomi negli occhi mi ha detto:
– Sono il pensiero di Gesù
non sono ancora nato
il mio papà è piccolo, è a scuola

Viene il papà piccolo?
La mamma gli diceva spesso: “Come sei bello, sembri Gesù bambino!”[5]
Lo stesso giorno l’ho visto per la prima volta tranquillo giocare a pallone in cortile; lanciava dei calci forti e decisi al pallone e mi urlava:
– Sono bravo?…
Sono bravissimo?…
Guarda, maestra, sono bravo?
 
Le sue domande col tempo diventavano più varie, non chiedeva più soloQuando viene il mio papà?” ma …
– Che ora è? / Siamo a ottobre adesso? / Quanti giorni ho dormito qui? / Sta male il mio papà? / E’ a casa?
Lo conosci il mio papà?
– No.
– Ha gli occhiali arancioni il mio papà che a me mi piacciono.
Chiedeva spesso l’età, ma solo agli uomini. Più tardi ha iniziato a domandare:
– Quando porto la macchina? / Quando vengono diciotto anni? / Quando ho 18 anni, dove sto?…
Che lavoro faccio da grande?
– Che lavoro vuoi fare?
– Muratore… i telai.
Dopo circa una settimana che stava all’Antenna, Sebastiano aveva cominciato a raccontare e alcune di quelle frasi persecutorie potevano sembrare più chiare, un giorno ha detto:
– Il mio papà me ne dà tante con le stampelle,
poi ha aggiunto con voce grave:
– Non scappare più capito?
– Chi è scappato?
– Io sono scappato dalla banca/
sono scappato in piazza Verdi/
il mio papà mi ha dato le botte/
Sebastiano sembrava utilizzare gli operatori per pacificarsi; sempre più raramente si faceva del male, molto spesso accennava a tirarsi la sabbia in faccia oppure chiedeva:
– Mangio la schiumetta?
– Sebastiano può anche non mangiare la schiumetta.
Se accennava a buttarsi a terra:
– Sebastiano può benissimo stare in piedi se vuole.
Un giorno mi ha detto:
– Mi sono tirato la sabbia in faccia, ma nel mio pensiero.
Ecco una sostituzione, invece di farlo lo dice, il dire, il mettere in parole, sostituisce il fare, il passare all’atto. Qualcosa del genere era già successo, “voglio sognare che vomito per terra e qualcuno mi dà una botta fortissima”, aveva detto a Rossella, forse allora più una dichiarazione d’intenti che una conquista.
Dopo la prima visita del padre mi ha chiesto:
– Quando viene il mio papà?
– Sebastiano lo sa quando viene il suo papà.
– Venerdì?
– Sì, venerdì.
– Quando viene venerdì il mio papà mi porta a casa?
– No, viene solo a trovarti.
– Parla con me?
– Sì, parla con te, poi va via e tornerà a trovarti.
Sembrava soddisfatto e si è rimesso a giocare a pallone, ancora rigorosamente da solo.
 
Dunque, riassumendo le puntate precedenti, da quando era arrivato all’Antenna, Sebastiano sembrava avere continuato a lavorare per distanziarsi dal godimento dell’Altro. Aveva smesso di chiedere continuamente: “Quando arriva il mio papà?”, aveva diminuito moltissimo il numero dei bagnetti, aveva quasi smesso di spogliarsi, di mettersi per terra, di gettarsi violentemente la sabbia in faccia; inoltre erano diminuite le pipì in giro per l'Antenna e soprattutto nella sua camera.
Le domande erano molto varie:
– Come si fanno i sogni? / Quando si muore ci sono i sogni? / Se non sogno viene lo stesso mattina? / Le luci si ghiacciano quando si spegne il sole? / Dio mi ha messo il cervello?
Voglio andare da dietro degli anni / Non si va da dietro degli anni? / Se vado da Dio e gli chiedo di andare da dietro degli anni, mi dice di no? Quando andavo nel pensiero di Gesù / potevo andare da dietro degli anni? Voglio andare da dietro degli anni, a scuola, alle elementari.
Una volta era venuto un visitatore all’Antenna, Sebastiano lo ha guardato, gli ha chiesto come si chiamava e quanti anni aveva, poi indicandolo:
– Se dormo tanto mi sveglio così?
Le domande di Sebastiano sono richieste di verifiche, vuole continuamente accertarsi se l’Altro sa, se è regolato. In alcune domande, ad esempio “se non sogno viene lo stesso mattina?” è più evidente come Sebastiano cerchi di assicurarsi che l’ordine dell’universo, il simbolico, tenga, funzioni, indipendentemente da quello che capita a lui, il ciclo luce-buio, la successione delle ore, che il posto del possibile sia ben separato da quello dell’impossibile, che perfino Dio si regoli facendo a meno di lui.
Poco tempo dopo il suo arrivo all'Antenna, Sebastiano aveva preso a raccontare, più volte, una storia, che variava e si allungava e suonava come una costruzione fantasmatica:
– Qualcuno mi ha gettato dalla finestra / Un bambino di nome Leo mi ha gettato dalla finestra / sono andato a casa degli altri e ho vomitato per terra / e qualcuno mi ha gettato dalla finestra / e c'era anche una bambina che mi ha menato.
Qualcuno mi ha gettato dalla finestra/
c'era un cagnolino e mi ha mangiato/
tre volte mi ha mangiato/
e c'era anche un accendino/
con il gas/
e mi sono bruciato.
Qui c’è una lampante rappresentazione dell’Altro nella psicosi, la sua ferocia, la sua mancanza di regole, il suo capriccio senza limiti, può buttare dalla finestra, bruciare, divorare… Contemporaneamente agli sviluppi della storia, Sebastiano ha incominciato a gettare degli oggetti dalla finestra. E' venuto spontaneo di mettere in relazione questi fatti con la denuncia al padre che era stato visto da estranei mentre gettava dalla finestra Sebastiano. Tanto più che le ultime versioni erano:
– Un papà di nome … ha buttato un bambino dalla finestra / Sono pieno di botte, sai io!? Me ne ha date tante il papà.
Gettando gli oggetti dalla finestra Sebastiano cerca di introdurre una mancanza, una castrazione nel luogo dell’Altro in cui è preso, luogo che altrimenti sarebbe senza limiti di ingordigia, potere e potenziale distruttivo. La manovra sembra raffinarsi col tempo, tanto da non richiedere più l’atto. Una volta, in montagna Sebastiano mi ha detto:
– Ho gettato gli oggetti dalla finestra, vieni a vedere.
Quando ho guardato sotto alla finestra, non ho trovato nulla sulla neve. E lui, sorridendo,
– Me li hanno rubati.
Spesso Sebastiano fingeva di dormire e iniziava a russare. Allora io:
– Tanto sonno?
– Sìì!
– Sonno gigante?
– Sìì!
Abbiamo cominciato a scambiarci queste battute ogni volta che lui fingeva di dormire, come un tormentone.
Una volta, passeggiando in montagna, ho visto un grande albero di Natale e gli ho detto:
– Che albero gigante!
– Sonno gigante?… Ti è venuta una colpa di sonno?
Tornati all'Antenna Sebastiano faceva finta di dormire. Gli ho chiesto secondo rituale:
– Tanto sonno?
– Sìì
Poi mi si è appoggiato sulle spalle.
– Quanto pesa questo ragazzo!
– Quanto pesa il sonno?
Ho tergiversato:
– Che domanda difficile, non lo so quanto pesa il sonno, potremmo informarci…
– Una colpa! Il sonno pesa una colpa!
 



