Curatori: Massimo Baioni e Marica Setaro
Edizioni: Pacini
Anno: 2017
Pagine: 256
Costo: Euro: 19.00
«Nel caso della psichiatria italiana e della sua storia si tratta di non dimenticare che la "liberazione" dal manicomio è stata soprattutto un percorso di presa di coscienza di un rischio sempre presente in noi, quello del misconoscimento dell'umana dignità dell'altro: il rischio, in altre parole, di operare una «deumanizzazione», una sottrazione di umanità più o meno sottile nell'incontro con l'altro. Né si può trascurare che tale rischio non è stato, né poteva essere, definitivamente sradicato dalla semplice eliminazione dei manicomi, sempre pronti a ripresentarsi nel loro significato simbolico sotto altre forme e sotto altri nomi. Ecco allora che le storie di vita e di illibertà che scopriamo negli archivi dei vecchi manicomi, da dove pur presero le mosse i primi lavori di storia della psichiatria – lavori storici che in riviste e congressi interdisciplinari negli anni sessanta-settanta si vennero affiancando all'impegno militante degli psichiatri -, le storie che scegliamo di rinarrare tra le tante trovate e lette, lo sguardo con cui cerchiamo di ricostruire momenti di una storia passata (…) non sono solo capitoli di storia della psichiatria e delle sue istituzioni e dei suoi infelici ospiti, ma di più: momenti della storia d'Italia, e della crescita morale del nostro Paese. Quindi, non tanto o solo storia di istituzioni, di leggi, di politica e di scienza, ma soprattutto storia di consapevolezza e crescita democratica, che, grazie alla portata morale della 180, sempre trasparirà dalle nostre pagine».
Credo che non ci siano parole più adatte di queste di Valeria Paola Babini, che traggo dal volume collettaneo che mi accingo a recensire, per dare il senso del percorso nella storia della psichiatria che si aprirà, nell’ambito della manifestazione 180×40[i], alla Biblioteca Lercari di Genova lunedì 7 maggio appunto con la discussione di Asili della follia. Storie e pratiche di liberazione nei manicomi toscani curato da Massimo Baioni e Marica Setaro (Pacini, 1917).
Questo breve percorso ha la finalità di proporre cinque brevi incursioni nella storia più o meno recente della psichiatria su temi che sono parsi particolarmente adatti a far sì che la conoscenza del passato possa aiutarci a leggere il presente, dove spesso problemi che sono intrinseci alla natura di fenomeni sociali quali la follia, la psichiatria, e il loro incontro si ripropongono; si proseguirà poi:
- martedì 8 maggio sempre alla Lercari con Franco Basaglia. Il dottore dei matti di Oreste Pivetta, Dalai, 2012 (clicca qui per il link alla recensione su Pol. it);
- mercoledì 9 maggio alla Berio con L’ascolto gentile. Racconti clinici di Eugenio Borgna, Einaudi, 2017 (clicca qui per il link alla recensione su Pol. it);
- giovedì 10 maggio ancora alla Lercari – dopo che gli appassionati di storia della psichiatria avranno potuto già saziarsi nella mattinata con il percorso in cinque tappe previsto a Sestri ponente – con Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista di Annacarla Valeriano, Donzelli, 2017 (clicca qui per il link alla recensione su Pol. it);
- venerdì 11 maggio, sempre in Lercari, con Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio di Dario Stefano dell’Aquila e Antonio Esposito, Sensibili alle foglie, 2017 (clicca qui per il link alla recensione su Pol. it).
Poi ci si sposterà sabato 12 maggio alla sala 21 dell’ex OP di Quarto dove avrà luogo dalle 9 alle 16.30 l’evento Parole e cose della memoria in psichiatria[ii]. A lato di tutto questo, in parte alla Biblioteca Lercari e in parte all’ex OP di Quarto, la mostra fotografica Manicomio: figure della contestazione[iii].
Ma veniamo al testo che aprirà lunedì 7 maggio questa nostra impegnativa scorribanda per la storia della psichiatria, il quale raccoglie gli atti dell’omonimo convegno tenutosi ad Arezzo dal 26 al 27 ottobre 2017, pochi giorni prima della morte di uno dei due grandi protagonisti – l’altro è Arnaldo Pieraccini – della vicenda secolare del manicomio aretino, Agostino Pirella che vi giunse dalla Gorizia di Basaglia nel 1971.
