È di questi giorni la notizia riportata dai giornali locali che a Reggio Emilia, all’interno degli asili più belli del mondo ci sarebbero stati dei maltrattamenti da parte di una educatrice nei confronti di alcuni bambini (cfr: Reggio: minacciava i bambini, maestra d'asilo denunciata per maltrattamenti ).
Le riprese audio e video ad opera degli inquirenti non dovrebbero lasciare soverchi dubbi su ciò che “alcuni genitori di bambini di 4-5 anni” avevano segnalato qualche tempo fa agl’inquirenti. Cionondimeno in questa sede a me non interessa entrare nel merito dell’evento specifico: su questo ormai – come è possibile desumere anche dall’articolo più su linkato – esiste un’inchiesta da parte della magistratura, ed un’indagine interna da parte dell’Istituzione comunale nidi e scuole per l’infanzia, che faranno luce su ciò che è accaduto.
In questa sede mi preme ragionare con calma sul tema del maltrattamento ai minori, ed in particolar modo sugli aspetti particolari che assume il maltrattamento all’interno delle istituzioni prescolari, laddove l’adulto educatore si trova di fronte a degli “infanti”: etimologicamente a dei “senza parola”, cioè a dei soggetti che ancora non hanno (pienamente) il dono della parola.
Ora è noto che una delle caratteristiche del rapporto educativo è il dato dell’asimmetria. Che è innanzitutto un’asimmetria di saperi, ma anche – e su questo non ci si fa caso, fino al momento in cui accadono cose come quelle che pare siano accadute a Pratofontana – un’asimmetria di poteri, che è tanto più accentuata quanto più piccolo ed indifeso è il discente di fronte al quale si trova l’educatore.
Un’asimmetria di poteri a partire dalla quale, soprattutto quando l’educatore per un verso o per l’altro risulta poco disposto a padroneggiare la propria impulsività, può innescarsi un processo che induce alla tentazione di abusare dell’asimmetria, in maniera più o meno evidente a seconda di vari fattori, fra i quali spesso c’è alle spalle una situazione di burn out più o meno conclamato.
Il maltrattamento è solo una delle forme che può assumere l’abuso, e neanche quella solitamente che produce più indignazione all’interno dell’opinione pubblica, che solitamente appare più sconvolta dagli abusi di natura sessuale. Ed anzi almeno in scuola elementare in passato l’uso delle punizioni corporali era spesso auspicata dai genitori e da loro inquadrata all’interno di una concezione dell’educazione intesa come correzione, che veniva teorizzata e praticata spesso e volentieri anche a casa.
Inutile dire che l’accettazione dei metodi correttivi come metodi benefici contribuiva a coprire, almeno agli occhi degli adulti, le azioni più francamente pervertite[1].
Oggi le cose non stanno più così, ed anzi – come io stesso qui ho avuto modo di sottolineare (cfr: http://www.psychiatryonline.it/node/5282 – i genitori non sono più disposti a ribadire la loro vecchia alleanza con i docenti.
Le tentazioni all’abuso però permangono; sono potenzialmente presenti in ciascuno di noi; e sicuramente più immanenti nelle situazioni in cui per un verso o per l’altro vige una situazione di asimmetria. E cioè non solo nelle istituzioni totali, ma anche in quelle di tipo educativo e assistenziale, e principalmente in quelle in cui il soggetto di cui ci si prende cura è un in\fante, un ‘senza parola’.
Allora come fare a difendere i deboli ed i senza parola da questi accidenti, purtroppo possibili? Le risposte sono molteplici e sono affidate alle varie comunità di operatori: quelli della psichiatria ad esempio hanno inventato i servizi territoriali proprio per dare dignità di soggetto agli ‘ospiti’ dei manicomi.
In Emilia e Romagna la nascita di strutture di coordinamento “parzialmente orizzontali” (i cosiddetti collettivi) che vedevano coinvolte tutte le operatrici fecero da volàno,- insieme alla “gestione sociale”, cioè alla partecipazione attiva dei genitori – per il passaggio dei nidi e delle scuole per l’infanzia dall’assistenza all’educazione, e questo ormai è risaputo. Ma, attraverso una mobilitazione di tutte le educatrici che fece parlare di “missionariato sociale” fece anche da scudo nei confronti dei possibili rischi derivanti dall’asimmetria: e su questo non si è riflettuto abbastanza.
Fin dall’inizio l’esperienza malaguzziana, pur condividendo con gli altri luoghi dell’educazione e della sperimentazione prescolare il dato della gestione sociale – al contrario di ciò che stava avvenendo da altre parti – rimase come incapsulata all’interno di un modello sostanzialmente gerarchico, simile ad una direzione didattica, in cui la posizione delle pedagogiste sostanzialmente marginalizzava il collettivo sia rispetto alla programmazione, sia rispetto all’attenzione a questo tipo di tentazioni che – come abbiamo cercato di dimostrare – possono insorgere anche nel luogo educativo più avanzato.
Pur all’interno di questi limiti in un primo tempo le pedagogiste reggiane erano molto presenti nelle singole istituzioni, e soprattutto lo erano sul piano delle problematiche reali emergenti, cioè sui più vari punti di difficoltà incontrati qua e là nel fare quotidiano.
Paradossalmente la promozione a scuole più belle del mondo, oltre che un allontanamento dai propositi educativi iniziali di tipo compensativo, sembra avere prodotto da un lato un disinteresse della dirigenza rispetto a ciò che può accadere (!), anche nelle situazioni più avanzate, in queste aree più problematiche legate alla quotidianità; dall’altra un investimento sulla facciata, che deve essere sempre lucente. Ciò evidentemente ha prodotto una loro cecità elettiva nei confronti dei problemi di tutti i giorni. Cecità sulla quale a mio avviso devono al più presto avviare una seria riflessione.
