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Aprile 2016 III – Bellezza e rappresentazione

8 Mag 16

A cura di Luca Ribolini

LO PSICOTERAPEUTA «GIUSTO L’AFFIDAMENTO SERVONO BUONI MODELLI» AMMANITI: POSITIVE SIMILI ESPERIENZE IN CALABRIA
di Titti Marrone, ilmattino.it, 22 aprile 2016
 
Per ora è solo un decreto di affidamento temporaneo. Ma è sempre giusto intervenire così, allontanando i figli da una famiglia abitata da dinamiche camorristiche? Ancora, non rischia di produrre pericolose eterogenesi dei fini, cioè lacerazioni affettive foriere, nel tempo, di reazioni di riavvicinamento proprio al mondo criminale da parte di quelli che una volta erano i bambini? «Come in ogni vicenda umana, la trasposizione di un conflitto sul piano giuridico non può essere effettuata in modo univoco o semplicistico, ma analizzando con serietà ciascuna situazione»: parla lo psicoanalista Massimo Ammaniti, autore di studi su genitorialità e sviluppo infantil-adolescenziale diventati punto di riferimento in vari Paesi, in merito al caso di Secondigliano.
Che ne pensa, Ammaniti?
«Intanto, esiste già un’ampia casistica a cui ci si può riferire: il decreto del Tribunale dei Minori di Napoli ricalca l’esperienza di Reggio Calabria, dove più volte bambini o ragazzi di famiglie legate alla ‘ndrangheta sono stati affidati a case-famiglia al di fuori della regione. E dagli esiti riportati in relazioni e altre documentazioni emerge ciò che il procuratore di Reggio, Cafiero de Raho, ha detto ieri in un’intervista al Mattino: quelle esperienze sono risultate largamente positive e hanno guidato i ragazzi a prendere le distanze dal mondo familiare».
A suo avviso l’allontanamento è giusto anche quando, come nella vicenda di Secondigliano, la madre risulti incensurata?
«Per rispondere alla domanda, e fare luce su questa singola storia, non posso che richiamare il principio decisivo sancito dalla Carta dei diritti dell’infanzia, nel quale si parla di priorità da dare, sempre e comunque, all’interesse superiore dei minori. In questo caso, bisogna capire se rimanere in casa con la madre potrebbe guidare i bambini verso un processo di tipo educativo non delinquenziale, cioè orientarli a scoprire le proprie vocazioni. E non mi sembra incoraggiare in tal senso il fatto che la madre abbia incontrato il marito anche durante la sua latitanza. Gomorra lo spiega in modo chiaro, la famiglia camorristica indirizza in maniera unidimensionale. Figurarsi se parliamo di due bambini piccoli. A quell’età l’affiliazione camorristica e mafiosa si determina spesso di pari passo con la tessitura dei legami affettivi ed è probabile che anche la giovane mamma di due bambini di tre o quattro anni, sebbene incensurata, sia permeata completamente da quelle logiche, trasmettendole ai figli».
Segue qui:
http://www.ilmattino.it/pay/edicola/lo_psicoterapeuta_giusto_l_affidamento_servono_buoni_modelli_ammaniti_positive_simili_esperienze_in_calabria-1685340.html

 

LA CURA: L’ETICA DELLE DONNE? CAROL GILLIGAN

di Francesca Bolino, il-volo-della-mente-d.blogautore.repubblica.it, 22 aprile 2016
 
Psicologa e psicanalista americana, studiosa di etica, ha dato un grandissimo contributo nella formazione morale femminile. Il suo testo più noto è Con Voce di donna. Etica e formazione della personalità. Il suo pensiero è il frutto di numerosissime ricerche sul campo con bambini e giovani di entrambi i sessi: l’intento era di comprendere, conoscere e rilevare le loro reazioni di fronte a scelte morali importanti (vita, morte, resonsabilità). Per Gilligan i maschi e le femmine percepiscono e interpretano le realtà sociale in modo differente: per i maschi vale la legge, per le femmine la relazione. Ovvero: le donne fondano la loro etica sulle relazioni che concretamente legano le persone “in continuità con la relazione primaria con la madre. Il loro senso di integrità personale si intreccia con un’etica della cura responsabile” racconta Aida Ribero. I maschi scelgono in base alla norme, giudizi astratti, generali, universali, senza mai prendere in considerazione le concrete relazioni che legano tra loro gli essere umani. Queste considerazioni sono fondamentali e ci dicono che il pensiero delle donne viene di conseguenza giudicato difforme rispetto agli uomini e dunque indice di minore forza razionale e morale, qualitativamente inferiore rispetto ai maschi.
Segue qui:
http://il-volo-della-mente-d.blogautore.repubblica.it/2016/04/22/la-cura-letica-delle-donne-carol-gilligan/
 