[1] Avevo 25 anni, stavo svolgendo il mio tirocinio post-lauream, un anno di lavoro gratis, ma, in questa comunità residenziale, l’Antenne 112 di Marghera, Venezia, direttore terapeutico, e fondatore Martin Egge, che ha avuto il buon cuore di assumermi. 
 
[2] In “Due note sul bambino” (in La Psicoanalisi n. 1, Astrolabio, Roma, 1987, p. 23) Lacan chiarisce come il bambino può essere il sintomo che rappresenta la coppia dei genitori, in questo caso il sintomo è isomorfo al significante. Mentre nella psicosi il bambino realizza l’oggetto a del fantasma della madre, non fa che rivelarne la verità. La simbiosi non è tra il bambino e la mamma, ma tra il bambino e l’oggetto, in quanto il significante non funziona da separatore. A partire da questa e altre scarne indicazioni di Jacques Lacan, Antonio Di Ciaccia ha sviluppato nel 1974, a Bruxelles, una pratica che ha permesso di lavorare con questi bambini.
Nel caso di psicosi non si gioca mai con l’enigma del significante (l’immagine acustica della parola), ma si mantiene una posizione di non-sapere, che permette di difendere il bambino dal suo Altro persecutore, da cui non è separato, e, si dà spazio al soggetto per costruire una sua personalissima modalità per separarsi e identificarsi con un significante e muoversi nel legame sociale. Per questo motivo sgrido la schiuma e non il soggetto, incarnando quella che non sa, ma si mette sempre e comunque dal lato del soggetto, anche là dove il soggetto non dà segni di sé.
 
[3] Rossella è un’operatrice con cui ho potuto sperimentare, in quel luogo, la pratica inventata da Antonio Di Ciaccia. Oltre a una bellissima amicizia.
[4] Più noi ci sottoponiamo a delle regole più loro sono liberi di mangiare, andare al gabinetto… Senza essere costretti a sottrarsi continuamente.
Si tratta di dire di sì al soggetto, ma con un soggetto in posizione psicotica si tende a non uscire dal campo del soggetto.
L’operazione di distanziamento costituisce il primo tempo: dire di sì al soggetto/dire di no all’Altro. Nel secondo tempo ci può essere l’elaborazione di un sapere, che però per Sebastiano.
 
[5] Accenno di metafora a partire da un significante materno? Più tardi: “Quando andavo nel pensiero di Gesù… “ E’ un primo mattone, un primo significante da cui provare a farsi rappresentare. Nella psicosi non abbiamo, come nella nevrosi, un’identificazione e una concatenazione significante, scelte e poi dimenticate, rimosse; tutto è alla luce del sole, ma niente sembra tenere. Naturalmente non si tratta di compartimenti stagni, ma di posizioni rispetto al godimento e alle relazioni, che acquistano il loro senso solo nella clinica.

A cura di B. de Halleux, "Qualcosa da dire" al bambino autistico, Borla (con testi di Antonio Di Ciaccia e di Virginio Baio)


Martin Egge, "La cura del bambino autistico", Casa Editrice Astrolabio 

A cura di Adele Marcelli ed Elide De Angelis, "Genitori alla scuola del desiderio", Offida (AP)

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