di Francesca Spinozzi, psicologa psicoterapeuta, C.S.M. Sant’Egidio alla Vibrata (TE), Associazione Rete Italiana Noi e le Voci
Agli intensi impegni di lavoro al Centro di Salute Mentale si somma per me in questi giorni la preparazione altrettanto intensa della partecipazione all’Expo della Salute Mentale a Roma, con il carico di emozioni ed aspettative che naturalmente l’accompagnano, perché saremo protagonisti in uno dei gruppi di approfondimento.
L’Expo (VIII Congresso Nazionale Centri Diurni) si svolgerà a Roma, presso l’Ex Cartiera Latina – Parco Regionale dell’Appia Antica, dal 9 al 12 maggio 2019 e la mia mente è in fermento per cercare idee, immagini, sfide e tutto ciò che può venire dai nostri incontri di gruppo, che possano stimolare il dibattito sulle voci e sugli uditori.
Avere visibilità a livello nazionale del lavoro svolto con il gruppo Noi Due è un’occasione imperdibile, che ci permette di poter portare la nostra esperienza e l’importanza del protagonismo degli utenti nel percorso di gestione di un fenomeno particolare com’è quello delle voci. È un onore per me essere tra i relatori, nella conduzione di un gruppo di discussione sugli uditori di voci, e poter collaborare con illustri colleghi. Inoltre sono molto felice che un membro del gruppo Noi Due, proprio la signora che ha suggerito il nome del gruppo, mi accompagnerà in quest’avventura.
Cerco allora di mettere a fuoco le cose più importanti e traccio mentalmente le caratteristiche del gruppo, un’opportunità per gli uditori di voci di avere uno spazio di approfondimento delle proprie esperienze al di fuori della “psichiatrizzazione” del fenomeno, alla ricerca di significati e del senso dei vissuti, con l’obiettivo non di far sparire le voci ma di riuscire ad accettarle, gestirle e conviverci serenamente. Come abbiamo già detto, il gruppo Noi Due nasce il 13 marzo 2017 con l’intento di dare ai partecipanti uno spazio di riflessione, studio e ricerca. È richiesta la partecipazione attiva degli utenti, il mutuo aiuto è una conseguenza di questi processi di condivisione. Vengono selezionati soggetti che sentono le voci e che sono capaci e motivati a lavorare in gruppo, gli invii sono effettuati di solito dai colleghi Psicologi e Psichiatri del C.S.M. Il gruppo è aperto, per cui gli ingressi e le uscite possono avvenire in qualsiasi momento. La decisione di non partecipare più al gruppo va possibilmente condivisa con i facilitatori e gli altri partecipanti o almeno con la propria équipe di riferimento e valutata insieme. Finora è stata concordata una sola uscita dal gruppo a causa delle condizioni di salute di una paziente, che ne impediscono la partecipazione. Le altre assenze sono temporanee, legate ad un periodo di impossibilità di partecipazione per motivi di orari di lavoro, difficoltà di spostamento e in un caso per la decisione di prendersi una pausa dagli impegni al Centro.
L’intento del gruppo è quello di raccontare e condividere l’esperienza di ognuno, aiutare se stessi e gli altri attraverso il sostegno reciproco, imparare ad accettare le voci, trovare insieme modi per affrontare e gestire le voci e per vivere la vita di tutti i giorni, anche i momenti piacevoli, nonostante le voci. È importantissima l’attenzione al contesto, quindi è centrale la biografia del paziente, così come il contesto culturale e i suoi vissuti e tutto ciò che riguarda il mondo interno di ciascun partecipante.
Si tratta di un vero e proprio cammino verso il recovery, costituito da vari passi: innanzitutto incontrare qualcuno che mostri interesse verso l’uditore come persona, poi dare speranza, indicando una via d’uscita e una normalizzazione dell’esperienza, in più incontrare persone che accettano le voci come reali ed essere accettati come uditori di voci dagli altri ma anche da se stessi, diventando così padroni delle proprie voci. Bisogna assumere un interesse attivo verso le proprie voci e riconoscerle come personali. Un altro passo è cambiare la struttura di potere tra la persona e le voci, riorganizzando il modo di affrontamento (ad esempio dare alle voci un certo orario durante il quale si è disposti a parlare con loro, e il resto della giornata dire “non adesso, ma all’ora che abbiamo stabilito”), liberandosi dal ruolo di vittima, affrontando i “demoni” del proprio passato. In questo modo si arriva a sfidare il potere delle voci e alla fine a riprendersi il potere.
Nel percorso di recovery occorre iniziare a fare delle scelte e a cambiare il rapporto con le voci, arrivare a riconoscere finalmente le proprie emozioni e infine accettarle.
Il nostro setting è attualmente la sala riunioni al C.S.M., in cui sono sistemate le sedie in cerchio, per creare l’ambiente ottimale per facilitare lo scorrimento della narrazione e delle energie tra i partecipanti e favorire un clima di familiarità e vicinanza.