 

LA DROGA DELLA BELLEZZA

di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 24 aprile 2016
 
“Il mio io, diventato trastullo di un capriccioso e crudele caso, dissolvendosi in fantastiche figurazioni, vagava alla deriva sul mare di tante vicende…” Quella descritta da Medardo, il protagonista de “Gli Elisir del diavolo” è senza dubbio una dissoluzione dell’Io. O almeno il tentativo del suo autore E.T.A. Hoffmann di rappresentarla, esprimendo dall’interno uno sconvolgente ed inesprimibile processo psichico che è generalmente causato da gravi disturbi psichici come la schizofrenia. Ma che può essere indotto anche da sostanze stupefacenti fortemente allucinatorie quali psilocibina e LSD. Un recentissimo studio, pubblicato su Current Biology, è riuscito proprio a dimostrare, grazie alla risonanza magnetica funzionale, gli effetti dell’LSD sull’attività cerebrale e le sue straordinarie immagini hanno fatto il giro del mondo. Si potrebbe dire che quelle immagini fotografano  lo stato d’animo di Medardo, la riduzione/scomparsa cioè della capacità di percepire sé stessi come qualcosa di definito e coerente, l’accelerazione e il miscuglio di percezioni provenienti da tutte le aree cerebrali, la “confusione” tra stimoli esterni ed interni e la (conseguente) tendenza a dissolversi nell’ambiente circostante. Più esattamente l’LSD aumenta la connettività globale nelle aree corticali ad alto livello di associazione e nel talamo. Aumenta inoltre l’integrazione globale accelerando il livello di comunicazione tra reti cerebrali normalmente distinte tra loro. Compromette invece l’attività dei singoli moduli cerebrali e allenta le distinzioni tra il sé e l’ambiente circostante. L’incremento della connettività globale è direttamente proporzionale all’esperienza soggettiva di dissoluzione dell’io. La ricerca potrebbe essere un primo passo per comprendere meglio (e successivamente trattare) esperienze sconvolgenti e angoscianti quali quelle che si realizzano nella schizofrenia. Ma c’è anche chi pensa già all’impiego terapeutico di sostanze analoghe in condizioni di malattie particolarmente dolorose per favorire “l’uscita da sé stessi” e il ricongiungimento cosmico. Eterogenee prospettive della scienza e del pensiero umano.
Segue qui:
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2016/04/24/la-droga-della-bellezza/

 

 

QUEL DIO PARTICOLARE CHE NON PASSA IN STUDIO. Note sulla religiosità nelle avversità