Il primo scritto è di Valeria Paola Babini, e di lì abbiamo appunto preso le parole sul senso del fare storia in psichiatria con le quali abbiamo scelto di aprire l’intero nostro percorso. Esso riprende in sintesi le tesi del capitolo del suo Liberi tutti. Psichiatri e manicomi. Una storia italiana dedicato alla svolta degli anni ‘50. Prima tra tutte, lo stretto collegamento tra il lavoro di Basaglia a Gorizia e due riferimenti politici e antropologici imprescindibili: la Costituzione repubblicana e l’esperienza concentrazionaria di Primo Levi. Puntualmente, Babini ricostruisce quindi le tappe che dalla Costituzione portano a Gorizia, passando per Ugo Cerletti che nel 1949 fu il primo a paragonare i manicomi italiani al lager germanico, alla pedagogia di Maria Montessori, per passare poi via via alla discussione del film La fossa dei serpenti di Anatole Litvak, che portò Indro Montanelli a paragonare psichiatri e psicoterapeuti americani ai medici nazisti. E mi ha colpito che, nella conclusione di un intervento di Cerletti, allora presidente della SIP, riportata da Babini venga dato per scontato il fatto che condizioni di deprivazione come quella del lager (ma anche del manicomio) possano avere ripercussioni sulla salute mentale. La cosa è davvero eccezionale, se si considera che solo tre anni prima, durante il XXIII congresso, Ottorino Balduzzi era stato contestato dall’establishment della SIP per aver sostenuto lo stesso[iv]. Segno, mi pare, anche questo del fatto, sottolineato ancora da Babini, che nell’immediato dopoguerra il ricordo di quei drammi fosse ancora troppo vicino per essere apertamente testimoniato. Babini ricorda poi come gli anni ’50 si aprano con la pubblicazione del romanzo di grande successo Le libere donne di Magliano dello scrittore-psichiatra Mario Tobino, e poi le prime inchieste giornalistiche sul manicomio, finché il paragone del manicomio al lager sarà ripreso in modo più diffuso una decina d’anni dopo quel primo accenno di Cerletti, con le note prese di posizione del ministro socialista Luigi Mariotti e del giornalista Angelo Del Boca. Ma siamo così giunti agli anni ’60, alla diffusione degli psicofarmaci, delle artiterapie e dei testi di Goffman, Laing, Cooper, Foucault e Szasz tra altri. E’ una preistoria della lotta antiistituzionale in Italia che rischia spesso di essere dimenticata.
Il pensiero e la pratica di Basaglia, dunque, non nascono dal nulla e si collocano per la storica bolognese all’interno di quella che definisce con Stefano Rodotà una “rivoluzione della dignità” che ha il suo fondamento appunto nella lotta partigiana e nella Costituzione; ed è una relazione, del resto, quella tra la Costituzione e il pensiero di Basaglia che aprì la strada alla Legge 180, che Ernesto Venturini sottolineava già nel 1979 ed è stata recentemente rivisitata da Daniele Piccione[v].
A quest’autentica Lectio magistralis che affronta la “questione della 180” e l’importanza della sua ricostruzione storica in una prospettiva ampia che ne fa, come Basaglia auspicava nelle prime pagine de L’istituzione negata, lo stimolo per riflettere in modo critico sulla “normalità”, seguono i saggi più focalizzati sulla situazione toscana.
Il primo di essi è di Silvia Calamai e Francesco Bilotti e ha per oggetto il rinvenimento recente dell’archivio sonoro di Anna Maria Bruzzone, la ricercatrice che trascorse un periodo di studio ad Arezzo e scrisse per Einaudi un testo piuttosto noto, Ci chiamavano matti, nel quale sono riportate le interviste di trentatré ricoverati. I due Autori si soffermano sul materiale rinvenuto e a partire da esso si sforzano di ricostruire il metodo di ricerca e di lavoro della Bruzzone.
Segue il saggio di Marica Setaro sull’internamento delle bambine e adolescenti ad Arezzo, che analizzandone le cartelle le riconnette alla vicenda dei frenastenici, ampiamente dibattuta nella storiografia italiana, e all’idea del bambino nella società italiana tra ‘800 e ‘900. Il testo è reso prezioso da una commuovente casistica clinica di queste bambine e adolescenti di volta in volta considerate capricciose, disobbedienti,, incorreggibili, ineducabili, “manicomiabili”.
