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ANTONIO LASALVIA: Combattere pregiudizi e stigma. Cambiamo nome alla schizofrenia?

11 Set 19

A cura di Gerardo Favaretto

Nel nostro paese una riflessione su cosa sia la malattia mentale, quale ne sia l'immagine sociale, e quale siano le conseguenze di questa, sono i temi che stanno al fondamento stesso della pratica anti istituzionale e della critica al manicomio che portò poi alla legge del 1978. Ma se questa legge riuscì modificare i luoghi e permise il diffondersi di alcune  idee non possiamo oggi affermare che abbia completamente vinto la battaglia contro lo stigma.
Parlare di stigma per anni , al di fuori dell’ambiente psichiatrico , una volta esaurita la forza propulsiva della riforma, quindi a partire da metà degli anni 90 , sembrava un'operazione esoterica per addetti ai lavori o per  appassionati a contorte teorie sulla comunità inclusiva.  In contemporanea a quanto  succedeva In Italia negli altri paesi occidentali  la questione dei diritto dei pazienti, o meglio dei diritti delle persone affette da disturbo mentale, ad essere considerati esigibili  ha animato dibattiti e iniziative nel mondo della psichiatria.   Su tutti , in primo luogo,  i diritti alla cura equa ed efficace e alla non discriminazione   hanno fatto nascere movimenti, associazioni di tutela e advocacy e promosso il   protagonismo delle famiglie e delle persone in cura nei servizi per la salute mentale  ossia tutto quello che potremo riassumere con il termine  empowerment.
Empowerment  e protagonismo delle persone hanno permesso che la questione del pregiudizio, e dello stigma che ne consegue,  diventasse un tema sempre più discusso  dagli psichiatri e da altre  categorie professionali in tutti i paesi del mondo occidentale e non solo. Lo testimniano per esempio i progetti e le iniziative sia della Organizzazione mondiale dela sanità ( WHO) http://www.euro.who.int/en/health-topics/noncommunicable-diseases/mental-health/priority-areas/stigma-and-discrimination che della associazione mondiale di psichiatri ( WPA) che gli dedica una sezione speciale http://www.wpanet.org/stigma-and-mental-illness.
 Non basta infatti aver chiuso istituzioni segreganti per non  condizionare la vita delle persone con disturbo mentale se poi convinzioni pregiudiziali ed etichette finiscono col rendere difficili  la ricerca del lavoro, le relazioni sociali, le possibilità di relazione. Le campagne contro lo stigma nella malattia mentale in realtà pur sembrando essere simili negli obiettivi hanno mostrato di avere delle anime diverse http://www.rivistadipsichiatria.it/articoli.php?archivio=yes&vol_id=931&id=10205.
Un primo elemento  nasce dalla affermazione del diritto della persona alla partecipazione alle scelte che lo riguardano e quindi dall’ empowerment del paziente. Questo aspetto, che  tende a prescindere dalla natura della malattia,  pone a priori la questione della equità sociale e di quella equità in particolare che nasce dalla attenzione alla diseguaglianza e si fonda su un concetto di libertà come diritto alla non  esclusione quindi alla partecipazione. Un secondo elemento,  che non è dissonante d'altro ma accentua gli aspetti di protagonismo e che sta , in fondo, alla base del principio di recovery, si basa sul fatto che lo stigma va combattuto perché la malattia mentale è una malattia come le altre e quindi la persona che ne soffre non deve essere socialmente discriminata e la malattia mentale non può essere considerata speciale nella sua natura.
I due  elementi non sono tra di loro in contrasto ma è come se definissero due aspetti diversi del problema : quello della organizzazione sociale e della tutela dei diritti delle persone svantaggiate che ha profonde ricadute normative e di politica sociale e l’altro che pone al proprio centro la necessità di un intervento culturale relativo quelle paure che rendono il disturbo mentale, l'idea della follia, uno degli spettri della società occidentale assieme alla morte e ad altre catastrofi.  Ciò che la cultura occidentale vede come negativo e destrutturante e che genera negazione ovvero estraniazione. Che  la malattia mentale sia una malattia come le altre e che le  persone che ne sono affette siano  persone come le altre sono i principi che ispirano le campagne anti stigma, campagne sulle quali ad oggi però non abbiamo grandi evidenze di efficacia anche per la mutevolezza nel tempo delle rappresentazioni sociali e al fatto che esse si prestano al ritorno ciclico di alcuni principi di fondo legati alla paura di ciò che non si comprende.
Un ulteriore elemento , in un mondo sempre più povero di risorse per la salute sta nella (non) priorità della salute mentale . In Italia , la salute mentale non ha risorse sufficienti , i report ministeriali  registrano nelle diverse regioni finanziamenti praticamente  sempre inferiori alle soglie del 5% sulle spese sanitarie; questa mancanza di investimento va considerata la prima e più pensante affermazione di stigma nei confronti del disturbo mentale.