di Maurizio Montanari, lettera43.it, 25 aprile 2016
 
Mi è capitato piu’ volte di incontrare Dio nel mio studio. Il Dio riportato nelle parole, nei sogni, nelle imprecazioni degli analizzanti sul lettino. Molti avevano piu’ di un motivo per invocarlo, ringraziarlo, oppure maledirlo. Chi per la nascita di un bambino con gravi problematiche fisiche, chi per il lavoro perso, chi invece per un matrimonio spezzato. Altri per la salute andata in fumo, di colpo, dopo una diagnosi infausta. Altri invece attribuivano a Dio il felice incontro con l’anima gemella, o la riuscita di una delicata operazione. Ho sentito narrare di un Dio che si manifesta per la sua immanenza e ineluttabilità, o per la sua radicale assenza. E’ questo ha che influito nelle vite di alcune persone affette da nevrosi o, in qualche caso, dichiaratamene psicotiche.
Ho sempre trovato una differenza sostanziale nella capacità di assorbire i colpi della vita da parte degli appartenenti ai due estremi della linea del credo: gli atei, coloro i quali hanno sempre fatto a meno di un Dio, e i fedeli convinti della sua presenza, non sempre benevola si badi, ma proprio per questo indubitabile. Coloro per i quali vale il Salmo: ‘Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone mi dà sicurezza
Gli appartenenti al primo gruppo sono naturalmente dotati di una fede incrollabile nell’uomo, nelle sue virtù, e al contempo armati di una immensa riserva di cinismo, lunga quanto la vita intera, devoti all’idea che l’uomo contenga in sé la capacità di sopportare ogni peso che la vita gli riserva, senza dover chiedere aiuto o sostegno a qualcosa che non sia razionalmente spiegabile. Molti di essi hanno patito colpi tremendi della sorte, a volte letali, il che per loro fa parte dell’infinito gioco delle possibilità al quale si è esposti quando si viene al mondo. ‘Va cosi’, dottore, perché questo doveva essere’ mi ha detto tempo fa un padre che ha perso moglie e figlio in un incidente stradale. Sono sicuramente soggetti ai colpi della depressione, alle cadute del tono dell’umore, all’angoscia che riconoscono come elemento umano essenziale. Desiderano farla finita, senza troppe lamentele, ma con lucida presa d’atto che la benzina della loro anima è terminata. L’impossibile appello ad un’entità trascendente, li priva di qualsiasi giaculatoria. Non chiamano in causa la sorte, le avversità. Sanno di non scontare il fio di alcun peccato, perché al peccato non credono. Ma credono alla colpa.  Sono i protagonisti assoluti della loro vita, nel bene e nel male. Se compiono atti estremi, come ad esempio il suicido, difficilmente lasciano testamenti accusatori contro questo o quello. Sanno di essere portatori di un rischio esistenziale congenito, e se ne assumono ogni responsabilità.
Segue qui:
http://www.lettera43.it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/letteratura/quel-dio-particolare-che-non-passa-in-studio_43675243363.htm

 

RANCORE

di Marco Belpoliti, doppiozero.com, 26 aprile 2016 
Rimorso  
Il rancoroso possiede una memoria implacabile, non può perdonare né perdonarsi, e condivide molti tratti simili a chi soffre del sentimento di vergogna: è offuscato dalla memoria di un passato da cui non può separarsi e che non può tenere a distanza. Ciò che manca a chi soffre di questo sentimento è la capacità di ri-vivere, quindi di trovare un senso all’offesa patita, di farla transitare attraverso l’esperienza del proprio vissuto; non si congeda mai dal ricordo della frustrazione, torna a sentire le offese narcisistiche ricevute, edipiche o fraterne, che non si vogliono o non si possono dimenticare o perdonare. Sia nel risentimento, come nella vergogna, appare la figura del “rimorso”, il tornare a mordere o mordersi, sotto la pressione di un’emozione, dice Kancyper, specifica, ripetitiva, alimentando l’attesa di nuove vendette rivolte, prima di tutto, contro se stessi.   Lo psicoanalista sottolinea come il rimorso sia ben altra cosa rispetto all’odio; mentre il rimorso promuove una circolarità regressiva e sadica, l’odio può invece promuovere un movimento centrifugo della libido. Rifacendosi al Freud di Pulsioni e loro destini (1915), Kancyper sostiene che l’odio non è un amore in negativo: l’odio trae le proprie origini da pulsioni di autoconservazione, mentre l’amore ha origine da pulsioni di tipo sessuale. L’odio non ha dunque a che fare con la sessualità, ma può benissimo trasformarsi in risentimento assumendo così un carattere erotico nel perpetuarsi del vincolo sadomasochistico proprio di questa emozione. Vergogna e rancore alimentano l’ira, un’altra delle compagne consuete della nostra vita quotidiana. Così Martino di Braga, teologo medievale, descrive questo vizio difficile da nascondere: “Il sangue rifluisce dal profondo del cuore, gli occhi infiammati sprizzano scintille, le labbra tremano, i denti sono serrati, il petto è scosso dal respiro accelerato; i gemiti si fanno affannosi e le parole si accalcano in suoni poco comprensibili, la voce che erompe rabbiosa gonfia il collo; le mani diventano irrequiete, le dita si serrano con frequenza eccessiva, i denti stringono”.  Se infatti la gola e la lussuria, altri due peccati capitali, possono, almeno in parte, essere celati, lo scatenamento incontrollato dell’aggressività umana è un vizio assai difficile da occultare agli occhi degli altri. Carla Casagrande e Silvana Vecchio, due studiose del mondo medievale, spiegano come, da valore positivo nel mondo greco, l’ira sia diventata un peccato che Cassiano fa discendere dall’avarizia, mentre Gregorio direttamente dall’invidia. L’ira è una forma di follia breve, dicono i sapienti, e tuttavia nel mondo greco “arrabbiarsi per una causa giusta si addice ai nobili, ai grandi, ai potenti; chi lo fa dimostra di avere un animo coraggioso e generoso”. –
 
