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AUTOSOVVERTIAMOCI, ALMENO

4 Giu 13

A cura di Giancarlo Pera

Chiunque di noi lavori in un servizio che vorrebbe di salute mentale, non può non vivere con dolore la sensazione pervasiva spesso quasi intima di un’agonia che sembra esistere solo per lui
Può, è vero, raccontarsi che quella condizione incalzante di alienità è un effetto tra gli altri di chissà quale fenomeno globale del quale fornire all’impronta sofisticate interpretazioni sociologiche, economico-finanziarie, e anche, perché no, (geo)politiche, ma quel che resta di tanto esercizio è sempre e comunque l’estraneità angosciosa a ciò che gli accade intorno, anzi addosso
Una maniera altra di far fronte a tanto strazio potrebbe essere allora supporre responsabilità meno ovvie e generiche, magari addirittura rinvenendo le proprie, personali e ‘di area’, nella genesi del contingente, scoprendo perfino quanto questo sia immanente a quel che si sarebbe voluto altrimenti, senza rinunciare a cospirare esiti ulteriori, che poi sono più originari che originali o meglio originali perché dell’originario è perduta ‘virtute e canoscenza’
I replicanti che sempre più agguerriti migrano dalle costellazioni (dif)formative pubbliche e private ai (dis)servizi privatistici e socialmente irresponsabili, in forme masterizzate d’ignoranza specializzata e d’arroganza accreditata,  non incarnano un fato maligno che perseguita la nostra cristallina vocazione  ma rivelano a chi ancora abbia voglia di accorgersene, che sono, più di qualche sorprendente eccezione, prodotti, ancorché imbarazzanti, delle nostre scelte, che solo attitudini negazioniste e revisioniste potrebbero aggettivare come obbligate, o addirittura innocenti
Abbiamo snobbato le accademie e ci siamo riversati in strada, convinti che l’evidenza legittimata fosse quella del ‘fare’ concreto, gravoso, algico di ogni giorno, e i risultati attesi e le attese da soddisfare fossero (s)misurate e (im)pertinenti rilevanze esistenziali e sociali di cui da sempre avere(pre)valente consapevolezzaa e (iper)visione egemone        
Nel frattempo, altrove e altrimenti, ‘altri da noi’ allestivano dovunque e comunque possibile, laboratori di modificazione genetica del senso e tracciavano itinerari privilegiati di occupazione delle coscienze e di rimozione delle contraddizioni, al riparo delle nostre stesse distrazioni
Nello stesso fra-tempo, altri, stavolta‘tra noi’, adottavano glosse istituzionali, posture organizzative, stilemi operativi, maschere professionali, suggestive di continuità trasformativa, in realtà intese a disporne versioni  invalidate e invalidanti , a cui quelle più furbe dell’ideologia manageriale, alle quali forniscono alibi di tolleranza, restano indifferenti, se non addirittura si mostrano compiacenti
La melassa del pensiero unico e del suo contradditorio di maniera, sigilla in cammei opacizzati i relitti oramai indecifrabili di memorie,culture, sensibilità, esperienze, utopie di cambiamento che nemmeno più hanno ambizione di riciclaggio
Possiamo continuare imperterriti a collezionare acronimi, a recitare mantra, a scavare trincee, magari dalla parte opposta a quella da cui il nemico presumibilmente intende sferrare l’attacco finale, e ad invenire sul fondo reperti  imprevisti intorno ai quali edificare vecchi musei
L’ottimismo della volontà a cui ci appelliamo stremati per aver ragione della nostra stanchezza  o per aver rispetto della nostra irrilevanza, è però ben poca cosa se dimentichiamo di accompagnarlo a quel pessimismo della ragione che sia ancora e di più paradigma della crisi, attraverso e oltre ogni crisi dei paradigmi
Se pensiamo, e sappiamo quanto tardivamente, a ‘scuole alternative’ siamo almeno consapevoli che stiamo da tempo perdendo i maestri e non abbiamo ancora i discepoli, e, a ben vedere nemmeno gli aspiranti
Se pensiamo, e sappiamo quanto minoritariamente, a ‘aziendalità illuminate’ siamo almeno storicamente scettici sulla trasferibilità delle storie e la traducibilità delle ambizioni  dalla strada al Palazzo
Se pensiamo, e sappiamo quanto innaturalmente, a sortite tattiche che rompano l’assedio e scompaginino le certezze altrui, siamo almeno attrezzati per l’una e l’altra parte del conflitto che a parole e nei fatti è negato perfino esistere, chè anzi non c’è nemmeno assedio  perché non è data resistenza
Sono tentato da ricorrere anch’io alla contundenza sfidante di una citazione, e se dovessi cedere, mi troverei ad evocare oggi più facilmente Simon Weil, là dove esorta a ‘concepire i problemi insolubili nella loro insolubilità, quindi nel contemplarli, fissamente, instancabilmente, per anni, senza nessuna speranza, nell’attesa’
Poi mi sovviene la lunga sequenza di fissità istituzionali e diagnostiche dietro le quali ci siamo affannati e ci affanniamo ancora in pochi a intercettare l’irriducibilità della persona e la visionarietà comune, e mi accade d’intravedere negli interstizi di quel dolore e di quella speranza il profilo supponente di chi non perde mai e casomai sempre ci guadagna, e in dovizia di attributi aggiornati è sempre quello di quarant’anni fa, e allora, perdio, mi viene voglia d’esserci, invece e nonostante, senza cinture di sicurezza e cinghie di trasmissione, perché non so fare altro infine, non so essere che così, dalla parte sbagliata, con irragionevoli ragioni e sconvenienti modi, ‘compagno’ di chi nemmeno si sente in diritto d’aver diritti,e di chi per quei diritti piglia tutto a rovescio
Se ci ritroviamo ancora qui mi farà piacere, perché i problemi veri non sono quelli per cui si hanno già le soluzioni ma quelli per cui la domanda rimbalza indietro senza una risposta immediata e perciò apre uno spazio di libertà, di giustizia e di sapienza

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1 commento

  1. gianmaria.formenti@tin.it

    Io lo chiamo mettersi in
    Io lo chiamo mettersi in gioco affettivamente, a volte anche rischiando di ritrovarsi da soli: cosa che fortunatamente o fortunosamente a me non è ancora capitato.

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