Le riprese audio e video ad opera degli inquirenti non dovrebbero lasciare soverchi dubbi su ciò che “alcuni genitori di bambini di 4-5 anni” avevano segnalato qualche tempo fa agl’inquirenti. Cionondimeno in questa sede a me non interessa entrare nel merito dell’evento specifico: su questo ormai – come è possibile desumere anche dall’articolo più su linkato – esiste un’inchiesta da parte della magistratura, ed un’indagine interna da parte dell’Istituzione comunale nidi e scuole per l’infanzia, che faranno luce su ciò che è accaduto.
In questa sede mi preme ragionare con calma sul tema del maltrattamento ai minori, ed in particolar modo sugli aspetti particolari che assume il maltrattamento all’interno delle istituzioni prescolari, laddove l’adulto educatore si trova di fronte a degli “infanti”: etimologicamente a dei “senza parola”, cioè a dei soggetti che ancora non hanno (pienamente) il dono della parola.
Ora è noto che una delle caratteristiche del rapporto educativo è il dato dell’asimmetria. Che è innanzitutto un’asimmetria di saperi, ma anche – e su questo non ci si fa caso, fino al momento in cui accadono cose come quelle che pare siano accadute a Pratofontana – un’asimmetria di poteri, che è tanto più accentuata quanto più piccolo ed indifeso è il discente di fronte al quale si trova l’educatore.
Un’asimmetria di poteri a partire dalla quale, soprattutto quando l’educatore per un verso o per l’altro risulta poco disposto a padroneggiare la propria impulsività, può innescarsi un processo che induce alla tentazione di abusare dell’asimmetria, in maniera più o meno evidente a seconda di vari fattori, fra i quali spesso c’è alle spalle una situazione di burn out più o meno conclamato.
Il maltrattamento è solo una delle forme che può assumere l’abuso, e neanche quella solitamente che produce più indignazione all’interno dell’opinione pubblica, che solitamente appare più sconvolta dagli abusi di natura sessuale. Ed anzi almeno in scuola elementare in passato l’uso delle punizioni corporali era spesso auspicata dai genitori e da loro inquadrata all’interno di una concezione dell’educazione intesa come correzione, che veniva teorizzata e praticata spesso e volentieri anche a casa.
Inutile dire che l’accettazione dei metodi correttivi come metodi benefici contribuiva a coprire, almeno agli occhi degli adulti, le azioni più francamente pervertite[1].
Oggi le cose non stanno più così, ed anzi – come io stesso qui ho avuto modo di sottolineare (cfr: http://www.psychiatryonline.it/node/5282 – i genitori non sono più disposti a ribadire la loro vecchia alleanza con i docenti.
Le tentazioni all’abuso però permangono; sono potenzialmente presenti in ciascuno di noi; e sicuramente più immanenti nelle situazioni in cui per un verso o per l’altro vige una situazione di asimmetria. E cioè non solo nelle istituzioni totali, ma anche in quelle di tipo educativo e assistenziale, e principalmente in quelle in cui il soggetto di cui ci si prende cura è un in\fante, un ‘senza parola’.
Allora come fare a difendere i deboli ed i senza parola da questi accidenti, purtroppo possibili? Le risposte sono molteplici e sono affidate alle varie comunità di operatori: quelli della psichiatria ad esempio hanno inventato i servizi territoriali proprio per dare dignità di soggetto agli ‘ospiti’ dei manicomi.
In Emilia e Romagna la nascita di strutture di coordinamento “parzialmente orizzontali” (i cosiddetti collettivi) che vedevano coinvolte tutte le operatrici fecero da volàno,- insieme alla “gestione sociale”, cioè alla partecipazione attiva dei genitori – per il passaggio dei nidi e delle scuole per l’infanzia dall’assistenza all’educazione, e questo ormai è risaputo. Ma, attraverso una mobilitazione di tutte le educatrici che fece parlare di “missionariato sociale” fece anche da scudo nei confronti dei possibili rischi derivanti dall’asimmetria: e su questo non si è riflettuto abbastanza.
Fin dall’inizio l’esperienza malaguzziana, pur condividendo con gli altri luoghi dell’educazione e della sperimentazione prescolare il dato della gestione sociale – al contrario di ciò che stava avvenendo da altre parti – rimase come incapsulata all’interno di un modello sostanzialmente gerarchico, simile ad una direzione didattica, in cui la posizione delle pedagogiste sostanzialmente marginalizzava il collettivo sia rispetto alla programmazione, sia rispetto all’attenzione a questo tipo di tentazioni che – come abbiamo cercato di dimostrare – possono insorgere anche nel luogo educativo più avanzato.
Pur all’interno di questi limiti in un primo tempo le pedagogiste reggiane erano molto presenti nelle singole istituzioni, e soprattutto lo erano sul piano delle problematiche reali emergenti, cioè sui più vari punti di difficoltà incontrati qua e là nel fare quotidiano.
Paradossalmente la promozione a scuole più belle del mondo, oltre che un allontanamento dai propositi educativi iniziali di tipo compensativo, sembra avere prodotto da un lato un disinteresse della dirigenza rispetto a ciò che può accadere (!), anche nelle situazioni più avanzate, in queste aree più problematiche legate alla quotidianità; dall’altra un investimento sulla facciata, che deve essere sempre lucente. Ciò evidentemente ha prodotto una loro cecità elettiva nei confronti dei problemi di tutti i giorni. Cecità sulla quale a mio avviso devono al più presto avviare una seria riflessione.
[1] Uso qui il termine pervertimento perché come sottolineano alcuni psicoanalisti ci riconduce non tanto alla perversione, quanto alla cattiveria.
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