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/rubriche/3/201604/risentimento#sthash.NI0uX7R3.dpuf

 

INTRIGHI E DELITTI IN VATICANO. INDAGA FREUD PER CONTO DEL PAPA. Il libro di Carlo A. Martigli è pura invenzione innestata in un rigoroso contesto storico-simbolico. La vicenda narrativa si muove sul terreno rischioso della psicoanalisi

di Roberta Scorranese, corriere.it, 26 aprile 2016
 
In una Roma profumata e calda di inizio Novecento, un giallo scuote i palazzi del Vaticano: una guardia svizzera si lancia dalla finestra. È abbracciato a una florida cameriera. La stanza da cui si getta è quella di un cardinale. Il colto e ironico papa Leone XIII sente che sta per morire e di tutto ha bisogno tranne che di un successore dai facili costumi. Che fare? I Savoia, da poco vincitori sui destini del Paese, non aspettano che un clamoroso scandalo ecclesiastico sul quale consolidare il potere. Una speranza forse c’è: perché non chiamare quel medico di Vienna che sta diventando famoso per le sue bizzarre terapie sull’inconscio, nonostante il disprezzo di parte della cultura accademica? E così il Papa incarica Sigmund Freud di svolgere una singolare indagine: psicanalizzare alcuni «papabili» in odor di malefatte e scoprire chi escludere dalla successione al soglio pontificio.
Segue qui:
http://www.corriere.it/cultura/16_aprile_26/libro-mondadori-martigli-sigmund-freud-1d6ff95c-0b07-11e6-9420-98e198fcd5e0.shtml

 

Ode alla confessione. S. Carlo l’inventò per dar voce alle mogli sottomesse. Il Papa l’ha portata in piazza, ché tutti vedano

di Umberto Silva, ilfoglio.it, 27 aprile 2016
Sono sempre stato un ammiratore di san Carlo Borromeo e della sua grande invenzione, la confessione, sacramento tra i sacramenti che tutt’oggi vive in molteplici forme, compresa quella psicoanalitica a cui mi onoro di partecipare. “Quante stavolta, figliola?”. “Una soltanto Padre”. “Farai di meglio, vedrai, vincerai la pigrizia e riuscirai a scrivere tre pagine tutte di fila”; ascoltare le parole del peccatore o nevrotico che dir si voglia, è sempre di estremo interesse – guai se non lo fosse – senza una reale passione per la parola dell’altro, diverrebbero peccatori e nevrotici sia il prete sia lo psicanalista. San Carlo promosse la confessione soprattutto per salvare le donne, non dal diavolo ma da un nemico ben più crudele, dall’impossibilità di parlare, tritate da brutali mariti e il più delle volte costrette al silenzio. Grazie alla confessione, per la prima volta potevano liberamente parlare a un uomo, un uomo di chiesa per di più, uno che non solo la sapeva lunga ma anche nutriva desideri amorosi molto più raffinati di quelle bestie di consorti appassionati solo dalla guerra e dal denaro. Prosperarono così amori – casti o carnali, ove i casti erano i più carnali e i carnali i più casti – di donne con preti, che crearono in quelle povere disgraziate finalmente la voglia di esistere, la fede in un mondo di uomini migliore di quelli cui erano costrette.
 