Il saggio successivo, di Sabrina Picchiami, Paolo Torriti e Gabriele Bartolini è dedicato all’atelier artistico aretino, nato alla fine degli anni ’50 e, dopo avere ricostruito in modo sintetico ma efficace la storia della cosiddetta arte irregolare, illustra le figure dei più importanti artisti internati ad Arezzo, dove hanno lasciato spesso traccia del loro passaggio. Il saggio prosegue analizzando gli arredi di quel manicomio, curati con attenzione dal direttore Pieraccini come un elemento importante della cura e realizzati, quando possibile, con il lavoro degli stessi internati.
E’ molto originale l’argomento del saggio di Laura Occhini sulle figure dei cappellani che si succedettero nella cura spirituale degli internati di Arezzo, il che consente di documentare la competizione, anche in quel caso, tra psichiatria positivista e personale religioso vista la prossimità – se non identità – di mente e anima, ma soprattutto consente all’autrice di entrare nel problema di come i diversi cappellani affrontino la relazione tra insensatezza e cattiveria nel giudicare il comportamento peccaminoso – ad esempio blasfemo – di soggetti diagnosticati come affetti da gravi malattie mentali. Il che non è un problema diverso, infondo, da quello oggetto degli articoli 88-90 del Codice penale; ed è interessante che, se ho ben inteso, spesso sembri che il cappellano si dimostri meno pronto a considerare “irresponsabile” il soggetto di quanto capiti al giudice. E’ questo un saggio, segnalo, di lettura particolarmente piacevole, vuoi per l’originalità del tema[vi], che per la freschezza dello stile espositivo.
Segue un altro contributo dedicato ad Arezzo, questa volta di Sebastiano Roberto e dedicato alla relazione, considerata assolutamente centrale per tutto l’Ottocento a partire da Esquirol, tra cultura architettonica e pratica terapeutica. Il denso e interessantissimo saggio prende in esame i diversi progetti di realizzazione del manicomio, dai quali emerge il ruolo svolto nella realizzazione di molti manicomi del centro Italia in quegli anni dall’architetto Francesco Azzurri, che proprio per la sua dimestichezza con gli psichiatri fu, se non erro, tra la dozzina di fondatori della Società Freniatrica nel 1873. Altra figura la cui importanza per il manicomio aretino è giustamente sottolineata è quella di Arnaldo Pieraccini che, formatosi a Macerata, lo diresse dal 1904 al 1950 e manifestò da subito nella psichiatria dei suoi anni idee innovative ad esempio nei campi dell’ergoterapia, dell’arteterapia o delle cure a domicilio.
Non mi sento invece di condividere il giudizio dell’Autore a proposito della posizione che Pieraccini assunse nell’ambito del dibattito, importantissimo intorno al 1904, sul no restraint, e non è certo per pignoleria che lo segnalo, ma per l’importanza che attribuisco alla posizione che ebbe allora Ernesto Belmondo. Credo che in effetti la confusione abbia qui origine dal fatto di accumunare le posizioni di Ruggero Tambroni ed Ernesto Belmondo in tema di contenzione in un unico giudizio, perché se è vero che i due affrontano il tema rispettivamente all’XI e al XII congresso della Società Freniatrica, le posizioni che esprimono sono però opposte. Tambroni infatti esprime la sua sostanziale sfiducia nella possibilità che il no-restraint assoluto sia applicabile in Italia, mentre all’opposto tre anni dopo Belmondo ne propone appassionatamente l’applicazione. Col che, i due vanno così a collocarsi ai due poli opposti del dibattito. Mi pare che polemizzando con entrambi Pieraccini si collochi in una posizione intermedia che non gli consente di cogliere l’importanza che la questione della contenzione aveva allora, e avrebbe ancor più avuto in seguito, nel condizionare la vita dei ricoverati nei manicomi italiani, collocandosi così tra coloro che Belmondo, che aveva maturato i suoi convincimenti abolizionisti durante soggiorni di studio in Germania, definiva con ironia i “troppo timidi amici del no-restraint”. La posizione di Belmondo è che ammettere come ineludibile un uso eccezionale della contenzione, è difficile che, come la storia già allora dimostrava, non sia la stura al suo ingresso nella routine. Quella più scettica di Pieraccini prevede che il ricorso alla contenzione possa essere ridotto – il che probabilmente fece ad Arezzo – ma mai escluso del tutto. E si tratta, infondo, delle due posizioni che incontreremmo anche intervistando gli psichiatri dei nostri giorni sulla questione, che dispiace dover constatare che, in un secolo, si è modificata ben poco. E del resto, gioverà ricordare che essa sarebbe ritornata ad Arezzo, e in una bellissima testimonianza sul suo lavoro nel corso della deistituzionalizzazione condotta da Pirella, Gian Paolo Guelfi, che ringrazio per avermela resa disponibile prima della stampa, sostiene che proprio la rinuncia assoluta alla contenzione costituì uno dei caposaldi: «la seconda linea di lavoro era: non legare nessun degente, mai per nessuna ragione; non isolare in cameretta di isolamento nessun degente, mai per nessuna ragione»[vii].