 Un aspetto non irrilevante della stigma, sono poi, i  pregiudizi degli operatori sanitari, anche quelli dei servizi per la salute mentale, frutto di un irrigidimento negli anni della difficoltà a trovare la corretta dimensione di un rapporto di cura e di rispetto. Spesso sono gli stessi  che le persone hanno nei confronti di sè e della loro patologia. Persone vittime ed escluse perché si sentono portatori di una malattia/colpa .
Il ruolo delle associazioni degli utenti , dei  momenti di condivisione, di formazione , discussione e di iniziativa sociale di promozione alla salute mentale sembrano essere indispensabili, non solo per dare messaggi  alla comunità, quanto per dare la possibilità a chi lavora e  a chi è portatore del problema di esprimersi e di sostenersi rispetto alla natura delle proprie difficoltà.
Antonio Lasalvia è Professore Associato presso l'Università di Verona, attualmente coordinatore della Sezione del Veneto della Società Italiana di Psichiatria. Oltre ad essersi occupato di qualità dei servizi  e di interventi negli esordi psicotici, può essere senza dubbio considerato in Italia uno dei più profondi conoscitore delle tematiche legate allo stigma in salute mentale, come testimoniano tante sue pubblicazioni anche su riviste di grande prestigio internazionale ad esempio
Lasalvia A. Tackling mental health stigma and discrimination by changing the name: the case against schizophrenia. npj Schizophrenia (2016) 16009, 44.
https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(12)61379-8/fulltext
Ma un aspetto importante dell’impegno di Antonio Lasalvia é  che lavora e si muove con le sue ricerche dentro l’esperienza della Psichiatria di Comunità, in un contesto Veronese che ha avuto come fondatore Michele Tansella. Vive la realtà di un centro di salute mentale e conosce e sperimenta ogni giorno le difficoltà e le opportunità del lavoro sul territorio: sta gestendo un progetto nella Società Italiana di Psichiatria per valutare la possibilità di cambiare il nome alla schizofrenia (‘renaming schizofrenia’) similmente a quanto è già accaduto in Giappone.
Gerardo Favaretto: Puoi darci delle definizioni  di  stigma, pregiudizio ed empowerment? E quale è la relazione fra questi tre concetti ?
La parola “stigma” ha una storia molto lunga ed un etimo interessante. Furono gli antichi greci a coniare il temine per indicare quei segni fisici associati ad aspetti insoliti e criticabili della condizione morale di chi li possedeva. Il termine stigma deriva, infatti, dal sostantivo στίγμα (“punteggiatura”) e dal verbo στίζειν (“marchiare”) e stava ad indicare il marchio o segno che nell’antica Grecia distingueva gli schiavi dagli uomini liberi. Questi segni venivano incisi col coltello o impressi a fuoco nel corpo e rendevano chiaro a tutti che chi li portava era uno schiavo, un criminale, un traditore, o comunque una persona segnata, indegna, da evitare, specialmente nei luoghi pubblici. Sebbene il termine “stigma” non fosse originariamente usato in riferimento alla patologia mentale, già nell’antica Grecia era sinonimo di umiliazione, vergogna e perdita dell’onore. Nel tardo medioevo si andò rafforzando l’uso della parola in questa accezione, ovvero per indicare il marchio d’infamia dei rei affinché tutti potessero riconoscerli e tenerli a distanza. Tuttavia, in epoca cristiana il termine stigma perde il significato originario e finisce per assume una connotazione religiosa, riferendosi alle ‘stigmate’, cioè alle peculiari ferite che in particolari soggetti offrirebbero una riproduzione, temporanea o permanente, delle piaghe di Cristo al momento della crocifissione; così intese le stigmate costituiscono un dato teologico e uno dei fenomeni corporali della mistica cristiana. A partire dalla metà del secolo scorso, il concetto di stigma è stato ripreso in ambito sociologico per indicare una condizione di discredito permanente che affligge la percezione sociale di una persona (o di un gruppo umano), impedendone l’accoglimento in un ordinario rapporto sociale. Il termine stigma è stato infine adottato dalla psichiatria sociale per definire l’insieme di connotazioni negative che vengono pregiudizialmente attribuite alle persone con problemi di salute mentale a causa del loro disturbo. Più precisamente, secondo l’OMS, lo stigma rappresenta “un marchio di vergogna, di disgrazia, di disapprovazione che fa rifiutare, discriminare ed escludere un individuo da contesti e situazioni proprie della vita sociale” (The world health report 2001 – Mental Health: New Understanding, New Hope, WHO, https://www.who.int/whr/2001/en/).
 