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/04/27/ode-alla-confessione-papa-francesco-chiesa___1-vr-141222-rubriche_c577.htm

 

 

TAORMINA. SIGMUND FREUD A CASA CUSENI ATTRAVERSO IL LIBRO DI ROSALBA GALVAGNO. La residenza ha ospitato la presentazione del volume “I Viaggi di Freud in Sicilia e in Magna Grecia” che analizza la vacanza che il padre della psicanalisi ha fatto in Italia nel settembre del 1910

di Giusy Briguglio, blogtaormina.it, 27 aprile 2016
 
Casa Cuseni continua ad ospitare personalità di grande levatura e lo fa attraverso i libri. L’ultimo ad aver varcato la soglia della residenza di Taormina è stato Sigmund Freud grazie a Rosalba Galvagno che in “I Viaggi di Freud in Sicilia e in Magna Grecia” analizza la vacanza che il padre della psicanalisi ha fatto in Italia nel settembre del 1910 insieme al suo allievo-compagno Sàndor Ferenczi. Segesta, Girgenti, Siracusa, Palermo, sono solo alcuni dei luoghi della Sicilia che Sigmund Freud ha visitato e che la prof.ssa Galvagno, che insegna Teoria della letteratura all’Università di Catania, riporta nel suo volume, un saggio interpretativo costruito sulla corrispondenza tra Freud e i suoi familiari e amici, lettere oggi conservate a Washington, alla Congress Library.
 
Segue qui:
http://www.blogtaormina.it/2016/04/27/taormina-sigmund-freud-casa-cuseni-libro-rosalba-galvagno/223074

 

JACQUES LACAN, INCANDESCENZA DEL REALE. Dieci incontri in forma di saggio con il maestro francese: un libro di Alex Pagliardini

di Rocco Ronchi, ilmanifesto.info, 28 aprile 2016
Da tempo, ormai, intorno all’opera di Jacques Lacan si è andato concentrando un interesse che va ben oltre i confini della psicanalisi, di cui Lacan è stato un impareggiabile maestro. Lo si deve, senza dubbio, al fatto che alla formazione di quel pensiero hanno concorso in modo determinante altri saperi: dall’antropologia alla linguistica, alla filosofia, per arrivare, infine, alle matematiche e alla biologia. Tuttavia, non è soltanto in ragione di questa ricchezza di riferimenti teorici che la psicanalisi lacaniana è così trasversalmente presente nel dibattito intellettuale: la sua centralità si deve a un’altra ragione, una ragione speculativa. Per quanto possa essere forte la tendenza a evadere i problemi essenziali, ogni epoca è infatti chiamata prima o poi a una resa dei conti. Ci sono urgenze che non dipendono dalla buona volontà degli uomini ma sono inscritte nella natura delle cose. Ci sono domande che devono essere poste. Anche le epoche, come gli esseri umani, percepiscono che il tempo è scarso e che, come disse Seneca, la vita rischia esaurirsi in una vana attesa, senza mai essere stata veramente vissuta.
La domanda speculativa è allora quella che chiede cosa sia veramente reale per noi, cosa «valga» per noi come indiscutibilmente reale. Per un lunghissimo periodo della storia questa domanda ha avuto come risposta: Dio. Dio era il massimamente reale per un uomo del Medioevo. La modernità gli ha sostituito la storia, l’uomo al lavoro, artefice del proprio destino. Quanto ai tempi attuali, i post-moderni” ci hanno insegnato che è il senso dell’irrealtà a prevalere. Neanche le catastrofi sembrano sfuggire a questa dimensione immaginaria. Ma nessuna epoca, nemmeno la nostra, può differire all’infinito la questione del reale. Prima o poi lo deve incontrare. Jacques Lacan diceva di sé, come teorico, di aver inventato un solo concetto: quello di «reale». Per questo è diventato un imprescindibile punto di riferimento del pensiero speculativo contemporaneo. Ne è prova anche l’ultimo lavoro di Alex Pagliardini, Il sintomo di Lacan Dieci incontri con il reale (Galaad edizioni, pp. 382, euro 16,00). L’autore è uno psicanalista, non un filosofo, dunque la sua è una preoccupazione soprattutto clinica, riguarda la domanda che viene posta da qualcuno che si presenta nel suo studio portando con sé un disagio di cui ignora la causa. Tuttavia, se leggiamo la definizione di pratica analitica alla fine del primo capitolo, dedicato alla nozione di trauma, non abbiamo dubbi sull’intenzione speculativa che attraversa il testo di Pagliardini. «La pratica analitica – scrive – deve produrre l’impossibile, incontrarlo come tale». Lo stile espositivo è perentorio: invece di nascondersi nelle pieghe della sfuggente scrittura lacaniana o, ancora peggio, di mimarla, Pagliardini osa dire in modo diretto, prendendo posizione.
Segue qui:
http://ilmanifesto.info/jacques-lacan-incandescenza-del-reale/