Il gruppo si svolge il mercoledì dalle 16 alle 18, con una breve pausa dopo la prima ora. Ma siamo “nati” nella sala attività del Centro Diurno, sempre in una disposizione circolare e svolgevamo il gruppo il lunedì dalle 15 alle 17, poi per esigenze di servizio dall’aprile di quest’anno abbiamo dovuto cambiare giorno e location. Lo stile di conduzione non è direttivo, i facilitatori hanno il compito appunto di facilitare la comunicazione; a volte siamo noi facilitatori a lanciare l’input per la discussione, cercando di seguire le indicazioni del manuale di Ron Coleman e Mike Smith “Lavorare con le voci”, spesso si lascia fluire la comunicazione da quanto emerge spontaneamente dai partecipanti, partendo da racconti che si riferiscono alla vita attuale o a episodi del passato. I protagonisti sono gli uditori e il loro lavoro di ricerca e studio.
Durante gli incontri i partecipanti parlano di com’è andata con le voci e talvolta si riflette anche su altri argomenti, episodi della vita recente e passata, con divagazioni che apparentemente sembrano esulare dal tema centrale. In realtà tutto è attinente alle voci e ai loro contenuti, proprio perché esse parlano e ci parlano dell’uditore e sono strettamente legate ai suoi vissuti e alle sue esperienze quotidiane. Ogni incontro viene registrato e, attraverso la “sbobinatura” e la trascrizione su carta di quanto avvenuto, si riescono a cogliere i movimenti psichici e le dinamiche interne, che durante la partecipazione diretta, in quanto immersi nel clima emozionale, possono sfuggire anche al conduttore più attento. Spesso esco da un incontro di gruppo con l’impressione che si è andati da un argomento all’altro in maniera casuale, invece, riascoltando la registrazione sorprendentemente emerge un filo logico interno, che svela l’inconscio all’opera. Spesso si possono cogliere i movimenti difensivi quando si toccano aspetti particolarmente carichi di forti emozioni; a volte c’è la fuga nell’ironia e nella sdrammatizzazione, che aiutano a stemperare l’intensità di certi vissuti e sentimenti, difficili da affrontare in quel momento. A volte ci si scontra, per divergenze di vedute o per fraintendimenti, ma anche il conflitto è utile per la costruzione di nuovi e più profondi significati e per rafforzare i legami, attraverso la sua risoluzione.
Attraverso le registrazioni, inoltre, si possono notare le criticità durante le sedute e ciò è utile a noi facilitatori per rimodulare l’approccio e alcune modalità di intervento.
Dunque la comunicazione all’interno del gruppo veicola emozioni e sentimenti, che coinvolgono tutti i partecipanti, ed è il contesto di gruppo, con la coesione che si crea, a favorire un tale tipo di narrazione.
Una partecipante, che chiameremo Rosa, un nome di fantasia per tutelarne la privacy, è sempre allegra e sorridente e non vuole mai parlare di contenuti dolorosi. Ha impiegato molto tempo prima di riuscire a condividere la sua storia e quando lo ha fatto, dietro lo stimolo di un partecipante, che aveva colto il suo bisogno di “tirare fuori il rospo”, ha raccontato di un abuso subito in silenzio per anni, con un misto di rabbia, vergogna, rimorso, senso di colpa, sotto i quali si percepiva il suo desiderio di essere amata. Il suo sorriso e le sue voci “belle” la consolano e la confortano e le danno la speranza di poter finalmente vivere un amore vero.
E poi c’è Paolo (altro nome di fantasia), che racconta le sue esperienze traumatiche del passato con un distacco emotivo che sconcerta e che mostra in tutta la sua forza la difesa eretta ad emozioni intense e intollerabili. Quando nella notte la voce lo sveglia e lo costringe ad alzarsi, esse lo travolgono, il controllo cosciente si allenta e Paolo ubbidisce, fuori dalla sua volontà, agli ordini della voce, che lo spinge a mettere in atto comportamenti distruttivi, ponendolo così di fronte ai fantasmi del proprio passato e concedendogli uno sfogo alla sua rabbia.
Mi piace concludere con una frase del professor Borgna, già da me utilizzata in convegni in cui ho esposto il lavoro svolto nei gruppi che conduco, che sintetizza l’approccio terapeutico orientato alla persona, in cui l’umanità del professionista e dell’utente è in primo piano:
Nello svolgimento di ogni attività riabilitativa si ha la coscienza del limite, e talora della sconfitta, della tecnica: di ogni tecnica assolutizzata e trionfalizzata…”La tecnica non pensa”, come dice Heidegger; ma questo rimanda ovviamente alla ideologia della tecnica: alla sua egemonia indifferenziata e insensibile all’angoscia e alle sofferenze umane… Anche la tecnica è essenziale nella organizzazione di un discorso riabilitativo; ma alla condizione che essa si accompagni (sia subalterna) alla fondazione di un’intersoggetività radicale e di un clima psicologico e umano che consenta ai pazienti di avvertire (di sentire) intorno a sé non fredde applicazioni tecnologiche e strumentali ma presenze umane capaci di ascoltare e di fare, insieme, assistenza e terapia.
(E. Borgna, Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Feltrinelli, Milano, 1995)
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