Intesa in questa accezione, la parola stigma rappresenta un “termine ombrello” all’interno del quale la psicologia sociale riconsce tre componenti costitutive: gli stereotipi, i pregiudizi e la discriminazione (che rappresentano costrutti tra loro correlati, ma non sovrapponibili). L’essere umano è dotato della naturale attitudine a suddividere il mondo in categorie, a raggruppare le persone sulla base determinate caratteristiche (età, sesso, razza, religione, ecc.). I motivi che portano l’essere umano a categorizzare sono sostanzialmente due, uno di tipo congnitivo (risponde ad una funzione adattativa, riduce la complessità del mondo sociale e consente un notevole risparmio di tempo e di energie), l’altro di ordine motivazionale (è funzionale al mantenimento di una visione positiva di sé stessi, in quanto l’autostima è legata all’appartenenza al gruppo). La categorizzazione, a sua volta, è il precursore di pregiudizi e discriminazione: si dividono prima le persone in categorie cui vengono attribuite determinate caratteristiche (stereotipi); poi si investono queste caratteristiche di sentimenti positivi (favore) o – molto più frequentemente – negativi (repulsione), dando origine ai pregiudizi; si mettono, infine, in atto determinati comportamenti  verso un gruppo e i suoi componenti (discriminazione). La discriminazione rappresenta in definitiva la componente comportamentale dello stigma e ne costituisce l’aspetto più odioso e pernicioso, in quanto attraverso il comportamento discriminatorio dei “normali” può essere precluso alle persone con problemi di salute mentale l’accesso a risorse/possibilità garantite a tutti e negato l’esercizio di diritti fondamentali. Qui parliamo di salute mentale, ma analogo processo sociale colpisce altri gruppi umani, quali ad es. migranti, rom, persone con orientamento non eterosessuale, persone con difetti o handicap fisici, ecc.
 
Se lo stigma contribuisce a mantere una persona in una posizione subalterna rispetto a “tutti gli altri”, a porla in una condizione di sudditanza, marginalità e minorità, l’empowerment rappresenta il processo attraverso cui la persona riesce ad uscire dal cono d’ombra di vergogna,  dipendenza ed esclusione per ricollocarsi a pieno titolo, e da protagonista, nel circuito sociale. L’empowerment rappresenta un concetto chiave nella visione della promozione della salute mentale da parte dell’OMS (WHO, 2010; https://apps.who.int/iris/handle/10665/107275). Il termine, coniato alcuni anni fa in ambito anglosassone ed impiegato oramai come tale anche nel nostro lessico, rimanda al concetto di “potere”, più precisamente al prendersi (o riprendersi) il potere da parte delle persone con problemi di salute mentale, per operare scelte e decisioni autonome; azioni queste ultime che, purtroppo, la società (e spesso anche il sistema della salute mentale) ha per lungo tempo ostacolato. ‘Empowerment’ rimanda al diritto e alla capacità della persona – anche quando necessita di cure impegnative e di lunga durata – di operare scelte ed assumersi responsabilità per le conseguenze delle proprie scelte; il principio guida è quello dell’autodeterminazione (gli inglesi sintetizzano questo concetto con l’espressione “nothing about me, without me”). In questo senso, è necessario che le persone con problemi di salute mentale per poter eserciatare con consapevolezza i propri diritti e le proprie prerogative sociali non considerino come “veri” e non interiorizzino gli stereotipi e i pregiudizi attribuiti loro dalla società (attraverso quel pericoloso processo noto come stigma internalizzato o ‘self-stigma’). Per tale motivo, promuovere l’empowerment significa contrastare i circuiti di autostigmatizzazione e di auotesclusione a cui molti pazienti spesso si consegnano.
 
Gerardo Favaretto: quali sono state, a tuo avviso, le campagne anti stigma più significative e quali di queste esperienze ha avuto evidenza  di essere stata efficace e perché.
 
