Nel mio precedente intervento mi chiedevo il motivo dell’interesse spesso patologico per i serial killer e le loro vicende immaginarie. Mi è venuto in aiuto un bel film Truman Capote: a sangue freddo, ripreso in occasione della morte del grande attore Philip S. Hoffmann. La vicenda riguarda lo scrittore americano che casualmente iniziò a scrivere un articolo di costume su un efferato delitto in Kansas e si avvicinò ai due balordi che avevano ammazzato i quattro membri della famiglia Holcomb. Capote si pone inizialmente con l’animo del ricercatore/analista in un ambiente campagnolo, che giudica un po’ dall’alto della sua cultura newyorkese, come spesso facciamo noi nelle perizie. A poco a poco si lascia prendere dalla vicenda e in particolare dalla personalità di uno dei due assassini, Perry che non è uno sprovveduto, ma è alla sua maniera sensibile e ossessionato dalla cultura, ma spietato nella realtà. Nel film Capote per spiegare il suo coinvolgimento si esprime con una frase efficace. “ Perry ed io siamo stati allevati nella stessa casa, io sono uscito dalla porta anteriore e lui è uscito dal retro.” Una delle ipotesi sul successo dei serial killers mediatici si basa sull’esagerazione grottesca della violenza che avrebbe un effetto anestetico sugli spettatori. Questo è probabilmente vero per i film dedicati al pubblico più giovane. Al contrario Capote con la sua frase ci mette davanti ad una domanda inquietante. Questi atti di sadismo, di violenza gratuita nella realtà e nei serial sembrano terribilmente veri e forse li osserviamo cercando qualcosa di profondamente insano che con gradi e sfumature diverse appartiene a ciascuno di noi. In più nei serial killers sembra esserci una logica nel male, un filo rosso possibilmente mistico/demoniaco che lega atti che spesso nella realtà sono frutto di banali frustrazioni e di un mancato controllo degli impulsi. La serialità induce meccanismi di coerenza e sospensione avvincenti per la nostra mente. Ho ricordato gli scritti di Anna Freud sui bambini oggetto di violenza e sull’identificazione con l’aggressore. Come i serial killer televisivi, Perry è una persona intelligente, curiosa, ma contemporaneamente massacra per 50 dollari quattro persone tra cui due adolescenti. Capote non riesce ad abbandonarlo e fino alla fine cerca di capire. Ma è possibile capire e come ci si può rapportare a simili patologie/violenze? Perry invano cercherà l’infermità mentale con un atteggiamento tra il furbo e il sincero: Capote rifiuta di considerarlo folle. Non sono problemi semplici e queste storie da un lato attraggono, ma contemporaneamente generano sgomento e spesso la repulsa dell’impotenza. Consiglio la lettura di “Hanno preferito le tenebre” di Antonio Monda in cui sono descritte dodici storie del male, senza compiacimenti e senza facili emozioni.
Sono particolarmente sensibile al tema della pericolosità sociale per vari motivi. Faccio parte di una generazione di psichiatri che ha scotomizzato o minimizzato il problema dell’aggressività connessa con la malattia mentale. Negli attuali interventi su pol-it vedo che abbiamo numerosi eredi che sminuiscono la possibile violenza dei nostri pazienti o non se ne vogliono occupare. In passato spinto da queste mie idee, mi sono impegnato perché nessun paziente finisse in OPG e negli anni in cui ero responsabile del DSM ho cercato di far uscire i pazienti della mia zona dai vari OPG, sicuramente non diventando popolare tra i famigliari e i concittadini del reo. Nella mia attuale professione collaboro spesso con i magistrati e faccio parte della categoria dei “periti” unanimemente condannata nel dibattito sul caso Gagliano. Devo dire forse sono in una città fortunata, ma ho sempre trovato collaborazione nei giudici a patto che impostassi nella perizia una tutela della società. È possibile questo percorso, ma vuol dire assumersi anche dei rischi perché quando si scrive che il sig. X non era pericoloso, si esprime un giudizio sicuramente meditato e basato sulle conoscenze e sull’esperienza ma passibile di errore. In questi ultimi anni si può richiedere anche la necessità di una riabilitazione alternativa all’OPG con affidamento al DSM e a strutture residenziali. Diventa più complessa la collaborazione con i DSM in parte per le risorse limitate, ma penso anche per un’impostazione che è cambiata nel tempo. Una teorizzazione della malattia mentale biologica può portare a una visione ontologica del male e dell’aggressività e quindi a prendere le dovute distanze. Anche un’impostazione psicodinamica pone interrogativi: la coazione a ripetere non mi sembra un concetto desueto. Anche se alcuni pazienti sono difficili e ci mettono continuamente alla prova, ho sempre ritenuto un fallimento quando la laro malattia li portava a compiere reati. La situazione diventa ancora più complessa perché facendo perizie, si viene a conoscenza di una parte della malattia mentale che è fuori dall’intervento dei servizi, che manifesta i suoi sintomi attraverso reati. Non mi riferisco all’evanescente categoria dei disturbi di personalità, ma a soggetti sicuramente paranoici, su cui però l’intervento terapeutico e assistenziale è difficile e non poco. Il problema non è quindi se ci riguardano, ma se è possibile fare qualcosa per evitare ricadute. Secondo me i percorsi riabilitativi sono una conquista della psichiatria e della giustizia, mettendo però in conto che esiste una percentuale non grande, ma presente di soggetti in cui le ricadute non sembrano evitabile.
Un’ultima considerazione sulle perizie alla luce del DSM V: è facile accusare la magistratura di richieste impossibili alla psichiatria, quando siamo noi che allarghiamo il nostro campo di competenze e continuiamo ad utilizzare categorie generiche che possono essere incollate su quasi tutti i soggetti. Mi riferisco ai disturbi di personalità che a parte il disturbo borderline sono evanescenti e all’estensione del concetto di depressione anche a condizioni psichiche che per me sono fisiologiche. Cito una recente perizia nella mia zona in cui a un insegnante che aveva rapporti sessuali con le sue allieve è riconosciuto un disturbo narcisistico di personalità e dal perito di parte addirittura una “dimensione psicotica del disturbo di personalità”. Chi non è affetto da disturbo narcisistico di personalità scagli la prima pietra?
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