A me pare, del resto, che se si vuole davvero ridurre la contenzione fisica fino a puntare ad escluderla, l’idea che “tanto non si potrà mai farne a meno del tutto”, sostenuta allora da Pieraccini e oggi da molti, non sia proprio un buon punto di partenza; meglio puntare a farne a meno, invece, e se proprio non ci si dovesse riuscire considerare ciò un problema e lavorare senza perdersi d’animo a risolverlo. Per questo, proprio in occasione di questi quarant’anni di Legge 180, abbiamo scelto di includere alcuni brani della generosa relazione di Belmondo contro la contenzione al congresso genovese del 1904 tra quelli che saranno letti durante Un percorso in 5 tappe nella storia della psichiatria a Sestri Ponente il prossimo 10 maggio, durante la settimana di 180 x 40[viii].
Va detto, peraltro, che questa questione non costituisce certo l’argomento centrale del saggio di Roberto, che si conferma di eccezionale interesse nelle pagine seguenti col ritornare sulla relazione tra psichiatria e architettura (tra psichiatra e architetto, con un “potere” del primo che oggi i nostri uffici tecnici sarebbero ben difficilmente disposti a riconoscergli) e sottolineare l’importanza del ruolo svolto da Pieraccini nel plasmare gli edifici e gli spazi del manicomio aretino, perseguendo l’obiettivo, considerato più funzionale, di avere maggiore distanza tra i padiglioni e disporre di spazi agresti per l’ergoterapia. Pieraccini diresse il manicomio di Arezzo per quasi cinquant’anni e, in tale posizioni, affrontò la Grande guerra, il fascismo durante il quale è ricordato tra i pochi psichiatri la cui ostilità al regime fu da subito evidente, la Seconda guerra mondiale e il dopoguerra.
Il contributo di Daniele Pulino, invece, si sofferma sulla fase finale del manicomio di Arezzo, quella della deistituzionalizzazione letta in parallelo a quanto contemporaneamente avveniva in quello di Firenze e offre così nelle prime pagine una chiarificazione molto utile del concetto di deistituzionalizzazione e dei tre orientamenti che all’inizio degli anni ’70 prevalevano nelle diverse realtà italiane: quello che la nuova psichiatria nel territorio potesse svilupparsi includendo pezzi di manicomio in quello che in Francia era il “settore”; quello che essa dovesse nascere affrontando in primo luogo il problema della distruzione del manicomio e della dimissione dei suoi ricoverati, sostenuta dalla maggioranza del gruppo basagliano compresi Slavich o Pirella; e quella che essa dovesse nascere a lato del manicomio, per così dire ignorandolo e attendendo che la sua funzione andasse, col tempo, a esaurirsi naturalmente, sostenuta da Jervis a Reggio Emilia. Tanto il caso di Firenze che quello di Arezzo vedono un’alleanza, che in altri luoghi è mancata, tra tecnici e amministratori, ma quest’alleanza porta nei due casi in direzioni opposte: in quello di Firenze verso l’obiettivo di un aggiornamento e un ammorbidimento della psichiatria perseguito, senza mettere realmente in discussione l’esistenza del manicomio, con la settorializzazione; in quello di Arezzo, che vede collaborare un tecnico come Agostino Pirella con amministratori tra i quali mi piace ricordare Bruno Benigni, entrambi mancati recentemente, verso l’obiettivo basagliano della costruzione della nuova psichiatria attraversando la deistituzionalizzazione, e in primo luogo la distruzione del manicomio.