 

 

IL SETTING TEATRO DI FOLLIA. Nel suo ultimo libro di saggi, “La clinica psicoanalitica contemporanea”, la militanza di André Green contro la demolizione di alcuni pilastri della teoria freudiana

di Francesca Borrelli, ilmanifesto.info, 28 aprile 2016
 
La morte di André Green, nel gennaio del 2012, sottrasse alla psicoanalisi uno degli ultimi interpreti al tempo stesso fedeli e originali del pensiero di Freud, sottoposto – negli ultimi decenni – all’ondata dei revisionismi che hanno nutrito la favola postmoderna, già di per sé sinistra e ora finalmente avviata al suo epilogo. La decisione di dedicarsi alla sofferenza mentale era venuta a Green dalla convivenza con il lutto inconsolabile di sua madre, che perse la sorella, bruciata viva in un incidente. Quando approdò all’ospedale parigino di Sainte-Anne a metà degli anni ‘50, ebbe modo di conoscere grandi neurofisiologi, psichiatri, psicoanalisti, fra i quali il medico catalano Henry Ey, che iniziò Green alla psichiatria come esercizio dialettico, e quella figura di erudito che fu Julian De Ajuriaguerra, il quale esercitò un ruolo mediatore nell’incontro con altri protagonisti delle ricerche sulla psiche: da Jean Delay a Lagache a Lacan, a Nacht a Male a Lebovici, a Minkovski.
Furono per Green, come lui stesso ha ricordato nella autobiografia titolata Uno psicoanalista impegnato (Borla, 1995) gli anni più belli della sua vita: il duplice interesse per le scienze biologiche e per la filosofia trovava, fra le pareti dell’ospedale di Sainte-Anne, un terreno di incontro ideale, i cui riferimenti principali erano il pensiero di Bergson, insieme alle teorie freudiane e alla tradizione fenomenologica della psichiatria di Jaspers. Poi, come testimoniano le opere degli anni a venire, l’interesse di Green avrebbe ripercorso più volte l’opposizione dialettica tra il pensiero di Melanie Klein e quello di Jacques Lacan, del quale già dal gennaio del ’61 aveva cominciato a frequentare i seminari, probabilmente come reazione alla morte del suo amatissimo analista, Maurice Bouvet. Fu nel luglio di quello stesso anno che avviò i suoi primi scambi con gli analisti inglesi: conobbe Winnicott, Herbert Rosenfeld, Hanna Segal, John Klauber, e di sfuggita Bion.
«L’impatto con loro – raccontava quando lo andai a trovare nel suo studio a Parigi, nel dicembre del 1999 – provocò in me uno shock altrettanto importante di quello indotto dal pensiero di Lacan, ma con una differenza: i suoi seminari erano un piacere per la mente, gli ultimi minuti intellettualmente abbaglianti, ne uscivamo in una sorta di trance; ma non avrei potuto dire che tutto questo mi sarebbe stato d’aiuto con i miei pazienti. Mentre quando frequentavo gli analisti inglesi, quando leggevo o ascoltavo i loro commenti, allora mi dicevo, ecco questa è l’analisi: sentivo che le loro discussioni mi mettevano davvero in contatto con la realtà clinica». Di quelle influenze tengono conto anche i testi appena tradotti da Cortina con il titolo La clinica psicoanalitica contemporanea (introduzione e cura di Andrea Baldassarro, prefazione di Fernando Urribarri, pp. 206, euro 25,00) che raccolgono saggi d’occasione scritti tra il 1997 e il 2000, licenziati dall’autore in quello che sarebbe stato l’anno della sua morte.
 