Antonio Lasalvia: Nell’ultimo decennio sono state realizzate in molte parti del mondo numerose campagne nazionali anti-stigma.  Le prime nazioni che hanno avviato campagne di questo genere sono state la Nuova Zelanda, l’Australia, l’Inghilterra, seguite poi da Scozia, Canada, Olanda, Spagna, Danimarca. Tutte queste iniziative nazionali sono si sono coordinate a livello internazionale per dare luogo ad un network molto esteso denominato “Global Antistigma Alliance” (https://www.time-to-change.org.uk/about-us/what-we-do/our-global-work/global-anti-stigma-alliance).
Tutte queste campagne si fondano su una serie di presupposti comuni: 1) utilizzare numerosi mezzi di comunicazione di massa (Tv, giornali, internet, social media, radio, cinema) per diffondere messaggi e contenuti anti-stigma (secondo le modalità del ‘social marketing’); 2) affrontare il problema dello stigma in maniera multidimensionale, considerando le varie articolazioni che ne caratterizzano il costrutto (es. cercando di modificare sia gli assunti di base distorti sui disturbi mentali, che tentando di modificare gli atteggiamenti e i comportamenti reali nei confronti delle persone che hanno problemi di salute mentale di nella vita di tutti i giorni) ed operando a più livelli nella società (es. a livello delle istituzioni, della popolazione generale, degli utenti dei servizi, di alcuni gruppi target particolarmente significativi e potenzialmente più suscettibili di cambiamento – studenti, polizia, operatori sanitari, giornalisti, datori di lavoro); 3) porre al centro delle campagne le persone che hanno o che hanno avuto un problema di salute mentale, che diventano  – attraverso il racconto delle proprie storie di guarigione o di recovery  – testimoni viventi del fatto che nonostante i problemi si può essere membra vive del corpo sociale nei confronti del quale è possibile fornire contributo importante. Le occasioni di contatto tra chi ha avuto un problema di salute mentale e chi non conosce da vicino questa esperienza e rispetto alla quale possiede soltanto una idea sommaria e basata su stereotipi e/o pregiudizi rappresenta (come tutta la letteratura scientifica sull’argomento ha inequivocabilmente dimostrato) il più potente mezzo di de-stigmatizzazione.
 
Uno dei programmi nazionali anti-stigma che considero tra i più completi e innovativi, costruito proprio sui presupposti sintetizzati sopra, è  “Time-to-Change” (www.time-to-change.org.uk). Questa campagna è stata lanciata nel 2007 in Inghilterra grazie all’azione congiunta di due associazioni no-profit impegnate nel campo della salute mentale, Mind e Rethink, e dell’Istituto di Psichiatria del King’s College di Londra, che svolto il ruolo di “evaluation partner”. Mi piace sottolineare quest’ultimo aspetto, perché una delle caratteristiche più qualificanti della campagna è stata quella di prevedere, e poi effettuare, valutazioni periodiche di impatto attraverso l’utilizzo di metodologie di ricerca rigorse e scientificamente fondate. Secondo gli organizzatori era infatti fondamentale misurare quanto le iniziaitve messe in atto dalla campagna fossero in grado di produrre cambiamenti “oggettivi” nelle opinioni, negli atteggiamenti e nei comportamenti concreti rispetto alle persone con problemi di salute mentale, sia nel breve che nel lungo termine. In sintesi, “Time to Change” aveva l’obiettivo di coinvolgere la popolazione generale e incoraggiarla confrontarsi con le persone con problemi di salute mentale attraverso una campagna nazionale di social marketing e la promozione di attività ed eventi di integrazione sociale a livello locale. Questa campagna presenta numerosi aspetti davvero innovativi, tra cui una lunga durata d’azione (la campagna è attiva oramai da oltre dieci anni!); l’utilizzo di una strategia multi-modale che prevede campagne informative, eventi di contatto, attività di social marketing; l’utilizzo dei social media per amplificare la diffusione dei contenuti anti-stigma e per supportare i pazienti nell’intraprendere azioni volte a contrastare stigma e discriminazione. I risultati delle valutazioni di impatto, pubblicati sulle principali riviste scientifiche, hanno evidenziato che “Time-to-Change” ha prodotto significativi cambiamenti in positivo, non soltanto nelle opinioni e negli atteggiamenti, ma soprattutto nei comportamenti della popolazione nei confronti delle persone con problemi di salute metnale, confermando l’efficacia del “contatto sociale” come strumento estremamente efficace di riduzione dello stigma.
 