E proprio a quest’ultimo proposito ho trovato davvero interessanti due saggi, quelli di Francesca Bianchi e Caterina Pesce, volti entrambi a ricostruire attraverso documenti e testimonianze le modalità concrete con le quali una delle più riuscite esperienze di deistituzionalizzazione, quella di Pirella ad Arezzo, è stata possibile: l’eco delle assemblee, le riunioni, la passione militante, le pratiche di solidarietà e risocializzazione, il lento e faticoso trasformarsi degli spazi dell’ospedale, poi i primi centri di cura all’esterno, il tutto all’interno di un forte processo democratico che aiutava le persone a comprendere il senso dell’operazione e metteva in discussione altri luoghi di esclusione nell’ambito della città. Pagine da leggere e meditare perché sono convinto che in molti luoghi non più manicomiali della cura, anche oggi, sarebbe necessario mettere mano a processi di deistituzionalizzazione non poi così diversi; e i gesti e i passaggi necessari, forse, assomiglierebbero più di quanto non pensiamo a quelli di allora. La conclusione dei due saggi sul valore paradigmatico dell’esperienza di Arezzo mi pare in larga misura convergente con quella della testimonianza, già ricordata, di Guelfi, per il quale: «Uno spirito solidaristico improntava allora il movimento antiistituzionale (e per taluni questa era una ragione per criticarlo “da sinistra”). Io credo invece che quella dimensione solidale sia stata il necessario fondamento di un movimento interessato a generare un movimento nelle strutture volto a migliorare la condizione umana delle persone che ne erano state vittime. E che col necessario aggiornamento ai tempi d’oggi, ancora lo debba essere»[ix].
Ma se Arezzo fa certamente in questo volume la parte del leone, non mancano riferimenti a esperienze meno note. Abbiamo detto di Firenze, e si parla dei complessi passaggi, anche amministrativi, per la chiusura di Volterra nel saggio di Chiara Fantozzi, che ne ripercorre le tappe nel corso degli anni ’70. Come anche di quelli di Maggiano, il manicomio intriso di storia della provincia di Lucca che ebbe tra i suoi psichiatri più illustri Guglielmo Lippi Francesconi e Mario Tobino, la cui storia viene ripercorsa dalla metà del ‘700 nel bel saggio di Renzo Sabbadini e Marco Natalizi che poi si concentrano sugli anni della chiusura proponendo testimonianze vivaci, posizioni anche polemicamente contrapposte e inquadrando le note perplessità (e forse nostalgie) espresse da Tobino in occasione dell’accelerarsi del processo di chiusura, che furono oggetto di una ferma – e per quanto mi riguarda condivisibile – replica da parte di Basaglia, nel quadro dei dubbi di altri protagonisti grandi e piccoli della vicenda lucchese. Ancora, si parla delle Ville Sbertoli di Pistoia, un caso raro in Italia di istituzione psichiatrica privata creata a suo gusto da uno psichiatra facoltoso, Agostino Sbertoli, nel 1868 per una clientela d’élite e poi passate a svolgere una funzione pubblica più tradizionalmente manicomiale dal 1951, nel saggio di Andrea Ottonelli. Dell’istituzione viene così ripercorsa l’evoluzione sia sotto il profilo della trasformazione edilizia che di quella delle pratiche di cura, un’evoluzione che portava le Ville a divenire tra l’altro luogo di prigionia per antifascisti nel corso della guerra e set del film L’ospite di Liliana Cavani nel 1971, per poi avviarsi verso la progressiva deospedalizzazione senza, parrebbe, eccessivi scossoni già negli anni precedenti la legge 180. Il contributo accenna, nel finale, alla preoccupazione dei pistoiesi di oggi per il destino degli edifici dismessi, e questo ci introduce all’ultimo saggio che ci resta da considerare di questo volume collettaneo davvero capace di affrontare a tutto campo storie e pratiche di liberazione – le une e le altre assai diverse – cogliendone i temi principali, quello Carlo Orefici relativo alla possibilità di riutilizzo degli spazi manicomiali con tutto il carico della loro storia di esclusione, violenza, sopraffazione e vissuti sedimentati negli anni per l’apprendimento di un diverso rapporto tra persona e città, fondato sulla partecipazione e sul rispetto. E, se il passaggio di Babini con il quale abbiamo aperto questo scritto ci è parso il modo migliore per spiegare il perché di questo percorso in cinque conferenze al quale ci accingiamo a Genova, questo di Orefici ci sembra il migliore per spiegare il perché di quello sforzo di ricordare per conservare e rendere più fruibili le cose e le parole degli ex manicomi genovesi, al quale ci dedicheremo sabato 12 negli spazi densi di memoria e di suggestione dell’ex manicomio di Quarto.
aggiunto video
aggiunto video