Segue qui:
http://ilmanifesto.info/il-setting-teatro-di-follia/

 

DOPO EDUCA 2016: RIFLESSIONI, PAROLE, MESSAGGI

di Alessandra Corrente, lavocedeltrentino.it, 29 aprile 2016
 
Un’altra edizione di Educa ha chiuso i battenti lasciando sull’uscio tanta condivisione, tanti sorrisi, tante emozioni e tante parole. Quelle che forse di più hanno risuonato nella città della Quercia le ha pronunciate il noto psicoanalista Massimo Recalcati, che nel Teatro Rosmini ha incontrato la cittadinanza e numerosi attenti ascoltatori. Madri e padri: la libertà dei vincoli era il titolo riservato al suo intervento. Recalcati ha parlato della responsabilità dell’esseremadre, che vuol dire saper rispondere al grido del bambino. Donare le proprie mani, la propria presenza, rispondere al grido del figlio soccorrendolo.
La madre ci insegna che l’amore non è mai amore per la vita ma per il nome. Amore per quel figlio, quel corpo, quel nome proprio di quella vita. Con ogni figlio la relazione è diversa e si struttura in modo unico.
Da ateo Recalcati ha parlato poi della figura di Maria, una grande rappresentazione della maternità: una giovane donna che porta in grembo un figlio che non è suo, è di Dio, di un altro.
Vive in me ma è altro. Non è mio. È vita altra.
La sala gremita e partecipe ha poi ascoltato le patologie della maternità. Per esempio la madre coccodrillo che divora il figlio, lo mangia e non lo lascia andare.
Una madre diviene tale quando si cancella come donna e diventa solo madre, per cui il bambino esaurisce tutto il suo mondo, mondo in cui il bambino resta sequestrato. Essere una donna è la salvezza della madre: nutrire un desiderio che vada oltre il bambino. Il figlio deve sentire che il desiderio di sua madre va al di là di lui. Il desiderio verso il padre, verso un lavoro, un’attività, una passione. Negli ultimi anni assistiamo ad una nuova patologia della maternità: non è più la Madre che uccide la donna, ma è la donna che vive la maternità come un handicap. Non solo sociale o professionale ma anche legato alla figura estetica del corpo. Si tratta di madri narcisistiche, figure che stanno proliferando sempre di più.
Ad un certo punto, mentre Recalcati proseguiva il suo intervento parlando della funzione fondamentale del padre quale custode del senso della legge, del limite, che porta il figlio al desiderio, qualcuno ha bussato ad una delle porte laterali del Teatro. Lo psicoanalista si è subito interrotto dicendo Qualcuno vuole entrare. Prego, chi è?.
Tre bambini divertiti e imbarazzati sono entrati strappando un sorriso e un applauso a tutta la platea. Recalcati ha commentato dicendo:
Bisogna sempre aprire la porta allo straniero che bussa e dare la parola. Chi disturba è più interessante di chi tace. Per ridurre la violenza bisogna dare la parola. Più diamo la parola più preveniamo il rischio della violenza
Forti applausi del pubblico hanno accolto queste parole. Un fuori programma tanto inaspettato quanto attuale. Per tutti noi.
http://www.lavocedeltrentino.it/index.php/social-mente/26104-dopo-educa-2016-riflessioni-parole-messaggi

 

QUANDO MANCA LA VERGOGNA. Politici corrotti: carente educazione alla moralità, o un «Io ipertrofico» che non fa provare loro alcun disagio anche quando scoperti con le mani nel sacco?

di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 29 aprile 2016
 
Nei giorni scorsi una frase pronunciata da un importante personaggio pubblico ha provocato molte critiche e reazioni, alcune risentite e di offesa. Si sosteneva in un’intervista di un importante quotidiano che oggi la caratteristica prevalente dei politici corrotti è quella di non vergognarsi più di essere stati scoperti a rubare. Si può condividere o meno un giudizio così tranchant, ma forse una breve riflessione sulla valenza psicologica della vergogna, ci può servire per capire cosa c’è dietro un’emozione come questa e da dove essa proviene.
La vergogna è un sentire comune e umano, un percepire complesso di emozioni che coinvolgono tutti gli individui sul piano cognitivo e affettivo, ma sopratutto su quello relazionale. Tutti infatti provano vergogna, che è una sorta di «intenso imbarazzo per aver mostrato qualcosa di intimo che la collettività considera inopportuno o giudica negativamente». Tale disagio intenso, che è legato al giudizio altrui, è strettamente collegato al senso di colpa.
Segue qui:
http://www.ladigetto.it/permalink/53688.html

