Siamo avvezzi all’adagio che il paziente sia al centro del sistema e che le sue decisioni sono definitive, per tramite di un consenso ampio documentato e comprensibile offerto dai clinici. Negli ultimi decenni assetti vecchi di secoli che volevano il medico in posizione di supremazia nei confronti del paziente, son stati stravolti. La Medicina, sempre in bilico tra scienze esatte e scienze umane, ha modificato una parte importante del suo statuto fondato sul principio di Beneficienza, che è stato integrato con la necessità di riconoscere al paziente il diritto di partecipare alle scelte che lo riguardano.
Rendersi disponibile in qualche modo assoggettarsi, accettare le prescrizioni del medico, è stato il fondamento dello stile comunicativo della relazione interumana, forse la più speciale sia esistita e che esista. Questa condizione è stata definita “asimmetria di informazione”, secondo una vecchia teoria sociologica, la eccezionalità del rapporto medico paziente con le franchigie assicurate al medico, discende dalla differenza di sapere. L’avere conoscenze approfondite, specifiche e soprattutto di natura scientifica, conferisce l’aura che permette di invadere senza rischi i territori più intimi del corpo e dell’anima, non solo senza disapprovazione sociale, ma addirittura con il consenso esplicito definito da precise norme e regole fissate dalle leggi e dai codici deontologici.
Chiediamoci come la Psichiatria abbia interpretato questo passaggio epocale della storia recente della Medicina, al di là dell’adozione di pratiche burocratiche come la raccolta del consenso, “non sempre”, informato. Come comunità professionale non siamo stati secondi a nessuno in tema di diritti e di difesa dei diritti, del paziente. L’intero movimento di riforma è stato fondato oltre che su presupposti scientifici, su di una visione etica dei trattamenti che in modo dirompente ha posto il diritto di scegliere sullo stesso piano sul diritto alla salute, seppure con alcuni limiti e restrizioni. Una vera rivoluzione per la Psichiatria, ambito nel quale era “normale” considerare la follia un patologia pericolosa e i malati di mente soggetti da proteggere dallo loro stessa malattia, anche al prezzo di escluderli dalla vita civile. Mai proposito umanitario è stato perseguito con tanta ferocia ed insensibile cinismo. Questo processo è stato guidato da “avanguardie” scientifiche e culturali, che spesso hanno agito in nome e per conto dei pazienti. Ancora oggi è possibile imbattersi in questo clima frequentando alcuni ambenti della Psichiatria che considerano di attualità la continuazione della battaglia anti istituzionale. Siamo d’accordo che non ci debba essere nessun cedimento su questo punto, sui diritti civili delle persone non può esserci un calo di tensione. Siamo d’accordo che debbano essere individuati e contrastati i nuovi luoghi di istituzionalizzazione dei soggetti fragili, magari non così drammatici come era il manicomio ma che in maniera più sottile ripropongono la medesima logica di esclusione. Ma c’è dell’altro, ci deve essere qualcosa oltre la protesta e la sacrosanta lotta per il rispetto della dignità e della libertà dei pazienti psichiatrici e contro lo stigma che ancora ne condiziona ed affligge l’esistenza.
C’è la necessità di guardare con occhi diversi alla sofferenza dei “nuovi” pazienti, dei giovani pazienti, che sempre più spesso propongono una sintomatologia dirompente ed assertiva. Sono persone che hanno vita sociale, magari difficile e contrastata, ma c’è l’hanno; hanno aspirazioni non dissimili da quelle delle persone comuni. Però sono persone che inciampano nella loro impulsività, nella difficoltà di programmare la vita con regolarità e in comportamenti disfunzionali che ne impediscono la realizzazione come soggetti desideranti. Questi pazienti sono portatori di un forte disagio, sono spesso a rischio di vita per suicidio o per gli incidenti in cui incorrono, ma non possono essere approcciati paternalisticamente, semplicemente non funziona. Allora parliamo anche di quell’atteggiamento che nella Psichiatria persiste, che ancora respinge i Disturbi di Personalità, non ne riconosce la pena perché parte dal presupposto che non si tratti di “vere malattie” e che di fonte alla differenza emotiva solleva sistematicamente il dubbio della manipolazione. Quell’atteggiamento intriso di pessimismo agita il “non ci sono interventi specifici, e induce trattamenti di emergenza sorretti da un razionale difensivo piuttosto che terapeutico; stratifica le terapie aggiungendo ad ogni nuova crisi un ulteriore farmaco che allunga la lista degli off label, in palese contrasto con il presupposto che non siano vere malattie.
Promuovendo a una ricerca sulle storie di cura dei pazienti Borderline, esperimento di medicina narrativa condotto insieme alla collega Psicologa Sara Valerio, ho toccato la forza del punto di vista del paziente. Un punto di vista che insegna molte cose, anche semplici ma purtroppo spesso distanti dalla pratica clinica. Come ad esempio l’importanza di una diagnosi chiara ed esplicita, che non è etichettatura, ma punto di partenza dei percorsi di cura; la preferenza per gli interventi basati sull’ascolto finalizzato allo sviluppo delle risorse personali; la percezione del terapeuta di riferimento come consulente disposto a fare squadra con il paziente sugli obiettivi comuni, e non criptico depositario di una scienza estranea. Sul trattamento dei Disturbi di Personalità, si sta formando un nuovo paradigma di cura che ha molto da offrire anche in termini generali per la visione della Psichiatra del futuro sostituendo progressivamente la presa in carico con l’offerta di cura.
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