Vorrrei terminare questa parte del nostro ragionamento con una breve riflessione che riguarda il nostro paese. Nonostante gli esempi internazionali si moltiplichino di anno in anno e che oramai la metodologia di lavoro sia ampiamente consoldata, nostro paese siamo ancora praticamente all’anno zero. E’ vero che non sono mancate in Italia iniziative di vario tipo a livello locale; tuttavia, nel nostro paese è sinora mancata la realizzazione di una vera e propria campagna nazionale anti-stigma sul modello di quella inglese. Ci sono state un paio di iniziative promosse dal Ministero della Salute tra la fine degli anni ‘90 e la prima metà degli anni 2000. Si è trattato però di iniziative estemporanee, prive di una reale regia complessiva e visione di insieme e realizzate più ad uso e consumo dei professionisti della salute mentale che dirette alla popolazinone e agli utenti dei servizi. Per altro queste iniziative sono state immediatamente dimenticate e non hanno prodotto alcun cambiamento. Sento personalmente la necessità di avviare anche nel nostro paese una riflessione seria in merito, che sappia valorizzare le migliori esperienze provenienti dai paesi più avanzati e le evidenze della letteratura scientifica (che sono oramai molto solide). Perché il rischio di retorica e auotreferenzialità è sempre molto alto in un ambito come questo e tale rischio – a mio modo vedere – va attentamente evitato. Non è vero che va bene tutto; alcuni interventi funzionano di più e meglio; ed è questi che vanno replicati ed implementati.
 
Gerardo Favaretto nelle tue pubblicazioni e anche attraverso il progetto che stai gestendo all’ interno della SIP proponi che venga cambiato il nome alla schizofrenia perché questo potrebbe permettere di superare dei pregiudizi. Ci racconti di questo progetto e di quali sono le sue prospettive ?

Antonio Lasalvia: Lo faccio molto volentieri. Permettimi però di darti prima la cornice all’interno della quale si muove l’iniziativa. In ogni parte del mondo la schizofrenia rappresenta il disturbo mentale maggiormente associato a stereotipi, pregiudizi e discriminazione. L’immagine pubblica di questo disturbo è dominata dagli stereotipi della imprevedibilità e pericolosità, immagine sostenuta dai mass media che tendono ad usare il termine “schizofrenico” in maniera inappropriata, per indicare qualunque tipo di comportamento incoerente/contraddittorio/deviante o persona violenta/pericolosa/criminale. Il rifiuto sociale e lo stigma nei confronti delle persone con schizofrenia è cresciuto costantemente nel corso degli ultimi 20 anni, più di quanto non sia avvenuto per altri disturbi mentali. Sembrerebbe che questo termine si sia caricato nel corso del tempo di significati – tutti immancabilmente di tipo negativo, spregiativo ed offensivo –  che sono oramai andati ben al di là del suo originario significante “scientifico”. Per tale motivo, in molte parti del mondo, le associazioni dei pazienti e dei familiari hanno cominciato a contestare l’utilizzo del termine schizofrenia, perché gravato da una connotazione talmente negativa da ledere nel profondo l’immagine pubblica delle persone che ne sono affette; ed hanno iniziato a richidere a gran voce la sostituzione con termini meno stigmatizzanti. Va anche detto che l’equivalente del termine “schizofrenia” è stato già eliminato dal lessico psichiatrico e sostituito con denominazioni alternative in Giappone (che dalla fine degli anni novanta ha fatto da battistrada a questa esperienza), Hong Kong, Taiwan e Corea del Sud. Le evidenze  provenienti dai paesi dove questo processo è avvenuto indicano che il cambiamento è possibile e che può portare beneficio non solo a pazienti e familiari, ma anche ai professionisti della salute mentale. Le nuove denominazioni risultano, infatti, meno stigmatizzanti rispetto ai vecchi termini, contribuendo a determinare una riduzione di pregiudizi e discriminazione nei confronti dei pazienti. Un altro degli effetti positivi del cambiamento è legato alla facilitazione della comunicazione diagnostica tra medico e paziente. Infatti, prima del cambiamento gli psichiatri giapponesi avevano l’abitudine di comunicare la diagnosi solo ad una esigua minoranza di pazienti e familiari, mentre successivamente al cambiamento la diagnosi viene comunicata alla maggior parte dei pazienti e a praticamente tutti i familiari. D’altro canto, la riluttanza nel comunicare la diagnosi di schizofrenia non era una prerogativa solamente degli psichiatri giapponesi, ma riguarda anche i professionisti che lavorano in altri contesti geografici. Da studi condotti nei Paesi anglosassoni è emerso che la percentuale di psichiatri che non comunica la diagnosi di schizofrenia ai propri pazienti oscilla tra il 50% e il 70%; e questo nonostante il fatto che pazienti e familiari preferiscano comunque ricevere una comunicazione diagnostica (non importa quanto negativa), piuttosto che tormentarsi nell’incertezza. Tre le cause principali della mancata comunicazione diagnostica troviamo la preoccupazione per lo stigma che tale termine evoca, il pessimismo prognostico che il termine ‘schizofrenia’ veicola e il conseguente timore di aumentare il disagio emotivo del paziente (e peggiorarne lo stato psichico).  
 