 

L’AVVENTURA DEL CONTATTO. «S/Oggetti di desiderio: Sexistence»: un’anticipazione della «lectio» che il filosofo francese terrà a Bari il 5 e il 6 maggio, al Festival delle donne e dei saperi di genere

di Jean Luc Nancy, ilmanifesto.info, 30 aprile 2016
 
Esiste l’amore in tutta la sterminata estensione del termine, l’amore senza confini, l’amore per l’umanità, il mondo, la musica, il mare o la montagna, la poesia o la filosofia, che è essa stessa amore della sapienza. Non è così? Quest’ultima, a sua volta, consisterebbe soltanto nell’amare ciò che non si può giudicare, né conoscere o rifiutare: tutto l’altro in quanto altro, tutto l’esterno in quanto esterno, e la morte e l’amore stesso, impeto furibondo che ci fa morire nell’altro o fa morire l’altro in noi.
Esiste questo amore sconfinato, inesorabile, insopportabile, insensato, impossibile, ed esiste quello che si fa e per il quale non possediamo altro termine se non, appunto, «fare l’amore» (oppure «andare a letto», espressione che però non solo manca di eleganza, ma si trascina dietro una sfilza di parole volgari, triviali, oscene, sporche, disonorevoli, impronunciabili, oppure riservate per essere pronunciate, gridate o mormorate durante l’amore stesso, quando lo si fa). L’ultimo tipo di amore viene definito preferibilmente «eros», mentre per il primo il lessico oscilla tra «philia», «agapè» e «caritas».
In prossimità di soddisfazione
Questi due amori hanno in comune lo slancio, l’infervoramento, la precipitazione senza riserve e senza prospettive: non viene fissato lo scopo, l’esito non viene descritto, si tratta di arrivarci sapendo che l’importante non è giungere alla meta. Forse aspiriamo a tracciare i confini di una finalità possibile: se da un lato ciascun altro è il mio prossimo, la sua prossimità sembra giustificare e persino invocare la mia predilezione, la scelta che faccio di lui e il valore insigne che gli attribuisco; dall’altro, si suppone che il furore del desiderio raggiunga un grado di soddisfazione tale da potersi placare. Eppure sappiamo perfettamente che non ci è data alcuna prossimità senza che questa ci venga immediatamente sottratta più in là, in un’estraneità infinita. E sappiamo anche che non esiste «soddisfazione» – niente «satis», niente «abbastanza» per colui che desidera non tanto appagarsi quanto desiderare ancora e sempre, di nuovo.
All’orizzonte sia di un amore che dell’altro compare la riproduzione, sotto forma di conservazione del gruppo attraverso la pace comunitaria, oppure sotto forma di conservazione della specie (e/o del gruppo…) attraverso la generazione di nuovi individui. In entrambi i casi, tuttavia, ci si pone al di là dell’opera: tanto il gruppo quanto il nuovo individuo devono rinnovare il desiderio per conto proprio, invece di esserne il prodotto. Forse il sesso propone una cifra – se non la cifra – di tale rinnovamento del desiderio, che in fondo non è altro che il desiderio stesso.
L’eccitazione sessuale, con tutta la sua forza animale e il suo singolare dominio sull’animale umano, rappresenta una turbolenza ontologica del rapporto: alla pari del linguaggio, lo porta molto lontano, cioè dove non si può parlare di satis-fazione, dove non se ne può mai fare abbastanza, ma dove c’è incessantemente qualcosa da fare, qualcosa che non avviene mai come tale, né come risultato, che perciò non è mai «fatta», ma che pure non smette mai di volersi fare.
 
Segue qui:
http://ilmanifesto.info/lavventura-del-contatto/

I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:



http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545



http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788



Da segnalare anche la rubrica "Mente ad arte, percorsi artistici di psicopatologia nel cinema ed oltre, di Matteo Balestrieri al link 



http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4682



(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com

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