Allora, assieme ad alcuni amici e colleghi del precedente Comitato Esecutivo della Società italiana di Psichiatria abbiamo pensato di “tastare il polso” agli psichiatri italiani sul tema, per conoscere le loro abitudini riguardo all’utilizzo del termine “schizofrenia” nella pratica clinica quotidiana, la loro opinione rispetto ad una ventuale connotazione stigmatizzante del termine e, nel caso, la opportunità di cambiarlo con un termine meno “compormettente”. Alla ricerca hanno preso parte 350 colleghi di tutta Italia e i risultati (che non posso anticipare nei dettagli perché sono oggetto di pubblicazione che verrà presto sottomessa ad una rivista scietifica internazionale)  sono davvero molto interessanti. E conducono verso una volontà generale di superare questo termine. Il vero problema (e su questo si sta interrogando da tempo la letteratura sceintifica) è, nel caso, con quale termine sostitutire “schizofrenia”. Qui non c’è affatto consenso e tutte le opzioni sono aperte.
 
Tengo a sottolineare che non sono così ingenuo da credere che sia sufficiente cambiare il nome per ridurre magicamente lo stigma legato a questo disturbo. L’obiezione che spesso viene avanzata è che qualunque termine si decida di utilizzare, finirebbe prima o poi di caricarsi di significati negativi diventando alla fine altrettanto stigmatizzante. L’esprienza (tratta anche da discipline esterne al campo della psichiatria) ci insegna che cambiare nome ad un disturbo è un processo lungo e complesso, che necessita il coinvolgimento di tutti i potenziali interlocutori (pazienti, famiglie, operatori, ricercatori, opinione pubblica). Tale processo dovrebbe necessariamente andare di pari passo con l’implementazione di campagne educative e anti-stigma (sul modello di quelle che ho indicato sopra) e modifiche legislative. Quello che va cambiata è la percezione pubblica di ciò che oggi definiamo “schizofrenia”. Cambiare semplicemente nome non risolverebbe il problema dello stigma, che origina da assunti di fondo errati e distorti sulla natura dei disturbi mentali e sulle persone che ne soffrono. Tuttavia, cambiare nome può rappresentare un buon primo passo in avanti.
 
Gerardo Favaretto quali sono le iniziative contro lo stigma ma che si possono mettere in atto nei servizi anche in relazione alla tua importante esperienza con gli interventi agli esordi . Ritieni che i pregiudizi influiscano in modo significativo nella possibilità di intervenire tempestivamente ?
 
Antonio Lasalvia: Quello che sollevi è un problema centrale. I nostri servizi possono essere dotati di tutte le metodologie di lavoro più efficaci e innovative che vogliamo  e dei professionisti più preparati e disponibili, ma rischiano di risultare poco efficaci se gli utenti, soprattutto i più giovani, e le famiglie se ne tengono alla larga per il timore di essere “contagiati” dallo stigma, o tendono a sottrarsi precocemente alle cure per paura di essere etichettati ed additati come “matti”. Uno studio che ha pubblicato pochi anni fa, condotto nel contesto di un progetto regionale sugli esordi psicotici (PICOS Veneto), ha evidenziato che i giovani al primo episodio psicotico sono gravati da esperienze di discriminazione già pochi mesi dopo l’esordio e presentano profili di stigmatizzazione largamente sovrapponibili a quelli dei pazienti con maggiore durata di malattia; ciò ad indicare che questo fenomeno non è il portato della “cronicità” o di una vita di marginalità sociale, ma elemento che entra – negativamente  – già dall’inizio del percorso di cura.
Per altro, una revisione della letteratura internazionale che ho appena ultimato con i colleghi di Verona ha dimostrato che il timore dello stigma e dell’etichettamento è elevatissimo anche nei giovani ad alto rischio psicotico o in fase prodromica, rappresentando la principale barriera alla ricerca di aiuto e costituendo un fattore cruciale nel ritardare l’accesso alle cure (con  conseguente rischio di aumento della DUP e peggiore esito clinico e sociale, a medio e lungo termine).
Affrontare lo stigma che permea a tutti i livelli la società rappresenta, insomma, una sfida cruciale se vogliamo davvero realizzare servizi orientati ai pazienti più giovani e che siano in grado di intercettare tempesivamente il disagio emotivo prima che diventi disturbo mentale franco.
 
Gerardo Favaretto  quali le iniziative per lo stigma interno ai servizi e al sistema sanitario in generale ?

Antonio Lasalvia: Le migliori esperienze internazionali e le evidenze della letteratura ci consentono di delineare una serie di linee di condotta generale che possono aiutare i servizi e il sistema sanitario (ma vorrei dire il sistema sociale nel suo complesso) ad affontare in maniera efficace il fenomeno dello stigma. Proverò a sintetizzarle per punti:

  • Favorire il contatto diretto con le persone che hanno vissuto esperienze dirette (sia pazienti che familiari)
  • Implementare interventi mirati (gruppi target): datori di lavoro, studenti, operatori sanitari, agenti di polizia, giornalisti
  • Parlare apertamente di temi inerenti la salute mentale
  • Fornire messaggi positivi sulla salute metnale, attraverso il racconto di storie di quarigione (mass media);
  • Promuovere attività inclusive ed interventi a livello di popolazione volte a far stare insieme le persone in maniera non stigmatizzante (es. arte, danza, canto, sport, gruppi di lettura);
  • Adattare gli interventi allo specifico contesto geografico e culturale in cui devono essere implementati (le campagne antistigma NON funzionano bene se non adeguatamente contestualizzate; dal punto di vista culturale, socio-economico, anagrafico …)
  • Investire in politiche che favoriscano la coesione comunitaria à contrastare la disgregazione sociale, la sfiducia e l’intolleranza  Le campagne antistigma NON funzionano bene nelle società altamente individualiste, disgregate dal punto di vista comunitario o con basso capitale sociale (à famiglie e comunità disgregate à mancanza di fiducia  à intolleranza à “noi-e-loro” ). Migliori risultati nelle comunità fortemente coese
  • Porre attenzione ai determinanti della salute e delle malattie + servizi/sistemi sanitari (approccio preventivo) ;
  • Educare tutti gli operatori sanitari e sociali (atteggiamenti,  comportamenti à servizi /sistemi sanitari à burnout);
  • De-stigmatizzare la salute mentale e i professionisti della salute mentale !
  • Fermare l’eccessiva medicalizzazione e l’attitudine iperdiagnostica e focalizzarsi maggiormente sugli aspetti sociali dei disturbi mentali
  • De-criminalizzare i disturbi mentali; rompere la perversa equazione che tiene legati tra di loro i problemi di salute mentale e le questioni di ordine pubblico, i disturbi mentali e la vilenza;
  • Favorire un approccio basato sui diritti: le persone con problemi di salute mentale sono membri a pieno titolo della società, dotati di tutti diritti, compreso quello ad essere ascoltati, ad essere presi sul serio, ad essere inclusi nella società e a ricevere cure di qualità ed efficaci
 
Gerardo Favaeretto: Come si affronta l’auto stigma?
 
Antonio Lasalvia: L’auto stigma o stigma internalizzato comporta che la persona con problemi di salute mentale assuma come veri gli  stereotipi e i pregiudizi diffusi nella popolazione generale, li interiorizzi e li attribuisca a sé stesso. Allo sviluppo dell’auto stigma concorrono tre fasi: in una prima fase la persona è consapevole degli stereotipi e pregiudizi condivisi dalla popolazione riguardo alla propria condizione (ad es. “le persone con depressione sono pigre”); quindi concorda con questi stereotipi e pregiudizi (ad es. “si, è proprio vero, le persone con depressione sono pigre”), infine applica questi stereotipi e pregiudizi a sé stesso (ad es. “Ho la depressione, quindi sono pigro”). Il fenomeno dell’autostigma ha effetti particolarmente pensanti sulla vita delle persone con problemi di salute mentale perché determina una avvilimento dell’autostima e un conseguente abbassamento del valore di sé  e dell’autoefficacia. Strettamente legato all’ autostigma è il fenomeno che la letteratura anglosassone ha definito come “why-try-effect” (“perchè provarci?”): le persone colpite dallo stigma internalizzato sentono di valere così poco che ritengono non valere la pena spendersi in azioni o attività di qulasivoglia natura, in quanto sono certe di fallire (ad es. una persona con un problema di salute mentale può chiedersi “Perché dovrei provare a cercarmi un lavoro? Tanto non ce la farò, sono un incapace…”). Stigma anticipatorio e “why-try-effect” sono tra loro correlate e concorrono a determinare l’autoesclusione delle persone con problemi di salute mentale dalla comunità di appartenenza, rinforzando ritiro e isolamento sociale. Fortunatamente esistono tutta una serie di interventi – sia individuali, che soprattutto di gruppo – basati su presupposti tecnici mutuati dagli interventi cognitivo-comportamentali, che appaiono efficaci nel contrastare quelle distorsioni cognitive rispetto a sé stessi e al mondo che sono alla base del fenomeno dell’autostigma. Si sono rivelati particolarmente utili per contrastare, per via inddiretta, l’autostigma anche le tecniche volte a promuovere le abilità di base nelle relazioni sociali (social skills training), la consapevolezza di sè e l’autostima. Si tratta di interventi che i professionisti che operano nei servizi di salute mentale dovrebbero essere in grado – dopo opportuno training formativo –  di mettere in atto. Questi interventi sono particolarmente efficaci soprattutto quando forniti in contesti gruppali nei quali il mutuo-auto aiuto funge da collante tra i partecipanti ed assolve nel contempo alla funzione di rinforzare atteggiamenti positivi e proattivi; il tutto all’interno di un contesto sistemico che tenda programmaticamente a promuovere la consapevolezza dei diritti, l’autonomia e l’autodeterminazione, in una parola l’empowerment di cui abbiamo parlato in apertura.
 
Perché questo possa avvenire è richiesto un cambiamento di paradigma rispetto al modo in cui l’assistenza è stata tradizionalmente fornita (e in molti casi viene ancora fornita); e i cambiamenti di paradigma sono complicati, in quanto trovano spesso forti resistenze sia negli operatori che negli stessi pazienti. E ciò avviene soprattutto quando si debbono abbandonare tranquillizanti rendite di posizione. Per favorire l’empowerment gli operatori dei servizi dovrebbero rinunciare a una parte del potere legato al ruolo (“io so cosa è meglio per te”) e restituirlo davvero al paziente (“in che modo posso aiutarti?”). Si tratta in definitiva di restituire al paziente il controllo e la scelta su cosa fare della propria vita (es. dove e con chi vivere, quali valori adottare, in quali attività impegnarsi). Di avere cioè la capacità di comprendere quando farsi da parte (o addirittura uscire di scena) e lasciare al paziente il “posto di guida” della propria vita.
A tal riguardo, credo che le parole di Patrick Corrigan – psicologo clinico, accademico e massimo esperto mondiale in tema di lotta allo stigma e allo stesso tempo (come da lui più volte pubblicamente dichiarato) persona con problemi di salute mentale stabilmente in trattamento psicofarmacologico – suonino particolarmente utili nel ricordarci che posizione debbono assumere gli operatori dei servizi nella lotta allo stigma:
 
“… So what might psychiatrists and other providers do to correct mental illness stigma? Start by getting into the back seat. People with lived experience need to be driving the effort to erase the stigma of mental illness.(..)  People with mental illness need to lead efforts to set policy and actions that affect their lives. This is consistent with what research has shown about changing public stigma. It is not the professional expert teaching facts of illness that changes stigma, but contact with people sharing stories of recovery. Moving to the shadows to take a supporting role has been a hard lesson for professionals, especially when society charges them with leading health systems that provide the lens for understanding people with mental illness..“ (page 72)
(Corrigan PW. Lessons learned from unintended consequences about erasing the stigma of mental illness. World Psychiatry. 2016 Feb;15(1):67-73)

 

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    Psychiatry on line DEVE aggiornare il software di controllo del sito per adeguarlo alle nuove norme sulla privacy e per renderlo compatibile coi sempre più diffusi strumenti mobile per la visione (costo preventivato tra i 3 e i 5.000€ a seconda della profondità dell’aggiornamento)
    Psychiatry on line DEVE cambiare il proprio hardware per il montaggio dei video del suo Canale Tematico Youtube. L’attuale hardware un Macbookpro di 7 anni non è compatibile con le necessità e va aggiornato. (costo preventivato oltre 10.000€ per avere una macchina che duri un congruo numero di anni)
    Psychiatry on line Italia DEVE cambiare la propria attrezzatura per le videoriprese, l’attuale è vecchia di 7 anni e non ce la fa più.(costo preventivato tra i 4 e i 5.000 € per una attrezzatura che duri un equivalente numero di anni di onorato servizio)
    In tutto siamo attorno ai 20.000€, spesa che non posso permettermi di finanziare come ho sempre fatto in passato.
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Ogni mattina alle 8 e 30, in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria in diretta sul Canale Tematico YouTube di Psychiatry on line Italia